La donna di scorta
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La donna di scorta

  1. 146 pagine
  2. Italian
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La donna di scorta

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Informazioni sul libro

S'incrociano in una mattina di pioggia, su un marciapiede scivoloso. Dorina che fa tesi a pagamento e Livio che fa l'antiquario. Subito s'innamorano. Dorina, una giovane single, e Livio, un uomo sposato... Ma i ruoli di quella che potrebbe sembrare un'ordinaria relazione fra amanti clandestini s'invertono fin dall'inizio. Livio, radicato in una solida vita matrimoniale, si trova invischiato in un rapporto privo di gerarchie che la sua normalità non può reggere. Perché Dorina non vuol prendere il posto di sua moglie. Non chiede niente più di quello che Livio è disposto a darle. Accetta la sua condizione di marito e di padre con una naturalezza che sconvolge l'assetto ordinato della vita di lui. Tanto da fargli montare dentro l'ossessione di sapere se il silenzio di Dorina, la sua mancanza di domande, la sua tranquillità ogni volta che lo vede tornare in famiglia, la luce tiepida e rassegnata che raddolcisce lo sguardo siano cicatrici o espressioni naturali della sua persona.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858403457

1.

È curioso il modo che ha il destino di venire sotto forma di tempo. Anzi lo sarebbe, se non fosse che ce l’ha per vizio. Se uno, al momento del fatto che gli cambia la vita, buttasse l’occhio all’orologio, vedrebbe le lancette che ripartono da uno zero fatto apposta per lui. Una risposta, una notizia, un incontro, un certo particolare squillo del telefono, arrivano con l’anteprima. Si fanno vedere e scappano in avanti, mostrando la sequenza fin dove l’occhio la segue. Tutto il futuro non lo conosciamo. Quello piú in là soprattutto. Ma il primo sí. Lo vediamo benissimo.
Livio e Dorina si erano incontrati per strada. Una strada centrale secondaria, di quelle che la città tiene in bassa considerazione. Di quelle che, anche se ci abiti vicino da vent’anni, hai sempre fatto per andare da un’altra parte. Coi negozi che vorrebbero, dove pure le cose di marca sanno di imitazione. Le assicurazioni che si chiamano col cognome del titolare dell’agenzia. Dove si cammina con una fretta non proprio necessaria, quella fissità impaziente in cui se incontri qualcuno che conosci ci metti un poco a ricordartelo, e lo sforzo di memoria ti disturba.
A maggior ragione, se alla fine di questa storia si andasse a chiedere a qualcuno che quella mattina si trovava a passare di là, se avrebbe mai sospettato che quei due estranei, solamente guardandosi, si sarebbero immediatamente riconosciuti in un futuro comune, ci si sentirebbe rispondere il piú posato dei no.
E dire che le loro vite, a passarci davanti, potevano andare. Fatte di lavoro, di mutui, case, mobili, libri, quadri, vestiti e tutte le cose che messe insieme diventano le persone. Due sistemi composti in maniera simile e per le stesse ragioni (in fondo che può esserci di cosí interessante in un altro, se anche lui fa o cerca un lavoro con cui comprarsi dei vestiti e pagarsi il mutuo per una casa, per poi metterci dei mobili, dei quadri, dei libri?) che da un giorno all’altro, su un marciapiede intasato di gente, avrebbero tradito e rovinato qualsiasi cosa avesse soltanto provato a trattenerli dal darsi a quell’estraneo per cui non sentivano che il desiderio di intromettersi nel suo sistema esistenziale del tutto simile al proprio, e quindi conoscere il suo letto, la sua casa, i suoi mobili, i suoi libri, i suoi quadri, i suoi vestiti. Qualunque prezzo sarebbe stato all’altezza di quel valore, qualsiasi rinuncia pur di averlo e sapere chi era, da dove veniva e come andava a finire. E tutto il resto vada pure al piú totale sfascio, che sarà mai se mi rovino e mi trascino appresso quel poco che di buono ho fatto, questa eventualità adesso mi è innocua, la vedo ma non mi ferma, e poi mica me la sono cercata, no, ho rinunciato anche troppo adesso basta, chi ci deve capitare ci capiti, purché si cominci subito.
Succede continuamente. Ogni giorno, in ogni parte del mondo qualche milione di persone dice al milione che ha appena incontrato: «Non so perché sto raccontando tutte queste cose proprio a te, che ti conosco appena». E invece sa benissimo quello che fa.
Viviamo nell’attesa permanente di un estraneo a cui consegnarci mani e piedi. A cui saremmo capaci di sacrificare gli affetti piú cari, se necessario. Anche quando siamo in malafede. Anche se sappiamo benissimo che al momento opportuno ci tireremo indietro attaccandoci alla piú ignobile delle scuse. Conta, però, il momento in cui siamo disposti a tutto. E tutto significa, papale papale, tutto.
Era di mattina tardi, aveva cominciato a piovere da poco. Lui avrebbe voluto togliersi la cravatta, infilarsi i pantaloni da casa e aspettare in poltrona l’ora di pranzo. Ma tornando dalla galleria si era imbattuto un’altra volta nelle Oscillazioni del gusto di Dorfles lasciato in bella mostra sul mobile dell’ingresso e aveva deciso di non rimandare piú. Erano settimane che lo teneva lí per costringersi a portarlo dal rilegatore, e poi fingeva puntualmente di non vederlo quando usciva. L’unico che non avesse venduto prima di abbandonare («’Ntotto», aveva detto il professore voltando la testa di lato per non guardarlo in faccia mentre immergeva la stilografica nel libretto). Ogni tanto lo apriva per risentire l’odore della sua stanza quando cominciava a studiare alle quattro del pomeriggio davanti alla finestra, col blocco degli appunti sotto la lampada della scrivania e il programma scadenzato per numero di pagine al giorno, che poi rifaceva ogni giorno daccapo.
Prese il libro, l’ombrello, e uscí. Chiuse la porta e tirò fuori le chiavi. Fece per infilarle nella serratura, restò immobile un momento e se le cacciò di nuovo in tasca.
Tanto torno subito.
Quando lei era uscita di casa, un’ora prima, non c’era motivo di dubitare del tempo. Adesso era per strada, e rimpiangeva il suo ombrello. Non che ne cadesse chissà quanta, e infatti lei camminava, un balcone dopo l’altro. Portava un maglioncino a pelle, di lana morbida, che spuntava dalla giacca a vento con la lampo tirata su a metà (veniva voglia di infilarci il naso per indovinare l’odore), pantaloni di velluto e vecchi mocassini allacciati. Niente trucco. Quando aveva cominciato a piovere si era raccolta i capelli con l’elastico dell’ultimo capitolo della tesi che doveva consegnare entro la fine della settimana. Forse per il cielo che si guastava, la sua persona non le andava per niente a genio. Sentiva una particolare irritazione nel muoversi normalmente, come se il corpo cercasse di dirle che non voleva essere portato in giro.
Lui saliva con l’ombrello puntato in avanti per la pioggia controvento. Vedendo il tanto che bastava a schivare la gente che veniva nell’altro senso, marciava verso la legatoria con l’unica ragione di tornare a casa per non ritrovarci il libro.
Rallentò dietro una vecchia che andava pianissimo apposta (uno dei modi in cui molti di loro se la prendono con i giovani: io non sono tenuto ad adeguarmi né a te né a questo mondo scostumato dove non conto piú niente, io non ce l’ho la tua fretta non la voglio subire, è inutile che strombazzi che scalpiti che dài a vedere di sopportarmi, io sto qui e mi prendo tutto il tempo che voglio) e sollevò l’ombrello e lo sguardo. Dorina gli veniva incontro, aggrappata con tutt’e due le mani alla tracolla della borsa e i passi incollati uno all’altro per il timore di incappare in una mattonella ballerina. Guardava avanti e poi a terra, e allora faceva quasi per ritrarsi, come per paura di una trappola. Quel modo precario di andare, come di chi non si rassegna all’incomprensibilità delle cose e perciò si aspetta sempre l’imprevisto, emanava una tenerezza che agli occhi di Livio si caricava di un ridicolo che aveva incontrato quelle due o tre volte in cui la felicità gli era uscita dalle orecchie (l’ultima, forse, quando Martina aveva cominciato a camminare, come un compasso, lungo il corridoio). Poi si fece piú vicina, e il suo giudizio cambiò drasticamente. Una faccia cosí doveva essere passata per un dolore importante. Era rassegnata. Era spigolosa e dolce. Aveva rughe recenti.
Livio non aveva piú nessuna autorità sui propri occhi. Nessuna memoria di nessuna modalità di occultamento dei suoi desideri. La guardava.
È naturale, fra piú cose in movimento, percepirne una che sta ferma e osserva. Se poi ti osserva, te ne accorgi prima. Dorina si sentí come trattenuta, e senza sapere quello che faceva si mise a cercare fra gli estranei.
Allora lo riconobbe. L’impressione fu che la vita le volesse restituire qualcosa.
Potevano tirare dritto. Tornare a casa e fare tutto un po’ piú lentamente, dicendosi niente, non è niente, passa subito, fingendo di conservare la speranza che si sarebbero incontrati ancora, e cosí lasciare che il tempo facesse sfumare le loro facce per ognuno dei giorni successivi in cui, con mille scuse, avrebbero fatto in modo da non tornare in quella strada, e quando finalmente sarebbe stato troppo tardi avrebbero potuto dire che cretino, che cretina.
Dorina già si vedeva per le scale di casa, aggrappata al corrimano, a guardare uno a uno i gradini preparandosi alla miseria di quei giorni. Allora capí che non aveva qualcosa di meglio da difendere. Che poteva andare. Che se si fosse guardata indietro prima di partire non avrebbe voluto portare niente con sé.
Gli andò dritta incontro, con le narici dilatate dalla convinzione.
– Posso fare un tratto con te?
Lui le guardò le parole, poi rispose con la domanda peggiore che poteva farle.
– Ma non stavi scendendo?
– Sí.
E si avviarono insieme, in salita. Lui le offrí la metà di ombrello che le doveva, tenendo un’apertura del braccio pateticamente ambigua. Lei s’affaccendava le mani con la zip della giacca a vento. Pioveva meno.
«Ma guarda tu, sto tornando indietro», pensò lei riconoscendo le mattonelle che si era appena indaffarata a non prendere. Poi, come un lampo: «Il caso non è casuale. Fa quello che non gli viene impedito».
– Dorina, – disse.
– Come? – fece lui, e quando si girò andò a finire con gli occhi su uno spicchio del suo collo. Portava una collanina d’oro sottilissima con un pendaglio piccolo piccolo a forma di goccia. Pensò alla trafila della pastina da brodo. In una maglia s’erano impigliati dei capelli. Rossi. Se ne accorse soltanto allora.
– Dorina, – ripeté lei.
Allora lui si fermò. Stava per cacciare l’altra mano fuori dalla tasca, ma si represse in tempo.
– Livio. Livio.
Da come lo disse, sembrò Lvlv-o. Merda, pensò.
Arrivarono alla fine del marciapiede. Il semaforo dava giallo a intermittenza. Livio la coinvolse in una fretta nevrotica di fare prima del rosso. La prese per mano, un po’ apposta un po’ no. Lei si lasciò portare, e seguí con gli occhi i suoi passi fino all’altro marciapiede. Aveva delle scarpe vecchie, tipo clark, verde militare, scolorite. Le erano sempre piaciute le polacchine.
Sotto l’altro semaforo, per un impulso improvviso di autocontraddizione, Dorina rallentò bruscamente. Era stata troppo chiara. Voleva fare un passo indietro. Dare alle cose l’incognita che ne fa valere la pena. Livio si diede la colpa di averla presa per mano.
– Ci stiamo salutando?
Lei lo guardò senza rispondere, come a dirgli che valutava ugualmente il sí e il no.
– Senti, – disse lui. E fece una pausa, accompagnandosi con un sospiro a bocca chiusa. – C’è un caffè, qua vicino.
Altra pausa.
– Se hai voglia di fermarti.

2.

Il bar si chiamava Lorenzi. Dorina non c’era mai stata. Si trovava nel cortile di un vecchio palazzo, uno di quei posti che conosci solo se qualcuno ti ci porta. La luce era poca, bassa e soprattutto marroncina («Guarda un po’», pensò lei). Il pavimento era fatto di sampietrini a ventaglio, in continuazione del cortile. Pochi tavoli, rotondi e da quattro, ma già in tre ci si stava stretti. Il banco, di mattoni e col piano di noce scuro, lo stesso dei tavoli, dominava il locale nel centro. Il caffè veniva macinato continuamente. Ce n’era una cesta in esposizione, su uno sgabello davanti al banco, effetto panettone sotto l’albero. Sulle due pareti laterali, una di fronte all’altra, due credenze gemelle, vecchie piú che antiche, probabilmente recuperate dalla stanza da pranzo di qualche nonna. Sul banco le tazzine, il cestino dello zucchero e qualche dolce avanzato dalla mattina.
Scelse Dorina il tavolo.
Contrariamente a quello che sembrava, Lorenzi non era un cognome ma una sigla. Tre soci. Quando lui glielo disse, Dorina sorrise nel trovare interessante quell’informazione, solo perché venuta dalla sua bocca.
– Hai delle belle mani, – gli disse a bruciapelo osservandolo asciugare la copertina del libro.
– Una volta erano meglio, – rispose lui fingendo di non capire. – Fino a qualche anno fa restauravo mobili.
– E adesso? – continuò lei sistemando i gomiti sul tavolino, in piena improvvisazione di disinvoltura.
– Li vendo. Ho una galleria. Ma piú che altro vado in giro a procurarmeli.
– Quindi qualcuno resta in galleria, – disse Dorina.
– Eh già, – rispose Livio chiaramente a disagio.
«Ma come mi è venuto», si sgridò lei.
– Tu invece che fai? – domandò Livio per rifarsi.
– Ho un’agenzia di traduzioni e ricerche bibliografiche.
– Ah, – fece Livio.
– Faccio tesi di laurea, – tagliò corto Dorina ridacchiando.
Arrivò un ragazzo alto coi capelli pieni di gel e pantaloni aderenti in finta pelle a prendere l’ordine. Dorina chiese un succo d’ananas. Avrebbe voluto un caffè. Livio scelse qualcosa che aveva un nome di persona.
C’era un buon odore di legno e di cose calde da bere. Ogni tanto qualcuno si alzava per uscire e allora si sentiva suonare il campanello della cassa. Pantaloni attillati portò l’ananas in un pretenzioso calice con cannuccia Hawaii, un cocktail rossastro con un velo di schiuma in superficie e una coppetta di olive.
– Sei cosí anche tu? – chiese Dorina volteggiando lo sguardo intorno alla testa di Livio mentre lu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La donna di scorta
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. Il libro
  37. L’autore
  38. Dello stesso autore
  39. Copyright