Per un'etica condivisa
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Per un'etica condivisa

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Per un'etica condivisa

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Quelli in cui viviamo sono «giorni cattivi» per coloro che credono nel dialogo tra credenti cristiani e non cristiani e tra cattolici e laici. Troppo spesso alcuni cattolici sembrano voler costituire gruppi di pressione in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell'altro. Dove prevale l'intransigenza e l'arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori. Ma è solo riconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico. Ed è solo ricordando che il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato che il cristianesimo può ancora conoscere una crescita spirituale e numerica. Perché i cristiani devono favorire, con le loro parole e le loro azioni, l'emergere di quell'immagine di Dio che ogni essere umano porta con sé. Anche il non cristiano.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858401019

II.

Un linguaggio umile per narrare la fede

Al cristianesimo servono testimoni non testimonial.
A volte si fatica a trovare una certa coerenza in atteggiamenti e comportamenti diffusi ai nostri giorni: una società ormai secolarizzata, da alcuni definita post-cristiana, non solo è attraversata dal ricorso a una nebulosa di spiritualità avvolgente, ma pare infiammarsi per eventi di connotazione religiosa, o addirittura confessionale, dal forte impatto identitario. Che sia l’attrice di grido che si risposa in chiesa affermando il suo ritrovato cattolicesimo, oppure il regista dai gusti truculenti che produce una pellicola di iperrealismo sanguinario sulle ultime ore di vita di Gesú, o ancora il romanziere di successo che avvolge in un torbido thriller il mistero della vicenda umana del rabbi di Nazaret confessato come Signore dai suoi discepoli, sembra che il fascino del religioso – da alcuni frettolosamente definito come «la rivincita di Dio» – seduca in modo sempre piú avvincente una società stanca e disincantata, alla ricerca di valori certi, la cui forza si misura soprattutto dall’intensità delle emozioni che suscitano, confondendo ciò che è impressionante con ciò che è importante.
In questo contesto è dunque ancora possibile a un credente nel Dio rivelato da Gesú Cristo narrare la propria fede, rendere ragione a chi gli chiede conto della speranza che lo abita, come l’apostolo Pietro invitava i suoi contemporanei a fare nella diaspora pagana del suo tempo? Cosa può dire oggi un cristiano sulla presenza di Dio nella propria vita? È condannato all’alternativa tra il tacere e il ricorrere al miracolistico per confutare ipotesi prive di qualsiasi fondamento non solo scientifico ma anche semplicemente razionale? Davvero il quotidiano di un’esistenza cristiana, la fedele perseveranza in un cammino di costante conversione alle esigenze evangeliche è divenuta merce non piú spendibile in un supermercato del religioso in cui si impone chi ha lo slogan piú seducente o il testimonial piú affermato?
No, io credo sia ancora possibile trovare parole e gesti per articolare un linguaggio cristiano comprensibile agli uomini e alle donne di oggi, capace di raggiungerli al cuore del loro vissuto ordinario: è ancora possibile rendere conto di un legame vitale con una presenza invisibile che i credenti chiamano Dio. Certo, per fare questo appare ormai infruttuosa se non addirittura impraticabile la via dell’esposizione della dottrina e della dimostrazione dei dogmi, ma del resto ci si può chiedere quando mai la trasmissione della fede di generazione in generazione è passata solo attraverso l’esposizione di elaborazioni teologiche. Queste hanno indubbiamente nutrito il pensare e l’agire, hanno fornito un prezioso patrimonio di conoscenze, hanno consentito di «dare un nome» e un’articolazione a moti dello spirito, ma la conoscenza personale del Signore Gesú, l’adesione nella libertà e per amore alla sua vita prima ancora che al suo insegnamento è sempre passata da persona a persona, da genitori a figli, nonostante ogni sorta di infedeltà e contraddizioni, attraverso l’autenticità e l’intensità di una vita trascorsa giorno dopo giorno nel faticoso eppur gioioso restare aderenti, «attaccati» – questo il significato etimologico del termine «fede» in ebraico – a un Dio percepito come Altro eppure del quale si è immagine, un Dio collocato lontano eppure sperimentato vicino, un Dio soprattutto raccontato, spiegato da Gesú Cristo.
Sí, è in uno spazio di grande libertà e insieme di gratuità che la fede in Dio si trasmette: l’essere umano, infatti, può vivere credendo in Dio come può vivere senza questa fede, non vi è costrizione alcuna a dover credere in Dio perché Dio non è il risultato di una necessità, non è ananké, «destino». Può sembrare scandaloso anche agli orecchi di molti atei devoti che oggi pontificano, ma non vi è alcuna necessità mondana di Dio, nessuna possibilità di teismo utilitario come invece vorrebbe far credere una società in carenza di ideali. L’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, cosí come può esserlo un credente: non è la fede in Dio a determinare la felicità o l’infelicità di un essere umano. Del resto già i rabbini avevano sagacemente concluso che Dio ha creato una creatura in grado di dirgli: «Tu non esisti, tu non mi hai creato». L’essere umano, dunque, è capax Dei cosí come è «capace» di ateismo. E non è neanche la fede in Dio l’unica istanza capace di frenare il decadimento morale, come invece lasciano intendere non senza arroganza quanti sostengono che «se Dio non c’è, regna la barbarie»: raffinatissime culture e religioni «senza Dio» – si pensi al buddhismo – non sono state meno efficaci della cristianità nello scongiurare o nell’arginare orientamenti e comportamenti mortiferi. In verità, secondo la grande tradizione cristiana, anche se l’uomo non riconosce Dio e non è credente, resta sempre a sua immagine: può negare la propria somiglianza con Dio, ma l’immagine è come un carattere impresso una volta per sempre in ogni essere umano.
Ma allora, perché credere? Si crede, si aderisce al Signore perché nella ricerca di Dio, del bene, della felicità si accetta il dono della fede: questa infatti è dono e «non è di tutti», come ricorda l’apostolo Paolo. Ci sono uomini che credono e uomini che in qualche misura non «possono» credere, non per predestinazione divina, ma perché non sono in condizione di discernere e accogliere la fede: questa resta un atto di libertà. Ma allora, cosa apporta la fede a chi crede? Va detto senza reticenze: porta la speranza della vita piú forte della morte, dell’amore piú forte dell’odio, di una vita oltre questa vita. Questo è lo specifico del cristianesimo: la fede nella risurrezione, la risposta alla domanda che ogni uomo si fa: «Cosa posso sperare?»
Penso comunque che la nostra riflessione guadagnerebbe in chiarezza se non ci fermassimo alla domanda sul «perché», ma indagassimo anche sull’«affinché», sullo spazio della finalità. Il credente, infatti, non dovrebbe porsi solo il problema dei motivi del proprio credere – con il rischio di ridurre la domanda a una questione di un calcolo di costi e benefici – e nemmeno delle «radici», ma anche quello dei frutti, del sapere che ne ha fatto, che ne fa ogni giorno della propria fede, che «segno» pone di una realtà invisibile che gli altri uomini possono percepire solo attraverso testimonianze visibili e «credibili», autorevoli perché autentiche. A ben poco, infatti, servono proclami solenni di convinzioni astratte se queste non sanno calarsi in un vissuto umanissimo che testimoni di quella speranza nella vita piú forte della morte. Non si dimentichi che la fede cristiana è nata e si è sviluppata attraverso la testimonianza di semplici uomini e donne che hanno preso su di loro il giogo leggero di una vita conforme a quella mostrata da Gesú come la vita umana secondo il disegno di Dio, una vita ricca di senso e di amore, una vita abitata dal prendersi cura dell’altro, una vita autenticamente umanizzante.
Certo, neanche il credente è esente dal dubbio, dalla tentazione – in primis dalla tentazione dell’idolatria, del sostituire all’alterità l’opera delle proprie mani, del negare l’altro per imporre il proprio ego; anche il credente conosce il rischio dell’incredulità come poca fede, come non ascolto della volontà di Dio, come tenebra del nonsenso... Ma proprio questa sua esperienza di contraddizione lo rende capace di ascoltare le difficoltà dell’altro, di capire le perplessità di chi non condivide la sua fede, di dire una parola franca che affonda la sua autorevolezza non in un dogma ma in un vissuto, lo rende capace di dialogare nella diversità e nel rispetto delle singole identità. In una parola, di essere testimone di quel Gesú di Nazaret che ha «narrato Dio» agli uomini, rendendo visibile l’invisibile. Perché, oggi come sempre, i cristiani e quanti guardano a loro con simpatia o con rispetto non hanno bisogno di testimonial ma di testimoni.
Non confondiamo buona novella e scoop.
«Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza», scriveva Ignazio di Antiochia ai cristiani di Roma alla fine del i secolo, durante il suo viaggio verso la capitale dell’impero, dove avrebbe subito il martirio. È innegabile che la fede cristiana si sia progressivamente affermata a partire dal ceppo dell’ebraismo, non per via di eloquenza e di parole, ma manifestando grandezza d’animo. Ripercorrendone la storia, sovente si dimenticano le ostilità che il cristianesimo conobbe nei primi tre secoli, prima di assurgere – anche per opportunità politiche – a religione dell’imperatore. Sono i secoli delle persecuzioni, del martirio di intere generazioni di fedeli, dai vescovi all’ultimo degli schiavi: stagioni di sofferenze e di prove nei quali «il sangue dei martiri» diveniva «seme dei cristiani».
Ancora oggi, se i cristiani sapessero restare solidamente attaccati al nucleo centrale della buona notizia – la pienezza di vita offerta da Dio all’umanità intera attraverso il mistero dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione di Gesú, suo Figlio e uomo come noi – non si lascerebbero dettare tempi e modalità della loro riflessione da romanzi e film di cassetta, non sarebbero turbati né dal sadismo sanguinario di chi si sofferma sulla passione di Gesú come atrocità disumana, né dalle scempiaggini di codici inventati che proiettano sul passato deformazioni tipiche di chi è abituato a confondere la realtà con la finzione. Le operazioni mediatiche attorno alla figura di Gesú che ci vengono imposte in questi ultimi anni sollevano in questo senso alcuni interrogativi alle comunità cristiane sul loro modo di porsi e di testimoniare la propria fede nel mondo di oggi. Interrogativi seri che rischiano invece di restare elusi se si accetta di inseguire una confutazione scientifica e storica a panzane astutamente assemblate per sfornare un prodotto di successo: a questi mistificatori di codici, infatti, non importa nulla dell’inattendibilità scientifica dei loro racconti. Non di questo si dovrebbero preoccupare i cristiani, ma piuttosto del fatto che la loro vita quotidiana non riesce piú a dar conto della loro speranza: scopo della chiesa nei secoli, infatti, non è trasmettere una serie di convinzioni e di dati storici attraverso una gerarchia che li calerebbe su un popolino credulone e succube, e nemmeno di alimentare o proteggere misteriosi intrighi di potere, bensí fare in modo che ogni essere umano, di ogni tempo e di ogni luogo, possa incontrare Gesú di Nazaret come realtà vivente, possa sperimentare la vita piena che Dio ha pensato e voluto per l’umanità e il creato.
Ma in questi anni non sta accadendo nulla di nuovo: la storia testimonia che fin dalla sua nascita il cristianesimo ha dovuto confrontarsi con «altre» interpretazioni della figura di Gesú Cristo e del suo messaggio, il vangelo. D’altronde, lo stesso cristianesimo nasce plurale: diversi sono i quattro vangeli, diverse le predicazioni dei primi missionari, diverse le letture sedimentate nelle numerose comunità sparse nell’area mediterranea. Certo, alla fine del i secolo queste comunità si riconoscevano in una confessione di fede convergente e possedevano alcuni testi (vangeli e lettere apostoliche) riconosciuti come autentiche testimonianze della vicenda di Gesú di Nazaret – vissuto, morto e risuscitato – confessato come il Signore della chiesa. Tuttavia nel ii secolo vanno perduti – assieme alle comunità di giudeo-cristiani spazzate via dalla tragedia delle conquiste di Gerusalemme da parte dei romani (prima nel 70 e poi nel 135 d.C.) – alcuni vangeli, chiamati dai padri «degli Ebrei» o «degli Ebioniti», mentre vengono elaborati altri testi che, accanto ai quattro vangeli della grande chiesa, cercano di colmare «anni oscuri» della vita di Gesú, tempi su cui regnava il silenzio. La curiosità popolare aiutò la genesi e determinò la fortuna di questi testi fantasiosi, ricchi di elementi leggendari e miracolistici: cosí il Vangelo di Giacomo si interessa all’infanzia di Gesú, mentre quello di Pietro narra la risurrezione di Gesú quasi «in diretta»... Una creatività che tuttavia mostrava da un lato una curiosità non soddisfatta dalla predicazione ecclesiale e, dall’altro, una debolezza dei credenti di fronte al mistero scandaloso del Dio fattosi veramente uomo in Gesú e della sua morte infame sulla croce.
La chiesa non accettò mai questi testi come «canonici», capaci cioè di essere «canone», regola per la fede cristiana, ma li tollerò e a volte se ne serví per soddisfare il bisogno popolare di trovare il miracoloso, lo straordinario nella vita di Gesú oppure per rinforzare l’apologia del «Figlio di Dio» rifiutato e condannato a morte dal suo popolo, considerato perciò meritevole di essere condannato e sostituito dal «nuovo» popolo cristiano. Molti tratti di questi scritti erano antigiudaici, carichi di disprezzo per il popolo ebraico, e forse anche per questo non furono accolti dalla chiesa che si limitò a conservarli e a usarli nella predicazione corrente. Cosí, pur esclusi dal canone ufficiale, essi hanno attraversato i secoli: basterebbe contemplare alcuni dipinti di Giotto per rendersi conto di come gli eventi narrati da quei testi abbiano influenzato la biblia pauperum, quella versione «povera» della Scrittura che erano le immagini sacre raffigurate nelle chiese.
Sempre nel II secolo emergono gruppi di cristiani marginali che producono interpretazioni di Cristo e del suo vangelo molto sofisticate: si ispirano a dottrine esoteriche che opera...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Introduzione. È ancora possibile un confronto nella mitezza?
  6. I. Presenza della chiesa nello spazio pubblico
  7. II. Un linguaggio umile per narrare la fede
  8. III. Il peso delle parole
  9. IV. L’etica e la scienza nella luce della fede
  10. Conclusione. Immersi nella storia degli uomini