Dove andremo a finire
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Dove andremo a finire

  1. 270 pagine
  2. Italian
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Dove andremo a finire

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Medicina, politica, letteratura, religione, psicologia, fisica, sociologia. Come sarà l'Italia dei prossimi anni? Il cancro sarà sconfitto? Che lingua parleremo? L'universo sarà svelato?
In che società vivremo? La Chiesa esisterà ancora? Saremo tutti piú poveri? Saremo tutti piú soli? Come si trasformerà la nostra vita? Fino a quando vivremo? Avremo cloni?
Chi dominerà il mondo? Ci sarà ancora l'Europa? Troveremo soluzioni ai problemi della Terra?
In otto grandi interviste ad alcuni dei piú influenti intellettuali italiani, Alessandro Barbano traccia un racconto a tutto campo - ricco, informato, profondo - che rende concreto il domani, senza mai cedere all'entusiasmo o allo sconforto.
Un indispensabile atlante dialogato dei tempi che corrono. «Magari scopriremo che quest'anno era nato il nuovo Proust e nessuno se n'era accorto».
Umberto Eco «Impediremo la malattia intervenendo sull'embrione grazie alla medicina predittiva».
Umberto Veronesi «I problemi creati dalla tecnica li risolveremo con nuova tecnica, non tornando indietro».
Nicola Cabibbo «Il naufragio di un'etica condivisa porta con sé la percezione della solitudine».
Giuseppe De Rita «Sarà la società dei formicai».
Simona Argentieri «Mentre ci crogioliamo nel pessimismo, altrove si guarda a un futuro di occasioni che si allargano».
Giuliano Amato «Si riapre un tempo di ricomprensione dell'uomo che riporta a un desiderio diffuso di autorealizzazione».
Angelo Scola

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858404232

Giuliano Amato

L’idea di questo libro è nata con lui, nelle austere stanze dell’Enciclopedia italiana che presiede dal febbraio del 2009, dopo un trentennio da protagonista della politica italiana culminato per due volte nell’incarico alla presidenza del Consiglio.
Giuliano Amato è nato a Torino il 13 maggio del 1938 da una famiglia siciliana, si è laureato in giurisprudenza alla Normale di Pisa, ha conseguito il master in Diritto comparato alla Columbia University di New York nel 1962 e la libera docenza in Diritto costituzionale nel 1964. Professore ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza dal 1975 al 1997, ha tenuto conferenze e seminari in alcune tra le piú prestigiose università al mondo, come la Scuola di legge della Columbia University e della New York University.
È stato in Parlamento per 18 anni, tra il 1983 e il 2008, prima nel Psi, di cui fu vicesegretario dal 1989 al 1992, e poi nell’Ulivo, assumendo diversi incarichi di governo: sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, ministro del Tesoro, ministro per le Riforme istituzionali, ministro dell’Interno, vicepresidente del Consiglio e per due volte presidente del Consiglio (1992-93 e 2000-01). Ha presieduto l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ed è stato vice presidente della Convenzione per il futuro dell’Europa e presidente della Commissione internazionale sui Balcani. Presiede il Comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia.
Nel 2002 è stato eletto Honorary Fellow della American Academy of Arts and Sciences. È presidente del Centro studi americani e presidente dell’International Advisory Board della Fondazione ItalianiEuropei e del comitato scientifico di Astrid. Fa parte dell’Advisory Board di InvestCorp e del Board del Centre for European Reform di Londra.
I suoi libri – tra cui ricordiamo Manuale di diritto pubblico (con Augusto La Barbera, il Mulino, 1994), Un altro mondo è possibile (con Lucia Pozzi, Mondadori, 2006) e Il futuro dell’Europa (Meudon, 2010) – hanno a oggetto le libertà, le forme di stato e di governo, il diritto dell’economia e la concorrenza, l’integrazione europea e la cultura politica.
Questo dialogo è stato registrato nel corso di due incontri di alcune ore ciascuno. Alla trascrizione letterale del testo è stato sufficiente aggiungere i punti e le virgole, senza quasi nessuna correzione o aggiunta. Giuliano Amato parla cosí come lo si legge nelle pagine che seguono.
Giuliano Amato, immaginiamo di essere nel 2020: come si racconta nei libri di storia la crisi finanziaria che alla fine dello scorso decennio trascinò sull’orlo del baratro prima le borse, poi le imprese, infine la società intera?
Ci sono due racconti possibili, legati a evoluzioni opposte. Il primo si svolge in una giornata di primavera nel giardino di una ridente università di una qualunque città dell’Occidente. Gli studenti sono raccolti sulle panchine sotto i ciliegi, vestono in camicia o maglietta con l’atteggiamento tipico dell’intellighenzia che esclude cravatte e altri appesantimenti. Un docente passeggia sotto i rami in fiore e racconta della grande svolta che la crisi finanziaria introdusse dieci anni prima nel mondo, rendendo tutti consapevoli del fatto che il denaro non può generare altro denaro al di là di un certo limite, poiché la sua vera finalità è quella di finanziare l’economia reale. Tant’è vero che la maledizione pronunciata prima da san Paolo e poi da Maometto fu superata dal Cristianesimo e dall’Islam solo quando fu chiaro che il denaro era utile allo sviluppo dell’umanità e non a produrre mera ricchezza. La crisi, – spiega il professore ai ragazzi, – fu causata dall’elevata e irresponsabile finanziarizzazione dei primi anni del nuovo millennio. Essa fu talmente spaventevole che, senza neppure bisogno di regolazioni particolarmente intrusive che avrebbero rischiato di scoraggiare gli investimenti, ma avvalendosi di poche e azzeccate nuove regole, la finanza globale tornò presto a orientarsi sull’economia reale e questo permise al mondo di rifiorire. Bastò che si stabilisse che, quando si pongono sul mercato titoli rischiosi come i cosiddetti derivati, chi li emette ne sottoscriva una quota-parte con i suoi soldi. È un modo per dire forte e chiaro ai risparmiatori: su questi titoli io credo davvero e non voglio certo scaricare interamente su di voi il rischio. È una doverosa tutela del contraente debole, all’insegna di un principio di corresponsabilizzazione del rischio che rese celebre negli anni della crisi un libro intitolato I nodi al pettine dell’economista Marco Onado. Quel libro racconta, dice ancora il professore ai ragazzi riportando un aneddoto storico, che sulla porta delle trattorie francesi dei paesi di fine Ottocento, dominati dalla realtà della fabbrica, accadeva di vedere esposto un cartello recante la scritta: «Le patron mange ici». Come a rassicurare: se ci viene anche il padrone, c’è da fidarsi, ci mette i suoi soldi, si mangia bene. Ed erano quelle le trattorie piú frequentate, spiega il docente, aggiungendo che un’altra piccola grande regola destinata a infondere fiducia ai mercati fu la decisione di legare i bonus dei finanzieri ai dati sul medio-lungo termine e non piú sul breve. Ciò pose fine a quelle singolari «toccate e fughe» o, per dirla piú prosaicamente, «prendi i soldi e scappa», in cui molti uomini della finanza si erano specializzati prima della grande crisi. Poi, i leader dei paesi grandi e medio-grandi si erano accordati su un’efficiente sistema di riduzione delle emissioni di Co2 nell’atmosfera, dando vita a una stagione di sviluppo sostenibile come mai il mondo aveva conosciuto prima. A completare la svolta fu l’inversione di una tendenza che era sembrata irreversibile nei primi anni del secolo, e cioè la riduzione delle spese per la ricerca. Gli europei, in particolare, ricordarono improvvisamente di aver approvato nel lontano 2000 a Lisbona una strategia che poneva la ricerca e la formazione al primo posto degli impegni comunitari. Cosí, dal 2010 al primo posto le misero entrambe per davvero. Ed eccoci qui a godere di questo circuito virtuoso, – conclude compiaciuto il professore. Del resto, basta guardare le statistiche per accorgersi che negli ultimi anni i tassi di sviluppo sono tornati a crescere ovunque e l’occupazione qualificata è aumentata. Con il vostro Phd, cari ragazzi, non sarete di sicuro piú disoccupati come accadeva ai vostri colleghi del 2009-11, ma oggi troverete posti ben remunerati con grande facilità.
Il secondo scenario è di tutt’altro segno?
Purtroppo sí. Si svolge nello stesso giardino accademico, ma gli alberi sono spelacchiati e l’erba incolta è cresciuta tutt’intorno alle panchine. Si fa lezione fuori solo perché all’interno alcuni soffitti sono crollati e nelle aule è piú facile trovare topi che insegnanti. I topi hanno mangiato i pochi libri rimasti, non rilegati e malamente collocati su mensole semistaccate dalle pareti. Il mondo, spiega il professore ai pochi ragazzi presenti, prese una formidabile lezione nel triennio 2007-09, ma purtroppo non gli è bastata. I grandi leader si riunirono piú volte per annunciare nuove regole, molte e forse molto intrusive. Ma un po’ perché gli annunci non seguiti dai fatti sono la medicina peggiore, un po’ perché la finanza è come un’anguilla, se tu cerchi di fermarla da una parte quella ti scappa dall’altra, tutto è continuato a svolgersi come prima della crisi. Con la conseguenza che oggi c’è gente ricchissima, piú di quanta ce ne sia mai stata. Ma si tratta di poche persone. Vivono asserragliate nelle loro isole stupende, nelle quali robuste guardie del corpo le proteggono dagli arrivi di barche con migliaia di altri esseri umani affamati. Quanto a noi, cari ragazzi, siamo abbastanza tranquilli perché l’università non interessa piú a nessuno. E almeno godiamo il privilegio di chiacchierare su come sarebbe potuto essere il mondo e non è stato, sperando che nel frattempo il surriscaldamento del pianeta non sia cosí elevato come avevano sostenuto allarmati alcuni scienziati in un fallimentare vertice mondiale sul clima, svoltosi a Copenaghen alla fine del 2009. In fondo, questi studiosi, con le briciole di finanziamenti che hanno sempre avuto, si sono sentiti autorizzati a truccare un po’ i dati, paventando il disastro. Speriamo che il loro trucco non si riveli presago di ciò che sarà e che il nostro mondo non faccia la fine di quello dei dinosauri 65 milioni di anni fa. Quanto al vostro futuro, ragazzi, non fatevi illusioni. Ci sono strani paesi, come l’Italia per fare un esempio, che per la ricerca non hanno fatto assolutamente nulla. Per decenni non si sono preoccupati di assicurare il futuro alle nuove generazioni. E oggi voi al posto del futuro troverete, se va bene, l’indennità di disoccupazione.
Se dovesse scommettere, su quale dei due scenari punterebbe il suo denaro?
Punterei sul primo, con una buona dose di ottimismo della volontà, che è tutt’uno con la mia natura e la mia storia personale. Ho imparato a pensare che ogni circostanza maligna va presa come occasione per cambiare le cose in meglio e continuo a sperare che sia cosí.
Ma torniamo adesso al tempo che fu. Lei racconta la crisi come una gigantesca montagna di debiti trasformata in titoli attraverso operazioni finanziarie che hanno moltiplicato gli stessi debiti e i rischi. Non potendo aumentare i redditi delle famiglie americane, si è aumentata la loro capacità di acquisto, dilatando anche il loro indebitamento. Alla fine del 2007 le attività finanziarie tradizionali sviluppavano un volume di 230 trilioni, pari a quattro volte il Pil di tutti i paesi del mondo. Ma le attività dei derivati e dei titoli affini, con i quali l’indebitamento è stato per cosí dire spalmato tra i cittadini, toccavano quota 600 trilioni. Perché i Grandi del mondo hanno accettato di stare seduti per tanto tempo sulla bocca del cratere senza far nulla per impedire l’eruzione?
Ho il sospetto che questi numeri non li conoscessero, che siano venuti fuori nella loro terrificante dimensione soltanto a cose fatte. Di certo, mentre il fiume sotterraneo della crisi gonfiava i suoi argini all’insaputa di tutti, nessuno sembrava preoccuparsi dei rischi del sistema. D’altra parte, le attività finanziarie sembravano rispondere a molte bocche. Non solo a quelle dei banchieri ripagati con lauti bonus, ma anche a quelle degli azionisti che negli Stati Uniti rappresentano una larga fetta di americani. Era diventato comune dire che, se la competitività teneva bassi i salari, essi poi venivano rimpinguati dai rendimenti azionari. Quasi che questi fossero un modo sempre piú diffuso tra le famiglie americane di integrare il reddito oltre le possibilità della carta di credito e di fronteggiare il crescente indebitamento individuale. Naturalmente questi ritorni altro non erano che una parte del debito del sistema che cresceva senza controllo. Che ci fosse, in particolare negli Stati Uniti, qualcosa che non andava l’avrebbe forse capito qualunque ragioniere europeo e italiano abituato a far di conto. Non era spiegabile infatti per quale segreto motivo il rendimento del capitale investito dalle istituzioni finanziarie americane fosse quattro-otto volte quello di una efficiente banca europea. Se però quel ragioniere provava a esprimere dubbi, gli spiegavano che la creatività della finanza poteva sovvertire l’equilibrio di una banale proporzione algebrica. Ma il modesto ragioniere aveva ragione.
Erano gli anni in cui autorevoli economisti teorizzavano la grande funzione svolta dagli hedge funds sul destino di una democrazia…
Si è arrivati lentamente a considerare come pratica normale l’emissione di titoli senza assumerne il rischio, che è forse la deformazione eticamente e anche professionalmente piú lacerante della professione bancaria. Ma illustri economisti teorizzavano la diffusione del rischio finanziario come un modo sicuro e inattaccabile per minimizzarlo. Senza rendersi conto che questa miriade di frammenti di rischio diffusi nel mondo un giorno si sarebbe potuta riunificare in una gigantesca slavina e rovinare sulla nostra allegra finanza globale. Cosí è stato. È accaduto nella distrazione delle autorità di vigilanza o di mera sorveglianza, come il fondo monetario, le quali avevano preso l’abitudine di tenere aperto soltanto un occhio. Se si leggono oggi alcuni rapporti del Fondo in quegli anni, si coglie questa acritica fiducia nel futuro dominata dalla convinzione dogmatica che il sistema finanziario americano fosse cosí efficiente da giustificare da sé qualunque contraddizione logica. Tant’è vero che, quando pure l’incontenibile mole delle attività finanziarie incominciò a spaventare qualcuno e, da ultimo, iniziarono a comparire i primi rapporti del Fondo sul rischio finanziario di diversi paesi, gli Stati Uniti restarono fuori da questi allarmi. Poiché la capacità propulsiva di quel sistema si riteneva al di sopra di ogni possibile débâcle. Fu questo anche l’atteggiamento della Federal Reserve e della Sec, e quando pure quest’ultima aveva avuto le prime inquietudini e aveva chiesto al Congresso americano maggiori poteri di ispezione, questi le furono negati. I legislatori statunitensi pensarono che fosse meglio lasciar funzionare le cose da sé e si preoccuparono se mai di facilitare per legge la concessione di un mutuo per l’acquisto di una casa da parte di chi non aveva sufficienti garanzie.
Vuol dire che ci sono responsabilità ideologiche della crisi?
Sí, la crisi è figlia di un gigantesco fallimento ideologico e culturale. Ne è la prova piú evidente quella sorta di inconsapevolezza collettiva che ha segnato la vigilia come una cortina fumogena. Si era consapevoli dello squilibrio della bilancia commerciale degli Stati Uniti e ci si preoccupava del rapporto squilibrato tra il dollaro e il renminbi cinese, auspicando un coordinamento macroeconomico e monetario maggiore. Erano e sono problemi veri, ma gli effetti corrosivi e venefici che la finanza stava intanto producendo nel grande varco creato da quegli squilibri erano ignorati del tutto.
La storia racconterà il 1989 come la caduta del muro di Berlino e il 2008 come la caduta del muro del liberismo che era ampiamente sopravvissuto al decennio reaganiano?
In realtà la linea di continuità con l’èra reaganiana è piú nel lessico che nella sostanza. Il liberismo degli anni Ottanta aveva sí sciolto l’economia reale dalle regole e aveva sí penalizzato l’attività dell’antitrust. Ma l’esplosione finanziaria è iniziata piú tardi, con un insieme di ingredienti che Reagan e i suoi neanche conoscevano. Fu Greenspan, negli anni di Clinton, a teorizzare la fine del ciclo economico, a instillare la suggestione che l’input di maggiore efficienza portato dalle nuove tecnologie nell’economia reale avrebbe permesso a domanda e offerta di salire insieme senza freni, le attività finanziarie avrebbero fornito il carburante e, se si fosse formata qualche bolla, la si sarebbe bucata e tutto sarebbe tornato a posto. Mi chiedo francamente in che misura noi ministri finanziari europei, che in molti G7 dell’epoca abbiamo ascoltato le affabulazioni di Greenspan tacendo dubitativi come si fa davanti a un grande incantatore, siamo responsabili di averle convalidate.
Il mito tecnocratico della democrazia di mercato prevalse: se Greenspan discettava della fine del ciclo economico, c’era in quegli anni chi, come Fukuyama, certificava addirittura la fine della storia e pronosticava un’èra di prosperità e pace. Ma oggi il mito è ancora piú forte della smentite della storia? I processi di regolazione dei mercati avviati da Stati Uniti ed Europa hanno incontrato, non solo nella finanza ma anche nella politica, diffidenze e resistenze. E non possono certamente dirsi compiuti.
Oggi si scontrano due onde. La prima parte dai sentimenti dei cittadini, che per la prima volta hanno posto attenzione alla regolazione delle attività finanziarie come interesse proprio. Si tratta di una svolta culturale che non mancherà di produrre effetti. In passato quel poco di regolazione legislativa che c’era si era prodotta in un clima di disattenzione da parte dell’opinione pubblica. Si diceva: sono cose troppo tecniche, è difficile che la gente si appassioni. Dietro questo paravento, le attività finanziarie finivano per essere regolate in conformità degli interessi dei cosiddetti regolandi, cioè le banche e le altre istituzioni finanziarie. Nella migliore delle ipotesi i parlamenti agivano al piú sotto l’influenza delle banche centrali, con l’effetto di trasferire nelle regole quell’ambivalenza tutta interna all’universo bancario. La Banca centrale è insieme autorità di vigilanza e madre dei singoli istituti di credito. Accade cioè che ragioni piú meno come una brava madre livornese: «Il mio figliolo lo picchio io, se è il caso, ma te non mi toccare il mio figliolo». Quanto soprattutto alle altre autorità di vigilanza, la dottrina delle revolving doors ci insegna che l’aspettativa dei regolatori finisce per essere quella di cercare una collocazione nel mondo dei regolati. Ciò ha sempre garantito una regolazione benigna, quando non indulgente. È questa la seconda onda, l’onda lunga della tradizione, fatta di cautela e laissez faire, che si muove in senso inverso rispetto alle spinte dell’opinione pubblica. Ciò rende difficile ancora oggi una regolazione effettiva.
E intanto, passata la tempesta, le banche sono tornate a far festa, conseguendo con i derivati utili elevatissimi. C’è il rischio che la storia si ripeta?
Sí, c’è. Ed è annidato ancora una volta negli Stati Uniti. Basta guardare i dati delle banche europee e, in particolare, di quelle italiane, le quali in termini di autoregolazione si sono tenute piú lontane di quanto non avessero fatto in precedenza dalla ricerca di mero reddito finanziario. Il rischio è direttamente proporzionale alla voglia di rifarsi da parte di chi ha perduto. E negli Stati Uniti c’è chi ha perduto tanto.
Ma, in concreto, serviranno le nuove regolazioni a cui finalmente si è giunti o si sta giungendo? Se non si possono fermare i derivati, è almeno possibile legarli a qualche forma di responsabilità da parte di chi li emette? E la stessa responsabilità può essere invocata per i bonus dei banchieri?
Personalmente sono sensibile alle ragioni del mercato. Perciò non mi rallegrerei se la crisi finisse per scatenare una sorta di vendetta contro l’economia liberale. Nuove regolazioni per separare la raccolta del risparmio «retail» dall’attività delle banche d’affari, per rafforzare il patrimonio di tutte le banche e per ridurre l’entità dei rischi che esse assumono sono già entrate in vigore negli Stati Uniti e sono in corso di adozione anche in Europa. Ma attenzione. Le regole funzionano se c’è qualcuno che controlla. E allora servono autorità di vigilanza che siano in grado di assumere informazioni anche attraverso indagini pervasive e che lancino...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Dove andremo a finire
  6. Giuliano Amato
  7. Simona Argentieri
  8. Nicola Cabibbo
  9. Giuseppe De Rita
  10. Umberto Eco
  11. Sergio Romano
  12. Angelo Scola
  13. Umberto Veronesi
  14. Ringraziamenti