Lunar Park
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Lunar Park

  1. 344 pagine
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Informazioni sul libro

Quanti sono i Bret Easton Ellis di questo romanzo, in cui l'autore racconta la storia della propria vita? C'è lo scrittore Bret Easton Ellis, giovane, ricco e famoso, che viene a sapere della morte improvvisa di un padre violento proprio mentre la sua carriera naufraga in un mare di degradazione. C'è lo scrittore Bret Easton Ellis una decina di anni piú tardi, insediato in un elegante quartiere residenziale con moglie, figli e governante. C'è il Bret Easton Ellis padre di Robert Ellis jr, che tenta disperatamente di evitare il perpetuarsi di un modello distruttivo. E c'è anche uno scrittore senza nome, che è la voce interiore del nuovo Bret Easton Ellis. Un gioco di specchi, di padri ossessivamente presenti e figli fatalmente assenti, in un crescendo di orrore reale e soprannaturale, fino a una conclusione sorprendente.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858401934

1. gli inizi

«Sei una perfetta caricatura di te stesso».
Questa è la prima frase di Lunar Park, e nella sua brevità e semplicità doveva essere un ritorno alla forma, un’eco, della frase iniziale del mio primo romanzo, Meno di zero.
«La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles».
Da allora le frasi iniziali dei miei romanzi – per quanto ben costruite – sono diventate sempre piú complicate ed elaborate, sovraccariche di un’enfasi pesante e inutile sui minimi dettagli.
Il mio secondo romanzo, Le regole dell’attrazione, ad esempio cominciava cosí:
e insomma forse è una storia noiosa ma non ti tocca ascoltarla per forza, mi ha detto, perché aveva sempre saputo che sarebbe andata a finire cosí, e comunque, secondo lei, era successo durante il primo anno di college a Camden, e precisamente un fine settimana, un venerdí di settembre, tre o quattro anni prima, e si era sbronzata a tal punto che era finita in un letto, aveva perduto la verginità (tardi, a diciotto anni) nella stanza di Lorna Slavin – perché allora era una matricola e aveva una compagna di stanza, e Lorna, ricorda, era al terzo o al quart’anno, e qualche volta andava dal suo ragazzo che stava fuori campus, e che in teoria avrebbe dovuto essere al secondo anno di corso in ceramica ma che era invece uno studente di cinema della New York University venuto su nel New Hampshire giusto per il party Vestíti Per Farsi Scopare, oppure uno del posto.
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Quello che segue è l’inizio del mio terzo romanzo, American Psycho.
LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CH’ENTRATE sta scritto a grandi lettere rosso sangue sul muro della Chemical Bank vicino all’angolo tra l’Undicesima e la Prima e la scritta è tanto grossa da saltare agli occhi dal sedile posteriore del taxi che strattona nel traffico proveniente da Wall Street e proprio mentre Timothy Price nota quelle parole sopraggiunge un autobus e la pubblicità di Les Misérables sulla fiancata va a coprirgli la visuale, ma Price che è alla Pierce & Pierce e ha ventisei anni non sembra farci caso e dice al tassista che gli darà cinque dollari se alza il volume della radio, c’è Be My Baby sulla WYNN, e il conducente, un nero non americano, esegue.
Questo è l’incipit del mio quarto romanzo, Glamorama:
Puntini – sul terzo pannello ci sono puntini dappertutto, non vedete? – no, non quello, il secondo dal basso, ieri volevo mostrarli a qualcuno ma poi c’era un servizio fotografico e Yaki Nakamari o come cazzo si chiama il designer – si fa per dire – mi ha scambiato per qualcun altro e cosí non sono riuscito a farmi sentire, ma ragazzi – e ragazze – eccoli: irritanti, minuscoli puntini che non sembrano lí per caso ma fatti da qualche macchina – quindi niente stronzate, solo la storia, nuda e cruda, senza fronzoli, solo i fatti: chi, che cosa, dove, quando e non dimentichiamo il perché, anche se a giudicare dalle vostre brutte facce ho la netta impressione che il perché non avrà risposta – dunque, allora, si può sapere cosa cazzo succede?
(Acqua dal sole era una raccolta di racconti pubblicata tra American Psycho e Glamorama: dato che l’avevo scritta quasi tutta quand’ero ancora al college – prima della pubblicazione di Meno di zero – rappresentava un esempio del medesimo nudo minimalismo).
Come poteva immaginare chiunque avesse seguito i progressi della mia carriera – se è vero che la finzione narrativa svela involontariamente la vita interiore dell’autore –, le cose mi stavano sfuggendo di mano, o per dirla con il «New York Times», il mio modo di scrivere sembrava ormai «bizzarramente complicato… borioso e triviale… drogato», e io non ero necessariamente in disaccordo. Volevo tornare all’antica semplicità. La vita che conducevo mi opprimeva, e quelle frasi iniziali parevano la conseguenza di ciò che era andato a rotoli. Era arrivato il momento di tornare alle origini, e anche se speravo che quella frase essenziale – «Sei una perfetta caricatura di te stesso» – potesse dare il via al cambiamento, sapevo che non sarebbe bastata una serie di parole per sbarazzarmi del disordine e dei disastri che si erano accumulati attorno a me. Ma sarebbe stato l’inizio.
Da studente, al Camden College nel New Hampshire, mi ero iscritto a un corso di scrittura creativa e nell’inverno del 1983 avevo tirato fuori un manoscritto che alla fine era diventato Meno di zero. Raccontava per filo e per segno le vacanze di Natale a Los Angeles – per la precisione a Beverly Hills – di uno studente ricco, alienato e sessualmente ambiguo, iscritto a un college della costa orientale, descrivendo tutte le feste per cui vagava e tutte le droghe che prendeva e tutte le ragazze e i ragazzi con cui faceva sesso e tutti gli amici che osservava passivamente mentre si perdevano nella tossicodipendenza, nella prostituzione e in una smisurata apatia; giorni passati correndo strafatti di Nembutal con bellissime bionde su cabriolet scintillanti verso la spiaggia; notti perdute nelle sale vip dei club alla moda e tirando cocaina ai tavoli in vetrina di Spago. Era un atto d’accusa non solo a uno stile di vita che mi era familiare ma anche – pensavo con una certa presunzione – ai reaganiani anni Ottanta e, indirettamente, alla civiltà occidentale contemporanea. Anche il mio insegnante ne era convinto, e dopo un po’ di editing e di revisioni casuali (l’avevo scritto di getto in otto settimane di iperattività anfetaminica sul pavimento della mia stanza a L.A.) l’aveva passato al suo agente e al suo editore, che l’avevano accettato (l’editore con una certa riluttanza – un membro del comitato di lettura aveva argomentato: «Se c’è un pubblico per un romanzo che parla di zombie che tirano coca e sparano pompini, be’, allora questa cazzo di roba dobbiamo pubblicarla ad ogni costo»), e io avevo assistito con un misto di paura e di incanto – e con un pizzico di eccitazione – alla trasformazione del mio dattiloscritto da compito in classe a lucido volume rilegato destinato a diventare un grandissimo bestseller e una pietra di paragone dello Zeitgeist, tradotto in trenta lingue e portato sullo schermo in una grossa produzione hollywoodiana, tutto nel giro di circa sedici mesi. E all’inizio dell’autunno del 1985, appena quattro mesi dopo la pubblicazione, mi capitarono allo stesso tempo tre cose: diventai autonomamente ricco, irragionevolmente famoso e, cosa piú importante, sfuggii al controllo di mio padre.
Mio padre aveva fatto la maggior parte dei suoi soldi grazie ad affari immobiliari altamente speculativi durante gli anni di Reagan, e la libertà comprata con quei soldi l’aveva reso sempre piú instabile. D’altra parte mio padre – menefreghista, violento, alcolizzato, vanitoso, collerico, paranoico – era sempre stato un problema, e perfino dopo il divorzio dei miei genitori (chiesto da mia madre) durante la mia adolescenza il suo potere e la sua autorità avevano continuato a incombere sulla famiglia (composta anche da due sorelle piú piccole) attraverso modalità sempre e solo monetarie (infinite discussioni tra gli avvocati a proposito degli alimenti e degli assegni di mantenimento per i figli). La sua missione, la sua crociata, era di indebolirci, di renderci acutamente consapevoli di come fosse colpa nostra – e non del suo modo di comportarsi – se non volevamo piú avere a che fare con lui. Lasciò – riluttante – la casa di Sherman Oaks per trasferirsi a Newport Beach, e la sua ira continuò a fare a pugni con il pacifico panorama della California meridionale: le pigre giornate trascorse a ciondolare intorno alla piscina sotto un cielo implacabilmente limpido e assolato, gli sciocchi vagabondaggi per il centro commerciale, le continue corse in auto con le palme ondeggianti che ci accompagnavano a destinazione, le conversazioni frivole con la colonna sonora di Eagles e Fleetwood Mac – tutti i rilassanti vantaggi di crescere in quell’epoca e in quel luogo erano considerevolmente offuscati dalla sua presenza invisibile. Quello stile di vita languido, decadente e disteso non calmò mai mio padre – che rimase, sempre, prigioniero di una sorta di folle rabbia, per quanto facile apparisse in superficie la sua vita. Ed era per questo che il mondo ci sembrava minaccioso, ma in modo cosí vago e astratto che non riuscivamo a capire perché – la mappa era sparita, la bussola era rotta, ci eravamo persi. Io e le mie sorelle scoprimmo il lato oscuro della vita a un’età insolitamente precoce. Imparammo dal comportamento di nostro padre che il mondo mancava di coerenza, e che all’interno di quel caos la gente era condannata al fallimento, e questo offuscò ogni nostra ambizione. E cosí mio padre fu l’unico motivo per cui mi rifugiai in un college del New Hampshire, anziché restare a L.A. con la mia ragazza e iscrivermi alla Usc come fece la maggior parte dei miei compagni nella scuola privata che frequentavo in un quartiere residenziale della San Fernando Valley. Quello era il mio disperato progetto. Ma ormai era troppo tardi. Mio padre aveva sporcato la mia percezione del mondo, e il suo atteggiamento beffardo e sarcastico verso ogni cosa mi si era appiccicato addosso. Per quanto ci provassi, non riuscivo a sottrarmi alla sua influenza. Mi aveva impregnato, mi aveva plasmato nell’uomo che stavo diventando. Qualsiasi forma di ottimismo a cui mi sarei potuto aggrappare era stata spazzata via dalla natura stessa del suo essere. L’idea che sfuggirgli fisicamente potesse cambiare le cose era cosí patetica e insensata che trascorsi il primo anno a Camden paralizzato dall’ansia e dalla depressione. Il fatto di essere diventato uno scrittore proprio a causa del dolore che mi aveva inflitto – a parole e fisicamente – era il mio principale motivo di risentimento nei suoi confronti. (Dimenticavo: picchiava anche il cane).
Dato che non aveva alcuna fiducia nel mio talento di scrittore, mio padre esigeva che mi iscrivessi alla facoltà di Economia della Usc (i miei voti erano scarsi ma lui aveva qualche conoscenza), anche se io desideravo invece frequentare un’università che fosse il piú possibile distante da lui dal punto di vista geografico – una scuola d’arte, continuavo a ripetere malgrado i suoi ruggiti, che non offrisse alcun corso di economia. Non ne trovai nessuna nel Maine, perciò scelsi Camden, un piccolo college umanistico annidato tra le bucoliche colline del New Hampshire nordorientale. Mio padre, arrabbiato come sempre, si rifiutò di pagare la retta. Tuttavia il nonno – che mio padre all’epoca aveva citato in giudizio per una questione di soldi cosí tortuosa e complicata che ancora adesso non so come o perché avesse avuto inizio – pagò il conto. Sono quasi certo che il motivo per cui il nonno pagò quella retta esorbitante fosse legato al fatto che ciò avrebbe enormemente sconvolto mio padre, cosa che si verificò puntualmente. Quando cominciai a frequentare le lezioni a Camden nell’autunno del 1982, io e mio padre smettemmo di rivolgerci la parola, con mio grande sollievo. Questo silenzio funzionò fino alla pubblicazione e al successo di Meno di zero, quando il suo atteggiamento negativo e pieno di disapprovazione si trasformò, grazie alla popolarità del romanzo, in una strana, entusiastica benevolenza che intensificò il mio disgusto per lui. Mio padre mi aveva generato, criticato, distrutto, e poi, nel momento in cui mi ero reinventato ed ero tornato a stento a considerarmi una persona, si era trasformato in un papà orgoglioso, che si vantava di me e tentava di rientrare nella mia esistenza, il tutto nel giro di quelli che mi erano sembrati pochi giorni. Mi sentii di nuovo sconfitto, anche se ero diventato autonomo grazie alla mia recente fortuna economica. Rifiutarmi di vederlo o di rispondere alle sue telefonate – rifiutare qualsiasi tipo di contatto con lui – non mi dava alcun piacere; non vendicava nulla. Avevo vinto alla lotteria eppure mi sentivo ancora povero e bisognoso. Cosí mi gettai nella nuova vita che mi veniva offerta, anche se – essendo un astuto, navigato ragazzino di L.A. – avrei dovuto avere un po’ piú di buonsenso.
Il libro venne scambiato per un’autobiografia (avevo scritto tre romanzi autobiografici, tutti inediti, prima di Meno di zero, perciò questo conteneva molta piú invenzione ed era molto meno «a chiave» della maggior parte dei romanzi d’esordio) e le scene scandalose (lo snuff movie, lo stupro di gruppo della dodicenne, il corpo in via di decomposizione nel vicolo, l’omicidio nel drive-in) provenivano dai sinistri pettegolezzi sussurrati all’interno del giro che frequentavo a L.A. piuttosto che da un’esperienza diretta. Ma i giornali si preoccuparono oltremodo per il contenuto «scioccante» del libro e in particolare per il suo stile: scene molto brevi scritte come haiku controllati e cinematici. Il libro era corto e di facile lettura (una «pasticca nera», come scrisse il «New York Magazine», da consumare in un paio d’ore), e per via dei caratteri grandi (e dei capitoli non piú lunghi di una o due pagine) divenne famoso come «il romanzo della generazione Mtv» (grazie a «USA Today»), e io mi ritrovai etichettato praticamente da tutti come la voce di quella nuova generazione. Il fatto che avessi appena ventun anni e che non si fossero ancora manifestate altre voci non sembrava importante. Ero una storia sexy, e nessuno era interessato a sottolineare la pochezza degli altri prodotti. Oltre a venir ritratto in tutti i quotidiani e le riviste esistenti, venni intervistato al Today Show (per dodici minuti: un record), a Good Morning America, da Barbara Walters, da Oprah Winfrey; venni ospitato da David Letterman. Conversai assai animatamente con William F. Buckley a Firing Line. Per un’intera settimana presentai video su Mtv. Tornato a Camden mi fidanzai (per poco) con quattro diverse ragazze che prima della pubblicazione del libro non avevano mostrato un particolare interesse nei miei confronti. Alla festa di laurea che mio padre organizzò per me al Carlyle l’elenco dei presenti comprendeva Madonna, Andy Warhol con Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, Molly Ringwald, John McEnroe, Ronald Reagan Jr, John-John Kennedy, l’intero cast di St Elmo’s Fire, svariati vj, nonché membri del mio enorme fan club fondato da cinque studentesse di Vassar, oltre a una troupe di 20/20 incaricata di filmare l’evento. C’era anche Jay McInerney, che aveva appena pubblicato un romanzo d’esordio simile al mio, Le mille luci di New York, sui giovani e la droga a Manhattan, diventando nel giro di ventiquattr’ore ricco e famoso nonché il mio rivale numero uno sulla costa orientale (un critico sottolineò, in uno dei tanti articoli sui due romanzi, che sarebbe bastato mettere la parola «cioccolata» al posto di «cocaina» perché Meno di zero e Le mille luci di New York diventassero libri per bambini, e dato che venivamo fotografati molto spesso insieme la gente cominciò a confonderci; per semplificare le cose i giornali di New York si riferivano a noi semplicemente come ai due Gemelli Tossici). Dopo la laurea a Camden mi trasferii a New York e comprai un appartamento nello stesso edificio in cui abitavano Cher e Tom Cruise, a un isolato da Union Square Park. E mentre il mondo reale continuava a svanire, diventai l’esponente di spicco di una cosa chiamata il Brat Pack della letteratura.
Il Brat Pack era essenzialmente un prodotto dei media: tutto finte apparenze, punk e minaccia. Consisteva di un piccolo gruppo trendy di scrittori ed editor di successo, tutti sotto i trent’anni, che si limitavano a uscire insieme la sera, bazzicando Nell’s o il Tunnel o l’MK o l’Au Bar; ma la stampa newyorkese – cosí come quella nazionale e internazionale – andò in estasi. (Perché? Be’, stando a «Le Monde», «La narrativa americana non è mai stata cosí giovane e sexy»). Eravamo un’edizione aggiornata del Rat Pack della fine degli anni Cinquanta: io (nel ruolo di Frank Sinatra), l’editor che mi aveva scoperto, Morgan Entrekin (Dean Martin), l’editor che aveva scoperto Jay, Gary Fisketjon (Peter Lawford), l’editor piú hip della Random House, Erroll McDonald (Sammy Davis Jr), e McInerney (il Jerry Lewis del gruppo). Avevamo anche la nostra Shirley MacLaine, nella persona di Tama Janowitz, autrice di una raccolta di racconti su una serie di personaggi anticonformisti carini e drogati intrappolati a Manhattan che restò nella classifica dei bestseller del «New York Times» per parecchi mesi. Ed eravamo sempre in pista, alla grande. Tutte le porte si spalancavano. Tutti ci venivano incontro con la mano tesa e un sorriso a trentadue denti. Ci fotografavano per le riviste di moda, tutti e sei seduti nei séparé di ristoranti trendy, con indosso abiti Armani e in pose suggestive. Le rock-star ci invitavano nel backstage: Bono, Michael Stipe, i Def Leppard, membri della E-Street Band. Stavamo sempre nella tribuna d’onore. Occupavamo sempre la prima fila di sedili sull’ottovolante. Non dicevamo mai di no a una bottiglia di Cristal e neppure a una cena da Le Bernardin, dove le nostre stravaganze comprendevano battaglie a colpi di aragosta e docce di Dom Pérignon, finché il personale poco divertito non ci chiedeva di lasciare il locale. Dato che erano i nostri editor a pagare regolarmente il conto grazie a illimitati rimborsi spese, in pratica erano le case editrici a finanziare la nostra dissolutezza. Fu l’inizio di un periodo in cui il romanzo in sé non aveva quasi piú importanza – pubblicare un oggetto scintillante simile a un libro era la scusa per feste, glamour e autori di bell’aspetto che leggevano il loro minimalismo finemente cesellato a un pubblico di studenti ammirati, ciascuno dei quali pensava: «Potrei farcela anch’io, potrei essere come loro». Ma, naturalmente, la triste verità era che solo i fotogenici potevano farcela. E se non eri un ammiratore del Brat Pack, dovevi accettarci comunque. Eravamo dappertutto. Non avevi modo di sfuggire ai nostri volti che ti fissavano dalle pagine delle riviste e dai talk-show televisivi e dalle pubblicità di whisky e dai manifesti sulle fiancate degli autobus e dalle rubriche pettegole dei tabloid, alle nostre facce inespressive catturate dalla luce funerea dei flash mentre un fan ci accendeva una sigaretta. Avevamo invaso il mondo.
E io ero in vetrina. Tutto ciò che facevo veniva riferito. I paparazzi mi seguivano passo passo. Un bicchierino da Nell’s diventava ubriachezza molesta in un trafiletto di «Page Six» sul «New York Post». Una cena al Canal Bar con Judd Nelson e Robert Downey Jr, coprotagonisti del film tratto da Meno di zero, diventava «una cafonata» (vero, e allora?) Un’innocente colazione al Palio con Ally Sheedy per discutere di una sceneggiatura diventava una relazione sessuale. Ma mi ci ero messo io, sotto i riflettori – non li avevo evitati –, perciò cosa potevo aspettarmi? A ventidue anni facevo pubblicità ai Ray-Ban. Posavo per le copertine di riviste inglesi su un campo da tennis, su un trono, sul terrazzo del mio appartamento in vestaglia viola. In quello stesso appartamento davo feste con catering sontuosi – talvolta animati da spogliarelliste – per puro capriccio («Perché oggi è giovedí!», scrissi su un invito). Sfasciai una Ferrari che mi era stata prestata a Southampton, e il suo proprietario si limitò a sorridere (per qualche motivo ero nudo al volante). Partecipai a tre orge alquanto esclusive. Feci alcune comparsate impersonando me stesso in Casa Keaton, L’albero delle mele, Melrose Place, Beverly Hills 90210, Central Park West. Cenai alla Casa Bianca nell’estate del 1986, ospite di Jeb e George W. Bush, entrambi miei fan. La mia vita era una sfilata in passerella resa ancora piú magica dal costante materializzarsi della cocaina, e se volevi fare un giro con me dovevi portarti dietro almeno una eight-ball. E ben presto divenni un esperto nel fingere di ascoltare mentre in realtà ero perso nei sogni su me stesso: la mia carriera, tutti i soldi che avevo guadagnato, il modo in cui la mia celebrità era esplosa e mi aveva definito, la quantità di spudoratezza che mi era concessa. Ogni volta che tornavo a L.A. per le vacanze di Natale collezionavo quattro o cinque violazioni al codice della strada sulla 450 SL color crema ereditata da mio padre; d’altra parte vivevo in un posto dove i poliziotti li potevi comprare, un posto dove potevi guidare di notte senza accendere i fari, un posto dove potevi tirare di coca mentre qualche attrice di serie B ti faceva un pompino, un posto che ti permetteva di passare tre giorni di baldoria in un albergo a quattro stelle con la prossima supermodella, tutti e due strafatti di droga. Era un mondo che stava diventando rapidamente senza limiti. Era farsi di Dilaudid a mezzogiorno. Era non scambiare una parola con i miei famigliari per cinque mesi filati.
I due avvenimenti principali della fase seguente della mia vita furono la frettolosa pubblicazione di un secondo romanzo, Le regole dell’attrazione, e la relazione con l’attrice Jayne Dennis. Scrissi Le regole dell’attrazione durante l’ultimo anno a Camden, raccontando per filo e per segno la vita sessuale di un piccolo gruppo di studenti ricchi, alienati e sessualmente ambigui in una piccola università umanistica del New England (tanto simile a Camden che avevo chiamato cosí anche l’università del romanzo) all’apice dei reaganiani anni Ottanta. Il lettore seguiva i personaggi mentre passavano di letto in letto e di orgia in orgia, e il testo catalogava tutte le droghe che divoravano e tutto l’alcol che ingurgitavano, e raccontava di come si perdevano in storie di aborti e in una smisurata apatia saltando di continuo le lezioni, e in teoria avrebbe dovuto essere un atto d’accusa nei confronti di, be’, non saprei bene cosa, ma a quel punto della mia carriera avrei anche potuto pubblicare gli appunti che avevo preso a un corso su Virginia Woolf durante il primo anno di college e avrei ugualmente ricevuto il grosso anticipo e il diluvio di pubblicità che alla fine raccolsi. Il libro fu un altro bestseller, anche se non eguagliò il successo di Meno di zero, e la stampa si fece ulteriormente sedurre da me e dalla decadenza descritta nel romanzo, che pareva rispecchiare il mio stile di vita pubblico oltre che il decennio in cui eravamo tutti intrappolati. Il libro cementò la mia autorità come il portavoce di quella generazione, e la mia celebrità crebbe in misura inversamente proporzionale al numero di copie vendute. E tutto continuò: le casse di champagne, i vestiti regalati da Armani, i cocktail in prima classe, le menzioni in svariate classifiche di potenti, gli inviti alle partite dei Lakers, lo shopping da Barney’s dopo l’orario di chiusura, le groupie, le cause di paternità, le ordinanze restrittive nei confronti di «irriducibili fan», il primo milione di dollari, il secondo, il terzo. Volevo lanciare una mia linea di arredamento. Volevo fondare una mia casa di produzione. E il bagliore accecante della celebrità si fece sempre piú intenso, soprattutto quando iniziai a uscire con Jayne Dennis.
Jayne Dennis era una giovane modella che si era trasformata senza alcuna difficoltà in attrice seria, rinsaldando e accrescendo la propria reputazione grazie a numerosi ruoli in film di serie A. Le nostre strade si erano incrocia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. gli inizi
  5. la festa
  6. la mattina
  7. il romanzo
  8. il college
  9. le strizzacervelli
  10. la stanza di robby
  11. halloween
  12. fuori
  13. il centro commerciale
  14. il detective
  15. la cena
  16. la serata genitori/insegnanti
  17. i bambini
  18. gli allegati
  19. il vento
  20. la consulenza matrimoniale
  21. spago
  22. il gatto
  23. kentucky pete
  24. l’attore
  25. interludio
  26. la telefonata
  27. le tenebre
  28. la cosa in corridoio
  29. l’incontro
  30. infestato
  31. los angeles
  32. l’aggressione
  33. il risveglio
  34. la fine