Conta le stelle, se puoi
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Conta le stelle, se puoi

  1. 272 pagine
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Conta le stelle, se puoi

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Moise Levi ha solo ventitre anni la mattina di fine estate in cui lascia Fossano portandosi dietro un carretto di stracci. Vuole andare a Torino a far fortuna, e non può immaginare che quello sia solo l'inizio di una lunga storia. Perché Moise possiede un fiuto eccezionale per gli affari e per i sentimenti: darà il via a una florida ditta di commerci nel ramo tessile, e avrà due mogli, sei figli e un'infinità di nipoti. Dopo la grande guerra mondiale e quel «brutto spettacolo» della marcia su Roma, finalmente la vita di tutti ha ripreso il suo corso. Meno male che nel 1924 a quel «brutto muso di Mussolino» gli è preso un colpo secco, altrimenti la storia di nonno Moise e della sua discendenza sarebbe stata molto diversa. Invece la famiglia Levi - con i suoi amori e i suoi affanni, i suoi commerci e le sue tribolazioni, le grandi cene di Pasqua e i lunghi silenzi delle stanze chiuse - diventa sempre piú numerosa nella casa di via Maria Vittoria, costruita proprio lì dove una volta c'era il ghetto e adesso non c'è piú.
Elena Loewenthal non ha riscritto la Storia all'incontrario: ha provato piuttosto a mettere la vita al centro, dove la morte ha cancellato tutto. Ha lasciato scorrere la quotidianità dell'esistenza, con la sua allegria e insensatezza per vedere come le gioie e le fatiche di ogni giorno possano fondersi «in una cosa sola che non è troppo distante dalla felicità».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858400241

Capitolo decimo

Lo Stato ebraico. Ovvero: altro che sbattere il muso,
fu una gran culata!

Quella mattina Amos Gur nato Marek Mandelbaum Zithomirsky stava pensando alla Russia. Quel pensiero non era affatto campato per aria: qua e là s’alzavano delle folate gelide di neve che turbinavano per un po’ rasoterra, depositando al suolo chiazze di minuscoli e appuntiti ghiaccioli. Il cielo non era piú sbiancato dalla lenta caduta dei fiocchi, rifletteva ora un’iridescenza vagamente rosa che ai margini dell’orizzonte si confondeva nel grigio rarefatto dei monti piú vicini. Mentre laggiú, ben oltre il confine del deserto, dove la terra precipitava verso la depressione del Mar Morto e oltre ancora, i monti di Moab, invisibili all’occhio ma non alla memoria, tingevano di viola la fine del mondo.
Amos Gur, circonciso circa venticinque anni prima di quell’algida mattina gerosolimitana all’indomani della grande nevicata, circonciso con il nome di Marek (Avroimele) Mandelbaum Zithomirsky, era diventato assai piú brevemente Amos Gur poco dopo il suo sbarco ad Haifa. Un nome svelto, ci voleva in quella Terra Promessa tutta da costruire, un nome che a scandirlo, ripeterlo e scriverlo non facesse perdere tempo prezioso. I primi peli della barba gli erano spuntati proprio durante le interminabili traversate di interminabili mari – ne finiva uno e ne cominciava un altro – e lui era diventato grande di colpo con quel nome cosí corto, fatto apposta per lui – piccolo e lesto e sempre vigile.
Già, non era diventato grande quel giorno quando, tornato dalla scuola, a casa non aveva piú trovato nemmeno un pezzo della sua famiglia – né mamma né papà né le due sorelle maggiori e il piccino in culla – ma soltanto un silenzio concreto come la tavola rovesciata, una pentola capovolta sulla stufa, una pozza di minestra per terra e due grosse gocce di sangue ormai asciutto sopra il letto dei suoi genitori. La casa era fuori dal paese, non tanto ma abbastanza perché nessuno avesse sentito le urla e poi lo strascichio dei corpi sul fango gelato. Forse, se li avesse trovati ancora là, morti ma in casa, Marek che divenne Amos avrebbe perso la parola per lo sgomento. Invece li avevano portati via, abbandonandoli tutti insieme in un fossato che delimitava i campi di patate, un fossato dove d’estate si trascinava un rivolo d’acqua torbida. Amos Gur non era diventato grande negli anni che seguirono, vissuti un po’ nell’istituto e un po’ sotto la distratta tutela del movimento e dei suoi seguaci, ad aspettare di farsi trovare dalla vita vera, in Terra Promessa. Non era diventato grande neppure sui banchi di scuola, dove non trovava nulla che fosse degno di essere imparato sul serio. Nulla che fosse utile o paragonabile alla vita vera, che l’avrebbe aspettato ancora per un po’, ma non per sempre.
Aveva sedici anni e mezzo quando partí, insieme ad altri due del movimento molto piú anziani di lui. E non divenne grande nemmeno nelle infinite settimane di accidentato viaggio. Solo quando sbarcò al porto di Haifa e sentí la Terra Promessa sotto i piedi, calda e soda e accogliente come una donna, solo allora Amos capí che poteva diventare grande e lasciarsi alle spalle, come se appartenesse a un’era diversa che non sarebbe mai piú tornata nemmeno nella memoria, quel passato di bambino.
Cosí, appena sbarcato in Terra Promessa, aveva chiesto un rasoio ed era andato a farsi la barba.
Quella mattina di molti anni dopo, a Gerusalemme, Amos Gur si ritrovò suo malgrado a pensare alla Russia. Erano secoli che con metodica determinazione scacciava via il piú lontano possibile ogni rigurgito di memoria. Alla Russia non ci pensava piú (o almeno cosí credeva), da quando, sbarcato ad Haifa, aveva preso un nome nuovo e, arrivato al campo di transito, aveva chiesto un rasoio per farsi la barba per la prima volta in vita sua.
Ma come si faceva a non pensare alla Russia, quella mattina in una Gerusalemme imbiancata e intirizzita, con la neve del giorno precedente che scricchiolava sotto i piedi e delle insidiose chiazze di ghiaccio sul selciato? Maledì Ben Ammi che l’aveva spedito alla sessione del movimento come delegato del villaggio. Ci aveva messo tre giorni ad arrivare a Gerusalemme, un po’ a piedi e un po’ no, ma adesso quel tempo trascorso in viaggio gli parve incredibilmente breve, per aver coperto una distanza cosí immensa, una specie di eternità nello spazio. A Ghivat Ada la collina degli anemoni era già fiorita, mentre Gerusalemme era ostaggio di un inverno che riportava Amos suo malgrado laggiú, in Russia.
Insultò di nuovo Ben Ammi, le proprie scarpe e Gerusalemme, mentre sbucava fuori dal quartiere ebraico della Città Vecchia. Non sapeva nemmeno lui cosa c’era andato a fare. Quei vicoli, le ombre che passavano furtive, il viso di donna che aveva intravisto per un istante dietro una finestra, tutto laggiú l’aveva riportato di colpo in quel passato che faceva del suo meglio per dimenticare. Condotto da quelle stradine attorcigliate come budella in un catino dopo la mattanza, Amos era infine sbucato in una piazzetta dove il cielo grigio entrava dritto in un cumulo di rovine: ruderi di un’antica sinagoga. Dietro una piccola porta a vetri con un solo battente intelaiato nel legno scuro, baluginava una fioca luce intermittente. Dentro faceva caldo, e dal forno era appena uscito del pane. Amos ebbe anche un tè bollente, con una piccola zolletta di zucchero da tenere fra i denti sorseggiando. Proprio come laggiú.
Mentre la bevanda calda gli riempiva la bocca, pensò che aveva voglia di andar via da Gerusalemme. Pensò alla fattoria a Ghivat Ada, al fienile pieno, all’eucalipto che stormiva con una voce da donna al primo alito di vento. Uscì al freddo, infastidito dall’yiddish stretto del fornaio, cosí diverso da quello che si udiva al villaggio: un yiddish tiepido e arrotato, musicale.
Uscì quasi di corsa perché doveva essere piuttosto tardi e aveva ancora un buon tratto di cammino prima di arrivare a Ein Kerem dove, in una casa nascosta fra la vegetazione, non lontano dall’ospedale, si sarebbe tenuta la riunione del movimento.
Fuori dal quartiere ebraico non esisteva ancora la strada asfaltata a misura di automobili che ora costeggia le mura della città e finisce in un parcheggio ombreggiato da quattro melie, l’albero dei paternostri. Superato l’arco c’era un sentiero abbarbicato al pendio che si slargava appena oltre la curva, fra un bastione e l’altro. Eppure Ida giurava e spergiurava che lí ci fosse ancora il segno, persino dopo il 1967 e la riunificazione di Gerusalemme, quando allargarono e asfaltarono la strada per l’accesso al quartiere ebraico nella Città Vecchia.
– Ecco, vedi, qui.
– Vedete, bambini, proprio qui, su quel sasso.
– Lo vedi il segno, tesoro! Sí, proprio quello, bravo. Lí è caduta la nonna e ha conosciuto il nonno.
L’ultima ad accompagnare la bisnonna Ida al suo sasso della rimembranza è stata Maya, lei da una parte e il bastone appuntito dall’altra, e in mezzo quella vecchia ormai tutta pelle, ossa e sorriso. Una piccola lacrima era comparsa mentre passavano adagio davanti al negozio di ceramiche armene ed era rimasta appesa all’angolo dell’occhio per il breve tratto dritto della strada. La lacrima aveva perso l’equilibrio (proprio come la bisnonna Ida tanti anni prima), ed era cascata giú solo quando le due donne – una vecchissima e l’altra bambina – s’erano fermate sopra quel sasso del selciato che nonna Ida, a distanza di settant’anni, era pronta a giurare che fosse sempre lo stesso.
Amos, dal canto suo, se fosse stato ancora lí con loro invece di morire nel 1940 durante la guerra per colpa di una stupida palla di cannone in mezzo alla campagna, avrebbe giurato e ripetuto che lui la nonna l’aveva trovata già bell’e cosí, lunga distesa per terra con una gamba per aria.
Se Amos fosse stato ancora vivo, ora che la strada asfaltata conduce al quartiere ebraico della Città Vecchia, nonna Ida avrebbe protestato:
«Tu mi venivi incontro dalla direzione opposta, stavi guardando davanti a te e davanti a te c’ero io».
– Davanti a me, o meglio davanti al mio piede, c’era questo sasso qui, lo vedi, Maya? Un po’ piú largo e liscio degli altri. Proprio questo. E sul sasso c’era uno strato di ghiaccio e io ci ho messo il piede sopra e sono scivolata e patapumfete, sono volata cosí come un sacco di patate davanti al tuo bisnonno. Che gran culata!
Se quel giorno Amos fosse stato ancora vivo, con quella sua andatura lesta che non sarebbe affatto invecchiata con lui, avrebbe certamente preceduto di due o tre passi Ida e la loro bisnipote Maya. Poi si sarebbe fermato, avrebbe gettato un rapido sguardo verso i monti ad oriente, scavalcando con gli occhi il profilo nitido delle ultime colline gerosolimitane e del monastero scozzese immerso nel verde in cima a una di esse. E avrebbe detto:
«Ecco, Maya. Piú o meno qui ho trovato la tua bisnonna già lunga distesa, con una gamba per aria e sua zia Amalia che strillava come una cornacchia rauca. Insomma, tutto è cominciato cosí, per colpa di quella culata che la tua bisnonna Ida batté sul ghiaccio a Gerusalemme, all’indomani della grande nevicata».
«Mi stava guardando e sono scivolata sotto i suoi occhi», diceva Ida e lo disse ancora a Maya, figlia del secondo Amos, figlio di Chavatzelet, la sua primogenita, tutti venuti al mondo per merito di quel sasso un po’ piú largo e un po’ piú liscio degli altri, quasi una lastra di pietra che secondo Ida stava ancora lí, malgrado l’asfalto e tutta la storia passatagli sopra in quei settant’anni.
Perché quella mattina Amos raccolse Ida da terra, la prese in braccio, e mentre lei si lamentava con il sedere in una mano e i piedi penzoloni, non trovò nulla di meglio da fare che tornare con lei dentro la bottega del fornaio. Dietro a quei due seguiva trafelata anche zia Amalia. Poi venne il tè caldo con la zolletta fra i denti, che Ida imparò quella mattina e le piacque tanto.
Amos era molto sorpreso che Ida e Amalia non parlassero una parola di yiddish. Per fortuna, dai tempi della Russia e dagli abissi della famiglia che aveva perduto, emerse il poco di francese che sua madre gli aveva insegnato quand’era bambino.
A Ein Kerem, quella mattina, Amos neppure ci arrivò. Né presto né tardi. Decise ch’era piú importante prendersi cura di quelle sprovvedute turiste, una delle quali infortunata. Con quale sventatezza le due donne – una esageratamente vecchia per un viaggio del genere, l’altra giovane e quasi graziosa, con uno sguardo intenso che ti passava da parte a parte – avevano deciso di avventurarsi a Gerusalemme in una stagione del genere?
E prima davanti all’ennesima tazza di tè, poi in lento e zoppicante cammino – Ida sempre con una mano sul sedere –, e piú tardi nella sala dell’albergo mentre un vento secco risaliva dal deserto spazzando via le nuvole e sciogliendo quasi di colpo la morsa del ghiaccio che aveva tramortito Gerusalemme, Amos spiegò e rispiegò che la Terra Promessa non era lí. Non in quella Gerusalemme tutta macerie, alcune delle quali visibili a occhio nudo mentre altre solo con la testa e il cuore, in quella città scalcinata e immobile dove gli ebrei erano e sembravano quelli di sempre – ombre che sgattaiolavano mute fra i vicoli della Città Vecchia.
A dire piú o meno il vero, per Ida e la zia Amalia ch’erano capitate a Gerusalemme quasi per caso, sospinte dal deserto proprio come il vento che ora restituiva la città alla sua stanca storia, quegli ebrei lí, neri e curvi e quasi muti con l’aria d’essere di passaggio, nella vita, sembravano proprio nuovi. Gli ebrei che conoscevano e in mezzo ai quali vivevano, le migliaia di ebrei che popolavano Torino in quei primi anni del Novecento, erano emancipati come se lo fossero sempre stati. Camminavano dritti, si vestivano come tutti gli altri. Avevano i loro mestieri, come Moise Levi, che commerciava stoffe sin da quando, tanti anni prima che anche volendo non si sarebbe piú riusciti a contarli, era arrivato in città da un paesucolo di campagna il cui nome non direbbe proprio niente ad Amos. Pregavano, ogni tanto, se non erano in rotta con Dio come ogni tanto capitava. Se non erano atei come qualcuno di loro si dichiarava. Erano diversi dagli altri, sí. Ma anche eguali, cosí spiegò Ida ad Amos nel suo francese imbastito sul piemontese che Cesira le aveva inavvertitamente insegnato.
E meno male, sennò come sarebbe riuscita a parlare, con Amos che conosceva soltanto lo yiddish, il russo, l’ebraico, il tedesco e un poco di francese?
Soltanto? Si domandò Cesira leggendo e rileggendo la prima lettera che Ida le mandò dalla Terra Promessa, se non altro per ringraziarla d’essersi fatta sfuggire di bocca un po’ di piemontese in quegli anni – malgrado l’ordine di suo padre. Il piemontese che, insieme alla gran culata per terra, fu la testa di ponte per lo sbarco in Terra Promessa di Ida.
Aveva ragione Amos (a questo proposito, soltanto. Sulla faccenda della culata no: lui la vide cadere e non sbucò affatto dalla curva quando lei era già bell’e che lunga distesa per terra. «No, Amos, no, ti sbagli», gli ripeté Ida fino allo spasimo negli anni che seguirono, e continuò a ripeterglielo anche dopo ch’era morto), aveva ragione Amos: la Terra Promessa non stava in quella Gerusalemme che nessuna storia sarebbe mai stata capace di riesumare dal passato diasporico, dai caffettani neri, dagli sguardi bassi.
La Terra Promessa, invece, stava a Ein Kerem dove Amos non si presentò quella mattina. Sulle sabbie di Tel Aviv, che nel 1912 era una città bambina ancora minuscola, qualche ghirigoro appena fra le dune e il mare. Negli sparuti abitati a sud di Tel Aviv. Ad Haifa, il porto dove sbarcavano i profughi dall’Est Europa. A Zikhron Yaakov, a Ghivat Ada venuta su da poco, a Benyamina dove non c’era ancora quasi nulla a quell’epoca ma dove di lí a qualche anno nonno Moise avrebbe trovato una stazione. Nelle campagne della Galilea, dove spuntavano fattorie e anelli di case coloniche.
Insieme al tè bollente e scuro, sentendo i granuli grezzi di zucchero sciogliersi in bocca, ascoltando il francese emerso dall’infanzia di Amos, a Ida venne voglia di vederla, quella Terra Promessa lí. Quella che stavano costruendo i sionisti, una specie di ebrei ancora piú strana delle altre, di cui a Torino si sapeva molto poco e ancor meno si capiva. Davano retta a Theodor Herzl ed erano partiti dagli angoli piú disparati del pianeta per venire qui a costruire la patria. Un angolo di mondo di cui poter dire «È mio», «Sono io».
Nei giorni e nelle settimane che seguirono, Ida ripercorse insieme a zia Amalia il tracciato che Amos le aveva disegnato con le parole, la mappa della sua Terra Promessa con quel puntino lassú che erano Zikhron e Ghivat Ada con l’eucalipto bianco che cantava sottovoce nel vento, le colture, la collina di anemoni, il bestiame al pascolo. I vigneti che, con strabiliante preveggenza, il barone Rothschild aveva disseminato dietro il Carmelo, un po’ qua e un po’ là, anche se a quell’epoca tutto pareva impossibile e terribilmente faticoso.
Qualche giorno dopo la gran culata, con Ida ancora un po’ indolenzita, le due donne lasciarono Gerusalemme alla volta della piana costiera. Non sapevano nemmeno loro se la città le avesse deluse. Nel 1912 o giú di lí l’ombelico del mondo non era per nulla smagliante, anzi. Ben poco aveva a che vedere con la metropoli brulicante dove alberghi smisurati e case di bambola sono fatti tutti della stessa pietra chiara che moltiplica la luce quando la riceve. Ben poco a che vedere con la città universitaria dove abiterà Maya quasi cent’anni piú tardi, con il centro nevralgico del conflitto mediorientale, con tutto ciò che d’indefinibile e bellissimo è Gerusalemme oggi.
Quando Ida e zia Amalia se la lasciarono alle spalle a bordo di una traballante carrozza ferroviaria di produzione francese, Gerusalemme era un’accozzaglia di ruderi che sembravano case, e di case che sembravano ruderi. Persino la stazione ferroviaria, che aveva la stessa precisa età di Ida (e aveva inaugurato la prima fatidica linea della regione: scendeva dalla città santa sino al porto di Jaffa), persino la quasi avveniristica stazione ai margini di Gerusalemme, con il deserto e i bastioni alle spalle, sembrava uscita da ere lontane nel passato. Era già campagna, lí fra i binari: grassi cardi ormai ripresisi dalla nevicata, acacie che si scrollavano la chioma, qualche pino spaesato.
Mentre scendevano verso la piana costiera, verso la giovanissima Tel Aviv e il sionismo in carne, ossa e fatica, Ida non sapeva ancora con certezza che in Terra Promessa ci sarebbe rimasta. Lo capí qualche giorno dopo, sulla via per Ghivat Ada che Amos le aveva indicato disegnando una mappa tutta particolare: la sua personale carta della terra d’Israele, della storia passata ma soprattutto di quella ancora da venire, da costruire con le proprie mani. Con Gerusalemme alle spalle e il mare davanti, Ida (che all’epoca aveva vent’anni) capí – o era forse ancora soltanto una vaga intuizione dei sentimenti, non ancora una consapevolezza e non piú un sogno – capí d’essere arrivata, di aver raggiunto una specie di destinazione, non dell’intelletto e nemmeno della geografia.
Non avrebbe mai piú lasciato quella terra, per tutto il resto della vita.
Zia Amalia la stava fissando. Ogni tanto alzava lo sguardo al paesaggio, ma i pini ancora radi, il bruno della terra, il celeste del mare e il verde dell’erba che d’inverno spunta in cima alle alture della steppa, tutto ciò le si confondeva nella testa insieme allo sguardo strano di Ida. Uno sguardo piú profondo e fermo che mai. Uno sguardo che diceva:
«Non cercate di capirmi, piuttosto provate a continuare a volermi bene».
A Jaffa il mare, visto cosí da vicino, sembrava di carta stropicciata. Se guardavi dalla spiaggia verso oriente, là dove da qualche parte esisteva Gerusalemme, le prime colline che interrompono la piana costiera e d’inverno provano a vegetare mettendo una peluria verde sembravano ancor piú friabili della sabbia sotto i piedi. Jaffa era una piccola babele, con il porto troppo esposto alle onde, i commerci e i traffici nelle viuzze lassú. Un gran passaggio di gente, odori, lingue.
Ai piedi della rocca, Tel Aviv era una strisciolina appena piú larga della spiaggia, sovrastata dalle dune di sabbia su cui ogni tanto si rizzava un arbusto bruno, ostinato. Una fila di casette e baracche sul ciglio della strada sterrata.
Qui ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Conta le stelle, se puoi
  3. I. Ecco il famoso carretto di stracci
  4. II. L’ebreo, errante ancora per un po’
  5. III. Dio c’è
  6. IV. Moltiplicatevi, crescete
  7. V. Crucci, sagrin, saròd. Ovvero: il cuore fa male uguale in tutte le lingue
  8. VI. Il corpo di Cesira
  9. VII. Un maschio?
  10. VIII. Sorti progressive
  11. IX. Ida e la guerra d’Africa
  12. X. Lo Stato ebraico. Ovvero: altro che sbattere il muso, fu una gran culata!
  13. XI. La guerra del nonno
  14. XII. Ombre
  15. XIII. Ti porterò a fare il giro del mondo
  16. XVI. Ommimì che esodo
  17. XV. Cesira e la matematica
  18. XVI. Ròbe ’d l’aut olàm
  19. XVII. La cesta di Emma
  20. XVIII. Il formidabile ’38
  21. XIX. 5763 (2003)
  22. XX. Hi àbba
  23. Due parole col rimpianto di poi
  24. La cronologia di questa storia
  25. Letture
  26. Copyright