L'ambiguità
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L'ambiguità

  1. 136 pagine
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L'ambiguità

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Ambiguità e malafede sempre piú si configurano come tratti dominanti della nostra epoca a livello individuale e collettivo, nelle relazioni amorose e in quelle sociali, nella politica e nella bioetica. Eludendo la verità interpersonale ed intrapsichica - sono al tempo stesso una nevrosi e un piccolo crimine, al confine tra la patologia e l'etica. Essere ambigui significa evitare il conflitto, il senso di colpa, la fatica della coerenza, lasciando convivere dentro di sé identità molteplici. Gli atteggiamenti mentali subdoli e sfuggenti nascondono falle del pensiero minime, ma non per questo innocue, in grado di inquinare, attraverso messaggi obliqui, i legami sociali, le stesse regole della convivenza civile, minando la fiducia tra i singoli come tra i gruppi organizzati, i cittadini e le istituzioni. È un dissimulare lieve, al limite tra conscio ed inconscio nel quale l'inganno viene fatto anche a se stessi. Al punto che può far scambiare la frequenza statistica con la normalità.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858402887

III.

La capacità di scegliere

Da alcuni decenni assistiamo a un sommovimento socioculturale che si connota come rivolta contro quell’ordine biologico che in passato regolava il mondo. Talora la ribellione viene considerata una conquista, un trionfo sulla materia; talora invece sembra esprimere il distacco dell’individuo dal corpo e dai suoi bisogni e perfino il rifiuto delle pulsioni vitali di cui il corpo costituisce la sede naturale.
Pensiamo ad esempio all’attuale preponderanza di patologie del rapporto mente-corpo: oltre alle patologie dell’identità del genere sessuale, le ipocondrie, le tossicodipendenze, le affezioni psicosomatiche, i cosiddetti disturbi alimentari… che denunciano la sconnessione tra emozione e ragione.
Difficile, peraltro, distinguere le spinte sane, evolutive, tese a emanciparsi dalle costrizioni delle cosiddette “leggi di natura”, dalle pretese invece di stampo onnipotente e narcisistico, che non vogliono riconoscere il senso del limite. Valga come esempio la tormentata vicenda della regolazione delle tecniche per la fecondazione assistita.
In un clima di tanta tecnologia e poca scienza, il concetto stesso di “natura” viene costantemente invocato come argomento a sostegno dei pregiudizi di parte.
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Sono dilemmi nei quali si consumano – come ben sappiamo – infinite energie sociali; e il rischio costante è invocare categoriche “soluzioni” sul piano legislativo, secondo un cortocircuito del senso che tenta di evitare la fatica di pensare.
Etica e bioetica: la malafede come crimine.
Così, sull’accidentato terreno della bioetica continuiamo a registrare vistosi paradossi: temi eccezionali, ma numericamente poco rilevanti – come la fecondazione assistita o le adozioni da parte di coppie non tradizionali – suscitano un vasto dibattito sociale; mentre altri – come le direttive anticipate di fine vita (il cosiddetto testamento biologico, nel suo attuale travagliato iter parlamentare) – che riguardano assolutamente tutti, vengono lasciati ai margini dell’attenzione collettiva.
Se, come stiamo argomentando, abbiamo continuamente bisogno di difenderci dagli insulti della realtà, è ovvio che il maggior spiegamento di difese si abbia a fronte della massima angoscia: quella di morte. Tali meccanismi sono prevalentemente inconsci e se effettivamente possono servire a tenere a bada ansie e paure, sono sempre un cattivo affare; poiché il beneficio è comunque su base illusoria e la minaccia reale non cessa di incombere su di noi. Anzi, distogliendo l’attenzione consapevole, ci precludiamo la possibilità di escogitare qualche rimedio concreto.
Così, non occuparci oggi della regolamentazione delle direttive anticipate, distraendoci dalla questione, non influisce neanche un po’ sul dramma reale che tutti siamo mortali; mentre ci toglie quel piccolo ma prezioso margine di possibilità di scelta su come vorremmo essere trattati al momento della fine della vita, su quanto per ciascuno la sopravvivenza biologica possa essere o meno più importante della dignità della persona nella sua interezza psicofisica.
Anche questa volta la malafede non è in chi – esercitando comunque un proprio diritto – non vuole ricordarsi di essere mortale, ma in chi mette il veto, per di più facendone un vessillo ideologico di virtù, al bisogno di altri di preoccuparsene e prendersene cura.
L’equivoco non innocente che continua a essere alimentato da coloro che a ogni ipotesi di testamento biologico si oppongono è che una eventuale normativa giuridica verrebbe applicata automaticamente a tutti; mentre è esattamente il contrario: solo chi lo vuole dovrebbe essere libero di esprimersi in proposito, prendendosene le relative responsabilità.
Per alcuni, ad esempio, la paura di essere tenuti a forza in una pseudovita è più forte di quella della morte stessa.
Insomma, ciascuno si difende dall’angoscia come può e come vuole; ma non dovrebbe farlo a spese altrui.
La bioetica non è e non deve essere una disciplina1. Non è certo possibile invocare un “criterio guida” assoluto o dei superesperti, che ci assistano in ogni decisione. Ad esempio, il diritto basilare all’autodeterminazione del singolo, che alcuni sostengono – e io sono tra quelli – nei casi di interruzione di gravidanza o di scelte di fine vita, non può essere applicato meccanicamente in casi di richieste deliranti o di organizzazioni perverse.
Penso inoltre che la pratica del “consenso” in medicina – e più specificamente del “consenso informato” –, nata con le migliori intenzioni, sia divenuta spesso una spiccia formalità burocratica; mentre a livello filosofico e bioetico conserva tutta la sua scomoda ambiguità. In ogni circostanza terapeutica, infatti, c’è una necessaria asimmetria di conoscenze tecniche e scientifiche tra medico e paziente, solo minimamente colmabile con le debite “informazioni”.
Tale generica ambiguità si traduce in vistoso paradosso nei casi di affezioni psichiatriche, nelle quali si chiede una valutazione e una scelta sul piano realistico (ricovero, assunzione di farmaci…) a chi ha bisogno di cure proprio in ordine a un deficit di giudizio dell’esame di realtà.
È vero che anche nelle più gravi patologie psicotiche persistono delle aree mentali funzionanti; ma l’autentica capacità di scegliere dipende da un atteggiamento globale integrato – ideativo, cognitivo e affettivo – dell’intera personalità.
Tutto ciò richiama necessariamente in causa le annose diatribe connesse alla tormentata riforma psichiatrica, a partire dalla controversa nozione del confine tra normalità-sanità e malattia mentale, delle cause sociofamiliari oppure intrapsichiche, culturali o biologiche del disagio, fino alle inesauste polemiche – più ideologiche che scientifiche – sul ricovero e contenimento del paziente psichiatrico e sull’obbligatorietà degli interventi di assistenza e cura.
Sarebbe impossibile affrontare un problema così serio in queste poche righe, ma è comunque certo che nelle più gravi affezioni mentali – caratterizzate dal rifiuto del soggetto di ammettere il proprio stato di malattia – il paziente (non solo il paziente psichiatrico, ma particolarmente il paziente psichiatrico!) chiede, almeno in parte e momentaneamente, di delegare la responsabilità delle decisioni che lo riguardano.
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Al bisogno di delegare e di dipendere del paziente dovrebbe corrispondere la capacità del medico e dell’istituzione di farsi carico “in scienza e coscienza” di tali compiti, in ordine al progetto di recuperare al più presto, e al meglio, salute e autonomia. Ogni atto medico dovrebbe trovare la sua collocazione in un delicato equilibrio tra il rispetto dell’autodeterminazione dell’individuo e il suo bisogno/diritto di potersi temporaneamente affidare, di non essere abbandonato a se stesso in un momento di difficoltà.
Il rispetto dell’autodeterminazione del paziente può invece essere il modo ambiguo in cui si elude la responsabilità di fare delle scelte e di fatto si pratica l’abbandono.
Infine, l’ombra della malafede non risparmia neppure l’ambito della spiritualità e delle fedi religiose, che così spesso vengono chiamate in causa nelle discussioni di bioetica, per lo più in contrapposizione al pensiero laico, come se la spiritualità fosse un’esclusiva della trascendenza.
Più volte, ad esempio, ho sentito proclamare del risorgere del “bisogno di religiosità” nella cultura occidentale moderna. Ma la mia impressione è che semmai in questa nostra epoca ci sia poco spazio per lo spirituale e molto per l’irrazionale; e non vorremo certo addebitare all’anelito trascendente tutte le forme spicciole di pensiero magico – dall’astrologia all’occultismo, alle diete balorde, alle terapie alternative del corpo e della mente – che caratterizzano le fastidiose mode cosiddette new age.
Anche nei casi in cui davvero il malessere e il senso di vuoto esistenziale del singolo si rivolga alle chiese ufficiali e al loro credo codificato, ho l’impressione che assai spesso il motore profondo non sia tanto la sete di sublime, ma più concrete (seppure umanamente comprensibilissime) contingenze come la paura della morte. Penso, ad esempio, alle clamorose conversioni in extremis di personaggi pubblici di cui ci informa ogni tanto la cronaca.
Non mi sembra, in linea generale, di scorgere nelle attuali manifestazioni di massa una tendenza profonda verso il sacro, quale risultato di un processo interiore; vi scorgo piuttosto delle intermittenze dell’anima, dei bisogni episodici e terminali. Come se la religiosità avesse subito una lenta, ma significativa mutazione: da “oppio dei popoli” a banale pillola antidepressiva di massa.
Qual è la divinità alla quale ci si rivolge? Più che a Cristo o a Jahweh mi fa pensare agli “dei momentanei” degli antichi popoli latini, che con efficace pragmatismo invocavano ad hoc il piccolo dio del viaggio di andata o quello del ritorno, o magari quello preposto al varcare della soglia; deputato a svolgere una funzione giusto nel momento in cui serviva, e che poteva poi essere accantonato con disinvoltura fino alla prossima volta.
In sintesi, anche nel campo della bioetica, così strettamente intrecciato con le vicissitudini degli affetti e delle passioni, vediamo dominare la generale tendenza regressiva al funzionamento ambiguo, che talvolta si organizza in punte estreme di malafede.
In tale contesto, mi appare particolarmente evidente come i meccanismi psicologici autoprotettivi operino di fatto a danno degli altri.
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Nella psicoanalisi stessa: da Edipo a Narciso.
Finora ho usato gli strumenti psicoanalitici per tentare di esplorare i meccanismi dell’ambiguità e della malafede nei pazienti, nei singoli individui e nelle società. Ma è giusto rispettare l’antica lezione freudiana che prescrive di rivolgere innanzi tutto su di noi, sugli psicoterapeuti stessi, l’indagine psicoanalitica del profondo.
Negli ultimi decenni le patologie psichiche con le quali ci dobbiamo confrontare sono molto cambiate2. Nella norma e nella patologia non incontriamo più solide strutture, ma organizzazioni mobili e fluide, dalle quali derivano moduli di comportamento plastici e reversibili. Sono quasi uscite di scena le nevrosi classiche, sostituite dai disturbi narcisistici che derivano dalla compromissione dei livelli primitivi cosiddetti pre-edipici; mentre le specifiche sindromi vengono sostituite da sintomatologie aspecifiche e variabili.
Certo tutto ciò può derivare dalla nostra maggiore attenzione ai livelli precoci dello sviluppo; ma riflette anche una effettiva mutazione epocale, nella quale siamo immersi sia noi che i nostri pazienti, connessa all’allentarsi del principio di autorità e del crocevia edipico, di cui tanto abbiamo parlato; è comunque chiaro quanto tutto ciò offra un terreno malauguratamente favorevole ai fenomeni spiccioli e fluttuanti della episodica regressione all’ambiguità e delle microscissioni della malafede.
Come abbiamo visto, le varie organizzazioni “falsificanti” della personalità sono da intendere come “meccanismi difensivi” che tentano di eludere l’angoscia nelle sue varie forme. Ecco allora che possiamo ricorrere all’“isolamento” (mettere in un angolino della mente l’idea sgradevole e non pensarci per un po’), alla “rimozione” (censurare e ricacciare nell’inconscio il pensiero traumatico), alla “negazione” (questo a me non può capitare), alla “proiezione” (sono gli altri a essere colpevoli od ostili o sciocchi, non io)… Il catalogo potrebbe continuare a lungo, ma ciò che conta è considerare che tali operazioni psichiche sempre inficiano – in variabile misura – le capacità affettive e cognitive.
Inoltre, come stiamo dicendo in queste pagine, accanto ai meccanismi di difesa “classici” se ne configurano altri più “nuovi” – o per lo meno che abbiamo individuato più di recente – relativi alle epoche precoci dello psichismo, quali – a seconda del modello che ciascuno utilizza – la regressione al nucleo ambiguo, la malafede, l’imitazione, la non integrazione… Non è comunque possibile coniugare rigidamente determinati meccanismi a determinate patologie; ed è anche assai difficile tracciare un confine netto tra meccanismi normali e patologici.
Indubbiamente, far fronte a tante variegate e mutevoli forme morbose è difficile; ma il problema maggiore è che purtroppo neanche gli psicoanalisti sono al riparo dal rischio della malafede, sia come singoli terapeuti, sia come membri di istituzioni. Paradossalmente, per chi conosce i “trucchi” dell’inconscio è più forte la tentazione di interpretare a proprio vantaggio la realtà e i conflitti con gli altri.
Fin dall’epoca eroica delle origini, la comunità psicoanalitica è stata segnata dal disaccordo teorico, dalla competizione tra leader, da semplice litigiosità; tutti fattori che hanno condotto a cruente inimicizie personali e a scissioni istituzionali. La conoscenza dell’animo umano purtroppo non è riuscita affatto a sanare la conflittualità,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. La malafede come nevrosi
  5. Passioni e affetti
  6. La capacità di scegliere