Così è la vita
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Così è la vita

Imparare a dirsi addio

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Così è la vita

Imparare a dirsi addio

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Dell'invecchiare, dell'essere fragili, inadeguati, perfino del morire parliamo ormai di nascosto. Ai bambini è negata l'esperienza della fine. La caducità, la sofferenza, la sconfitta sono fonte di frustrazione e di vergogna. L'estetica dell'eterna giovinezza costringe molte donne nella prigione del corpo perfetto e le inchioda dentro un presente mortifero, incapace di darci consolazione, perfino felicità.
In questa intensa, sorprendentemente gioiosa inchiesta narrativa, Concita De Gregorio ci chiede di seguirla proprio in questi luoghi rimossi dal discorso contemporaneo. Funerali e malattie, insuccessi e sconfitte, se osservati e vissuti con dignità e condivisione, diventano occasioni imperdibili di crescita, di allegria, di pienezza. Perché se non c'è peggior angoscia della solitudine e del silenzio, non c'è miglior sollievo che attraversare il dolore e trasformarlo in forza. «Penso a Stefania Sandrelli morente che, ne La prima cosa bella, chiede a suo figlio quarantenne se ha bisogno di mutande, calzini. Poi sospira: "Però ci siamo tanto divertiti".
È una fatica, raccontarsela tutta, ma una grande soddisfazione, un sollievo e una cura.
Un'avventura magnifica. Ci siamo tanto divertiti, si dice sempre alla fine». *** «Per raccontare la vita com'è, bisogna cominciare dalla fine, dalla morte, così difficile da affrontare e da spiegare ai bambini(...) "Dare un nome a quello che non si può dire, entrare con un salto nel regno segreto e farlo in compagnia, addirittura"(...)» Annalena Benini, «Io Donna»

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Informazioni

1.

Il carrubo e il sapone

La storia del carrubo l’ho imparata quando è passato un mese dalla morte di Elvira e allora i figli hanno riaperto le finestre delle case a lutto e ci hanno chiamati tutti – gli amici, i parenti – perché tornassimo al baglio di Marina di Ragusa. Per far rivivere la casa e l’amato giardino, per far passare il vento, perché potessimo raccontarci ciascuno la storia di lei, ché ognuno ne porta un tassello, per ricucire la trama dei ricordi e festeggiare la vita.
Accanto alla piscina dove Elvira scendeva in acqua vestita di kaftano, fumando anche lí, c’è un bosco di carrubi: li ha piantati lei, li ha cresciuti. Una nipote dai grandi occhi verdi mi dice: «Guarda, apri il baccello, vedi i semi? Hanno forme e grandezze diverse ma pesano tutti allo stesso modo. Non ci credi? È cosí: quelli grandi e schiacciati come un soldo, quelli ovali e storti, quelli piccolissimi che sembrano pallini di fucile, quelli tondi. Se li pesi, qualunque sia l’albero e il baccello da cui li hai presi, sulla bilancia sono uguali. È una specie di magia, la zia mi diceva che una volta si usavano come unità di misura, qui nei campi: si facevano gli scambi pesando la merce piccola e preziosa a semi di carrubo. La natura ha deciso cosí per dare agli uomini la certezza che possono essere uguali cose all’apparenza molto diverse, penso. Come il sangue delle persone, o le lacrime».
Attorno ai tronchi delle piante piú grandi Elvira ha fatto montare panchine circolari di ferro battuto. Ne ha disposto l’ordine nel bosco. Poche, vicine abbastanza per vedersi ma lontane abbastanza per non disturbarsi. Bisogna immaginarsele: un tronco d’albero al centro e una panchina intorno, infilata nell’albero come se fosse una ciambella col buco. La schiena appoggia all’albero, lo sguardo vede il bosco. C’è una stranezza che si fa evidenza, se provi a sederti per conversare con qualcuno: tutti coloro che si siedono accanto poggiano le schiene vicinissime, aderenti allo stesso tronco, ma guardano in direzioni diverse, ciascuno nel suo spicchio del cerchio. Neppure con la coda dell’occhio lo sguardo del vicino incontra mai il tuo. «La zia diceva che questo era il posto ideale, e il modo piú bello per parlare la sera, per raccontarsi i segreti di famiglia e dirsi quelle cose che altrimenti non si riescono a dire. Ed era vero, è vero. Non sai quante volte ci siamo seduti qui, braccio contro braccio, schiena all’albero, a parlare ciascuno come se parlasse al bosco e a raccogliere le parole dell’altro. Davvero nella magia del carrubo c’è anche questo, che raccoglie i segreti».
Nella magia di Elvira c’è questo, penso, ché l’idea di parlarsi in un bosco con un fratello un figlio un nipote, le schiene aderenti allo stesso tronco, le radici comuni, e lo sguardo volto naturalmente altrove in modo che mai negli occhi dell’altro nessuno possa cogliere dileggio o rimprovero, ironia o incredulità, paura o desiderio. In modo che le parole possano fluire libere e non interrotte dallo specchio del giudizio, ecco, questa penso è l’eleganza e la saggezza, la profonda sapienza e la tolleranza, la cura materna e la libertà che lei faceva fiorire in ogni cosa.
C’è una cosa ancora che ho portato via dalla festa per il congedo di Elvira, una storia che racconta di eredità e di saponette.
Molti anni fa, la prima volta che sono stata nel baglio a Marina di Ragusa coi miei figli bambini, ospiti nei letti con le lenzuola di lino stirate da lei, i ragazzi si stupirono del fatto che ogni mattina ci fosse nel bagno una saponetta nuova. Era nuova anche quella del giorno prima, era stata usata un paio di volte appena, eppure il giorno dopo era scomparsa e al suo posto eccone una appena scartata, intatta. Il piú piccolo dei due, Lorenzo, a tavola per colazione, domandò alla ragazza che ci portava il caffè: «C’è qualcuno che passa la notte a rubare le saponette, in questa casa?» Fu cosí che la ragazza, ridendo, lo portò con sé a mostrargli il segreto: un armadio, il cimitero delle saponette. «Donna Elvira, – gli spiegò, – non ha mai sopportato di lavarsi le mani nelle saponette usate, quelle con tutta la schiumetta lasciata da un altro. È perché da bambina erano tanti e avevano una saponetta sola, credo. Non lo so, comunque non vuole. E allora ha dato disposizione, da sempre, che tutti gli ospiti abbiano ogni giorno una saponetta nuova. È una regola della casa. Noi però non ce la sentiamo di buttare via quelle usate una volta appena, né noi che lavoriamo qui né Antonio e Olivia che sono i suoi figli. Da quando erano piccoli anche loro sono venuti sempre a depositare la saponetta usata dentro questo armadio, e noi pure le mettiamo qui, nel cimitero delle saponette. Poi le usiamo, di nascosto da lei, per lavare i panni, le mettiamo dentro un sacco di tela in acqua per fare schiuma, insomma le facciamo rivivere. Ma è un segreto, non dirlo a nessuno».
Quel giorno di settembre, molti anni dopo, eravamo in cento nella casa a ricordare Elvira e tanti fra i parenti, tutti quelli che potevano starci, sarebbero rimasti a dormire. Antonio, il figlio, girava per le stanze cortese ma pallido, molto inquieto.
– Dài Antonio, esci con noi ad ascoltare la musica, c’è un’aria bellissima fuori. Non ti immalinconire, andiamo.
– Sí vengo subito, no non è questo, è che ho preso una decisione gravissima e adesso non me la perdono.
– Che decisione?
– Ieri ho fatto mettere nei bagni le bottigliette di sapone, quelle che si preme sopra per farne uscire un po’, sai. Ho pensato che non potevo stare attento a far cambiare quindici saponette, stamani, troppe cose da fare, mi sembrava sciocco aggiungere questa, e diciamo la verità, anche uno spreco. Ora però, giro nei bagni e vedo queste bottigliette orribili, non mi dò pace, come ho potuto fare una cosa simile. Mamma le trovava orrende. E poi che succederà, se continuiamo cosí? Poco a poco si svuoterà il cimitero delle saponette. Capisci? Non è possibile, non è proprio possibile. Per oggi pazienza, ormai. Domani però le bottigliette le butto. Deciso, le tolgo. Ora usciamo, dài: tanto domani le butto, possiamo andare.

2.

Morir dal ridere

Sul tavolo della colazione, a casa, ci sono ormai da mesi – consunti, macchiati di caffellatte, le copertine strappate, le orecchie alle pagine – i libri dei Coniglietti suicidi. Sono tre, rettangolari, si sfogliano dal lato corto. È un rito, un esorcismo del mattino. I ragazzi si alzano, sovente – specialmente i piú grandi – davvero controvoglia. Controvoglia si lavano, di grandissimo malumore si siedono davanti al latte che ogni giorno, proprio ogni giorno, «oggi non mi va». Poi Pietro, Lorenzo e Bernardo, muti, prendono a sfogliare il libro dei conigli che si suicidano. Dopo qualche minuto compare quella specie di sorriso storto, se li scambiano quando arrivano alla tavola eletta la migliore del giorno. «Guarda questa» è di solito la prima frase che si rivolgono. Il piú piccolo si alza per vedere quella che stanno guardando i grandi. Fanno capannello. Poi prendono gli zaini e se ne vanno a scuola.
I libri dei coniglietti suicidi li trovate di solito accanto alla cassa, in libreria. Si vendono a valanghe, li disegna un quarantenne inglese di nome Andy Riley, a una prima occhiata sono veramente atroci. I coniglietti, quelli delle favole, i bianchi rabbit della fattoria, tentano il suicidio in centinaia di modi: cervellotici e violenti, geniali e semplicissimi, sempre con quello sguardo inespressivo e placido come se stessero mangiando erba. È un catalogo di meccanismi di morte assurdi e impraticabili che contengono sempre una nota segreta di ironia, la citazione di un film o di un episodio storico, di un modo di dire, di un pensiero impensabile. Tentano il suicidio, i conigli, rifiutandosi di salire sull’Arca di Noè. Facendo la tana a terra sotto i propulsori dello Shuttle. Leggendo il giornale in una pista di bob durante la gara. Infilando la testa nel buco del lettore di cd in modo che chiudendolo diventi una ghigliottina. Facendo il solletico ad un sollevatore di pesi nel momento del massimo sforzo. Facendo la V di vittoria come Churchill in fila tra i soldati di una parata Nazi. In effetti si ride, poi ci si vergogna un po’ di aver riso. Ma perché vi fanno tanto ridere i conigli?, ho chiesto una mattina con tono distratto. «Mamma, ma perché parlano di quello di cui non si può parlare e che invece ci piace, no? È come se prendessero in giro quelli che fanno finta di non pensare a queste cose e non ne parlano mai».
Un esorcismo, insomma. L’esorcismo del pensiero della morte capace di tenere insieme l’attrazione e la paura con l’unico linguaggio universale possibile: l’ironia. Capace, il coniglio, di smascherare il tabú con un sorriso.
Il passo successivo è stato l’arrivo a casa dei Piccoli macabri, considerato il capolavoro dell’eccentrico Edward Gorey, americano di Chicago, maestro illustratore dell’humour sinistro in salsa gotica. I piccoli macabri sono ventisei bambini, uno per ogni lettera dell’alfabeto, che muoiono a causa di altrettanti tragici destini. È proprio un abbecedario illustrato. Comincia con A come Amy che precipitò dalle scale. B come Basil che fu attaccato dagli orsi. E come Ernest che si affogò mangiando una pesca, e cosí via: i bambini cadono in un pozzo, sono asfissiati da un tappeto, inghiottiti dal fango, divorati dalle fiamme, avvelenati dalla varechina. Uno muore di noia, alla finestra. Anche questo libro li ipnotizza: ridono meno, qui, ma restano minuti interi ad osservare i dettagli del disegno. Quello della sanguisuga piú di tutti. Ridono se devono condividerlo: guarda questo che faccia fa, e allora ridono sopra l’imbarazzo. Come si fa a ridere del disegno di un bambino che soffoca sotto un tappeto, del resto. Eppure. Dare un nome a quel che non si può dire, entrare con un salto nel regno proibito e farlo in compagnia, addirittura: è questo credo a generare un tumulto di sentimenti tra cui il sollievo e la gratitudine, perciò un piccolo sorriso segreto.
Anch’io, penso mentre ci penso, ho riso fino alle lacrime leggendo Piccoli suicidi tra amici, il romanzo in cui il finlandese Arto Paasilinna – ex guardaboschi, ex poeta – racconta la storia della Libera associazione morituri anonimi, un gruppo di aspiranti suicidi che gira l’Europa in pullman cercando il posto ideale per uccidersi. Il libro inizia cosí:
Il piú formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l’introversione, una sconfinata apatia. Un senso di gravezza aleggia su questo popolo sfortunato tenendolo da migliaia di anni sotto il suo giogo, tingendone lo spirito di cupa seriosità. Il peso dell’afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l’unico sollievo. La malinconia è un avversario piú spietato dell’Unione Sovietica.
Si incontrano per primi due uomini che hanno scelto lo stesso fienile per uccidersi. L’arrivo dell’uno fa fallire il tentativo dell’altro. Fanno amicizia, discutono a lungo del loro proposito, delle difficoltà di realizzarlo, della moltitudine di persone che sarà certo nella loro stessa condizione. Decidono di mettere un annuncio sul giornale invitando chi vuole suicidarsi a farsi vivo. Rispondono a decine. Un’aspirante, una vistosa ex preside, si offre di fare da segretaria al censimento che sta diventando imponente. Un altro, ex autista, mette a disposizione il suo vecchio autobus per andare a prendere quelli che non possono muoversi. Comincia il viaggio in torpedone, una scampagnata fra sconosciuti accomunati da un insolito destino: i dialoghi sono una specie di trattato di filosofia in pillole, il linguaggio quello della gente comune, le circostanze quelle della vita. Incidenti, inconvenienti, amori e tradimenti sulla via della morte: tanti quanti non ne sono capitati in una vita intera. Il viaggio della vita.
Da ragazza mio padre mi telefonava la mattina per leggermi i necrologi sui giornali locali, a volte misteriosi e indecifrabili a volte barocchi, «Ma che ne pensi cosa avrà voluto dire?», domandava. Li intonava con voce stentorea e sempre, alla fine, rideva. Siccome non gli davo troppa corda in un certo periodo prese a ritagliarmi i migliori e mandarmeli insieme alle lettere. Ne ho ritrovati alcuni da poco. «Inconsolabile la figlia Oriana piange la morte prematura dell’amatissima madre Iole, anni 99». Prematura. «Affrante le amiche del bridge rivelano a Carla le chiavi della mano di chiusura del torneo». Seguono numeri e lettere. Le amiche del bridge. Mondi, vite in dodici parole. Di poco piú stringati dei piccoli epitaffi di Eugenio Baroncelli, biografie di una pagina, 267 vite in due o tre pose, l’ultimo libro che gli ho regalato.
Da bambina, quando andavamo in viaggio, passavamo sempre dai cimiteri del posto, fossero quello di Praga o del paesino di campagna in Provenza. «Dai cimiteri si capisce tutto di un popolo», diceva. Si sedeva sulle panchine a guardare le donne che portavano acqua ai fiori e pulivano le tombe camminando lungo misteriose rotte già segnate. Quasi sempre, quando la lingua lo consentiva, faceva due parole con loro. Poi passeggiavamo nei viali a leggere i nomi sulle lapidi, le frasi, a ricostruire le genealogie delle famiglie. Nei cimiteri si passeggia e si legge insieme, difatti, e quasi sempre si ricorda qualcosa di dimenticato, si trova quel che non si pensava di cercare. I necrologi sono scritti sulla pietra anche quando non c’è scritto niente. Dipende dal colore e dalla dimensione della lapide, dallo stile scelto per incidere il nome, dalle date. «Io il mio me lo voglio scrivere da solo, – rideva, – uno di questi giorni lo faccio e te lo consegno da custodire».
Meglio qui che in riunione, lo strepitoso libro di 244 autoepitaffi di italiani celebri e non, curato da Eugenio Schatz e Marco Vaglieri, è uscito in ritardo sui tempi se no di certo avrebbe mandato anche il suo, e applaudito quello di copertina, naturalmente, e quello di Roberto Alajmo: «Sperò fino all’ultimo | di assistere dal vivo | al proprio funerale». Abbiamo condiviso però Storie di rimpianti e di follie di Giuseppe Marcenaro, forse il piú bel libro sui cimiteri in circolazione, e Sttl. La terra ti sia lieve, immagini delle tombe e aneddoti sui funerali di italiani celebri raccolte da Luca Cardinalini e Giuseppe Cardoni. Nel primo lo faceva ridere enormemente la storia del pene di Napoleone, l’importante “attributo” imperiale amputato, trafugato, messo all’asta e infine conteso tra nazioni. Nel secondo quella di Gassman: che voleva essere imbalsamato «come un gufo», spiegava con precisione, e stare nel salotto di casa «con un nastro registrato dentro, per salutare gli ospiti».

3.

The Big C

Quando con Corrado abbiamo cominciato a rileggere le bozze del suo libro era appena iniziato l’autunno, che a Roma vuol dire tepore e allegra malinconia. Ci vedevamo la mattina presto in un bar vicino a via Asiago, con le carte. Io andavo lí all’alba per una trasmissione alla radio, quando finivo lui scendeva da casa fresco di rasatura. Stefano, il barista col sorriso, ci portava minuscoli cornetti che appoggiava senza farsi sentire sul tavolino tondo di alluminio ingombro di fogli. Un capitolo al giorno, era il piano di volo. Poi il pomeriggio ciascuno rivedeva le correzioni per suo conto, al computer. Abbiamo letto tanto, ognuno per sé. Ci siamo scambiati Joan Didion, Philippe Forest. Casi letterari nel mondo, best seller: Corrado li trovava sempre scarsi. Troppo dolore, diceva: scarsi. La morte bisogna raccontarla da vivi, non può essere un’agonia. Di Joan Didion ne L’Anno del pensiero magico, avevo amato e gli parlavo con ostinazione della parabola delle scarpe: il fatto che questa donna cosí razionale, cosí lucida, cosí padrona degli eventi e di sé non riuscisse a regalare o a buttare le scarpe del marito morto «perché se poi lui dovesse tornare di tutto potrebbe fare a meno ma non delle sue scarpe», mi pareva un tuffo in un luogo segreto dell’anima di ciascuno di noi. Parlavo mezz’ora, lui ascoltava senza interrompere guardandomi come se fosse davanti a uno spettacolo della natura: una cascata, un temporale con la pioggia di fulmini. Poi beveva un sorso di cappuccino e mi rispondeva due parole: «Sei sentimentale», tipo. O anche una sola, ridendo: «Balle». Di Forest gli avevo portato tutti i libri, uno anche dedicato dall’autore proprio a lui, a Corrado, che mi ero fatta firmare a Torino non ricordo piú in quale occasione mettendomi in coda tra i fan. Tutti i bambini tranne uno, il libro sulla morte per tumore della figlia bambina, è un capolavoro, dicevo. A partire dal titolo. «Tutti i bambini, tranne uno, crescono», cosí comincia la favola di Peter Pan. E non trovi meraviglioso che ogni capitolo sia preceduto da un distico della fiaba? Fin dal principio. «Si raccontavano molte strane vicende attorno a lui: per esempio si diceva che allorché i bambini morivano egli li accompagnasse per un tratto di strada perché non avessero paura». Vogliamo parlare di Peter Pan, Corrado, e dell’Isolachenoncè e dei Bimbi smarriti? Del bambino che non sa crescere e che dimentica ogni cosa? «Preferisco Michele Strogoff, – rispondeva valutando il cornetto. – Sai la storia di quello che si finge cieco pur di portare il messaggio al re».
Un giorno ci siamo messi a cercare il titolo del libro, il suo. Un foglio bianco per uno: ciascuno scrive poi ce li scambiamo, ok? Lui voleva che si intitolasse Fiori e uccelli sullo stesso ramo perché, mi diceva: «Hai ragione tu che è anche una storia d’amore, prima che il diario di una malattia». Però certo fiori e uccelli… non so, magari non si capisce… abbiamo provato a chiamarlo cosí tra di noi per un po’, Fiori e uccelli, Fiori e uccelli, alla fine ci faceva ridere e lui diceva vedi?, va bene perché mette il buonumore. Poi un giorno il ragazzo del caffè gli ha detto come va’ Corrado, a parte il cancro tutto bene? Ci siamo guardati, lui ha fatto una smorfia di sorpresa e contentezza: eccolo, il titolo. Senza punto di domanda però. A parte il cancro, tutto bene.
Scambiavamo solo materiale rovente, storie di perdite estreme. Con naturalezza e con un interesse ormai da studiosi. Quando ci vedevamo, dopo i primi dieci minuti – la musica, il giornale, i colleghi, la politica – lui diceva: ho scritto questo. Leggilo poi mi dici che ne pensi. Sempre dolore, però ci veniva facile. Con allegria no, non potrei dirlo: con disinvoltura, come una cosa normale. Una domenica mi ha detto «se vieni porta i bon bon come nella canzone di Brel». Ne abbiamo mangiati un paio poi è andato alla libreria e ha preso un libro con la copertina rossa, ha tirato fuori un foglietto con due righe a penna: Calendario delle assenze. Scriviamo subito questo, mi ha detto, ci vuole poco: ce l’ho tutto in mente. Dieci giorni, lo facciamo uscire prima di Natale e lo regaliamo solo agli amici. Calendario delle assenze come a scuola, tipo un registro, hai presente? Coi nomi, però di fantasia: che non se ne abbia a male nessuno. Raccontiamo venti storie: di come da un certo p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prologo Ci siamo tanto divertiti
  5. 1. Il carrubo e il sapone
  6. 2. Morir dal ridere
  7. 3. The Big C
  8. Mani Bianche
  9. 4. Il viaggio di Guglielmo
  10. Mi vergogno
  11. 5. L’anatra
  12. 6. Il compleanno di Lulú
  13. 7. Dolto, madre e figlia
  14. Il nome delle cose
  15. 8. Fatti di vento
  16. 9. Fabrizia Ramondino è morta qui
  17. 10. Per Carlo, le parole non dette
  18. 11. Cose belle
  19. Alfin
  20. 12. I conti in sospeso
  21. 13. Partenze
  22. 14. L’ultima madre
  23. Il tribunale estetico
  24. 15. Pitanguy, il pioniere
  25. 16. Dukan, l’ultimo guru
  26. 17. La meglio gioventú
  27. 18. La Llorona
  28. Il quadro
  29. 19. Giocando con le tenebre
  30. 20. Il segreto di Pollyanna
  31. 21. Angelo
  32. Appendice Rassegna incompleta di libri memorabili
  33. Su alcuni libri di cui ho parlato