Il supermercato è pieno di persone anziane che si aggirano disorientate tra siepi dai colori abbaglianti. Alcuni sono troppo bassi per arrivare ai ripiani piú elevati; altri bloccano le corsie con i carrelli; altri sono goffi e hanno i riflessi lenti; altri si aggirano borbottando, con l’aria diffidente della gente che si incontra nei corridoi degli ospizi.
Spingevo il mio carrello lungo la corsia. Sulla ribalta stava seduto Wilder, che cercava di afferrare al volo gli oggetti la cui forma e radianza eccitassero il suo sistema di analisi sensoria. Nel supermercato c’erano due zone nuove, una piccola macelleria e una panetteria. Il profumo di pane e torte, combinandosi con la vista di un uomo coperto di sangue che batteva fettine freschissime di vitello, risultava abbastanza eccitante per tutti.
– Dristan Ultra. Dristan Ultra.
Il secondo motivo di eccitazione era la neve. Neve abbondante prevista per il pomeriggio o in serata. Aveva fatto uscire allo scoperto le masse, chi temeva che presto le strade sarebbero state impraticabili, chi era troppo vecchio per camminare con sicurezza su neve e ghiaccio, chi pensava che la tormenta lo avrebbe isolato in casa per settimane e mesi. In particolare erano le persone anziane a essere sensibili alle notizie circa le calamità incombenti, diffuse attraverso la TV da signori seduti in atteggiamento grave davanti a mappe radar digitali o a pulsanti fotografie del nostro pianeta. In preda a frenesia coatta, si precipitavano al supermercato per fare provviste prima dell’arrivo del fronte di aria fredda. Attenti alla neve, dicevano gli annunciatori delle previsioni. Emergenza neve. Spazzaneve. Neve mista a nevischio e a pioggia gelata. Stava già nevicando a ovest. Si stava già spostando a est. Si aggrappavano a tali notizie come al teschio di un pigmeo. Diluvi di neve. Tempeste di neve. Allarmi antineve. Neve. Tormenta di neve. Neve alta e in movimento. Accumuli, devastazioni. I vecchi comperavano in preda al panico. Se la TV non li riempiva di furore, li lasciava mezzi morti di paura. Parlavano tra loro a bassa voce nelle file alle casse. Bollettino del traffico: visibilità zero. Quando arriva? Quanti centimetri? Quanti giorni? Diventavano riservati, sfuggenti, sembravano voler tenere nascoste agli altri le notizie piú recenti e peggiori, sembravano combinare la fretta con la furbizia, cercavano di correre fuori prima che qualcuno notasse la mole dei loro acquisti. Accaparratori in tempo di guerra. Pieni di bramosia, di sensi di colpa.
Vidi Murray nella zona degli alimenti generici, con una padella di teflon. Stetti un po’ fermo a osservarlo. Stava parlando con quattro o cinque persone, facendo di quando in quando una pausa per prendere qualche appunto su un taccuino a spirale. Riusciva a scrivere tenendo goffamente la padella stretta sotto il braccio.
Wilder gli gridò un richiamo, uno strillo acutissimo, per cui spinsi il carrello alla sua volta.
– Come sta quella tua brava donna?
– Bene, – risposi.
– Questo bambino parla già?
– Di quando in quando. Gli piace fare con comodo.
– Sai quella cosa per la quale mi hai aiutato? Il braccio di ferro su Elvis Presley.
– Certo. Sono entrato da te e ho tenuto una lezione.
– Salta fuori, tragicamente, che avrei comunque vinto.
– In che senso?
– Cotsakis, il mio rivale, non è piú tra i viventi.
– Che cosa significa?
– Significa che è morto.
– Morto?
– Perso nella risacca al largo di Malibu. Durante la vacanza. L’ho scoperto un’ora fa. Sono venuto direttamente qui.
La densità del tessuto ambientale mi apparve improvvisamente chiarissima. Le porte automatiche si aprivano e chiudevano, emettendo improvvisi sboffi. Colori e odori parvero piú acuti. Il rumore dei piedi che strusciavano si levò nitido tra una dozzina di altri, dal ronzio subcostiero dei sistemi di manutenzione, dal fruscio della stampa prodotto da coloro che, davanti a noi, studiavano il proprio oroscopo nei tabloid, dai mormorii di anziane donne dal viso incipriato, dal costante sferragliare dei carrelli che passavano sopra a un tombino traballante, appena fuori dell’entrata. Piedi che strusciavano. Li sentii chiaramente, un triste struscio sordo proveniente da tutte le corsie.
– Come stanno le ragazze? – chiese Murray.
– Bene.
– Sono tornate a scuola?
– Sí.
– La paura è finita?
– Sí. Steffie non porta piú la maschera protettiva.
– Voglio comperare qualche bistecca alla newyorkese, – disse lui, indicando il macellaio.
L’espressione mi sembrava famigliare, ma che cosa intendeva dire esattamente?
– Carne non confezionata, pane fresco, – continuò. – Frutti esotici, formaggi rari. Prodotti di venti paesi.È come essere a un crocevia di un mondo antico, un bazar persiano o una prospera città sul Tigri. Tu come stai, Jack?
Che cosa significava: tu come stai?
– Povero Cotsakis, perso nella risacca, – dissi. – Un uomo cosí enorme.
– Già.
– Non so che cosa dire.
– Era veramente grosso.
– Enormemente.
– Anch’io non so che cosa dire. Se non: meglio lui che me.
– Doveva pesare un quintale e mezzo.
– Come minimo.
– Che cosa dici? Centoquaranta? Centocinquanta?
– Almeno centocinquanta.
– Morto. Un omone simile.
– Che cosa possiamo dire?
– Ho sempre pensato di essere anch’io piuttosto grosso.
– Lui era di un’altra categoria. Nella tua, sei grosso anche tu.
– Non che lo conoscessi. Anzi, non lo conoscevo affatto.
– È meglio non conoscerli, quando muoiono. Meglio loro che noi.
– Essere cosí enorme. E poi morire.
– Perdersi senza lasciare tracce. Essere spazzati via.
– Me lo vedo davanti.
– In un certo senso è strano, no? – disse lui, – che ci si possa vedere davanti i morti.
Portai Wilder lungo i cestelli della frutta. Frutta lustra e umida, dai contorni netti. Che dava l’idea di essere pienamente consapevole di sé. Di essere stata osservata con cura, come la frutta a quattro colori di un manuale di fotografia. All’altezza dei contenitori in plastica di acqua minerale svoltammo verso le casse. Mi piaceva stare con Wilder. Con lui il mondo era una serie di gratificazioni fuggevoli. Dava di piglio a ciò che poteva, dimenticandosene immediatamente nella febbre di un piacere successivo. Era questa sua capacità di dimenticare che invidiavo e ammiravo.
La cassiera gli fece una serie di domande, rispondendosi da sé con vocetta infantile.
Alcune delle case, in città, mostravano segni di trascuratezza. Le panchine del parco avevano bisogno di riparazioni, le strade sconnesse avevano bisogno di essere riasfaltate. Segni dei tempi. Il supermercato, invece, non cambiava, se non in meglio. Era ben fornito, musicale, brillante. Eccone, secondo noi, la chiave di lettura. Tutto andava bene, avrebbe continuato ad andare cosí e addirittura finito con l’andare meglio finché il supermercato non avesse avuto un cedimento.
Quella sera, di buon’ora, accompagnai in auto Babette al suo corso di portamento. Ci fermammo sul cavalcavia della panoramica a guardare il tramonto. Dopo l’evento tossico aereo, i tramonti erano diventati quasi intollerabilmente belli. Non che vi fosse una connessione misurabile. Che fossero state le caratteristiche specifiche del Nyodene D. (aggiunte all’afflusso quotidiano di effluenti, inquinanti, contaminanti e deliranti) a causare questo salto estetico da tramonti già bellissimi agli attuali paesaggi celesti, vasti, torreggianti, rosseggianti, visionari, pervasi di timore, nessuno era stato in grado di provarlo.
– Che cos’altro possiamo credere? – chiese Babette. – Come potremmo spiegarlo altrimenti?
– Non saprei.
– Non siamo ai margini dell’oceano o del deserto. Dovremmo avere dei timidi tramonti invernali. Invece guarda lo splendore di quel cielo. Com’è bello e drammatico. Una volta i tramonti duravano cinque minuti. Adesso durano un’ora.
– Come mai?
– Come mai? – ripeté.
Quel punto sul cavalcavia offriva una vasta prospettiva verso ovest. La gente veniva lí fin dal primo di questi nuovi tramonti, parcheggiando l’auto e restando in piedi nel vento tagliente, a chiacchierare nervosamente e guardare. C’erano già quattro auto, altre ne sarebbero certamente arrivate. Il cavalcavia era diventato un osservatorio panoramico. La polizia era riluttante a far rispettare il divieto di sosta. Era una di quelle situazioni, come le olimpiadi per handicappati, che fanno apparire meschina qualsiasi restrizione.
Piú tardi tornai a prenderla alla chiesa congregazionalista. Denise e Wilder erano venuti anche loro per farsi un giro. Babette, in jeans e scaldamuscoli, era una vista gradevole ed eccitante. Gli scaldamuscoli vi aggiungevano una nota di compostezza paramilitare, una punta di bellicosità arcaica. Quando spalava la neve, si metteva anche in testa una fascia di pelliccia. Che mi faceva pensare al quinto secolo dopo Cristo. Uomini in piedi intorno ai fuochi da campo, intenti a conversare in toni sommessi nei loro dialetti turchi e mongoli. Cieli limpidi. L’impavida, esemplare morte di Attila l’Unno.
– Com’è andata la lezione? – chiese Denise.
– Sta andando talmente bene che vogliono farmi tenere un altro corso.
– Di che cosa?
– Jack non ci crederà.
– Di che cosa? – chiesi a mia volta.
– Mangiare e bere. Si chiama «Mangiare e bere: parametri di base». Il che, ammetto, è un po’ piú stupido di quanto la cosa debba essere in senso assoluto.
– Che cosa potresti insegnare? – chiese Denise.
– È questo il bello. È un argomento praticamente inesauribile. Mangiare leggero quando fa caldo. Bere moltissimi liquidi.
– Ma lo sanno tutti.
– Le nozioni cambiano giorno per giorno. Alla gente piace che le cose in cui crede vengano confermate. Non stendersi dopo un pasto pesante. Non bere liquori a stomaco vuoto. Se si deve nuotare, aspettare almeno un’ora dopo aver mangiato. Il mondo è piú complicato per gli adulti di quanto lo sia per i bambini. Noi non siamo cresciuti in mezzo a tutto questo cambiare di fatti e modi di pensare: un giorno è comparso e via. Quindi la gente ha bisogno che una persona autorevole la rassicuri, le dica se ciò che sta facendo lo fa in maniera giusta o sbagliata, almeno in quel dato momento. E io sono l’unica persona disponibile che abbiano trovato. Tutto qui.
Allo schermo del televisore si appiccicò uno sfilaccio di garza carico di elettricità statica.
A letto rimanemmo distesi in silenzio, la mia testa posata tra i suoi seni, quasi in cerca di protezione nei confronti di un colpo spietato. Ero deciso a non dirle nulla circa il verdetto del computer. Sapevo che sarebbe stata distrutta all’apprendere che la mia morte avrebbe quasi certamente preceduto la sua. Il suo corpo era divenuto l’agente della mia risoluzione, del mio silenzio. Di notte mi accostavo al suo seno, ficcandomi in quello spazio designato come un sottomarino colpito si infila nel suo bacino di carenaggio. Traevo coraggio dai suoi seni, dal calore della sua bocca, dalle sue mani che indugiavano sul mio corpo, dalle punte delle sue dita che mi scorrevano sul dorso. Piú leggero era il tocco, piú ferma diventava la mia determinazione a non farle sapere nulla. Soltanto la sua disperazione avrebbe potuto vincere la mia volontà.
Una volta arrivai quasi a chiederle di mettersi gli scaldamuscoli prima di fare l’amore. Ma mi parve una pretesa piú fondata sul patetico che sulla sessualità aberrante, e pensai che avrebbe potuto farle sospettare che potesse esserci qual...