Che la festa cominci
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Che la festa cominci

  1. 336 pagine
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Che la festa cominci

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Nel cuore di Roma, il palazzinaro Sasà Chiatti organizza nella sua nuova residenza di Villa Ada una festa che dovrà essere ricordata come il piú grande evento mondano nella storia della nostra Repubblica.
Tra cuochi bulgari, battitori neri reclutati alla stazione Termini, chirurghi estetici, attricette, calciatori, tigri, elefanti, il grande evento vedrà il noto scrittore Fabrizio Ciba e le Belve di Abaddon, una sgangherata setta satanica di Oriolo Romano, inghiottiti in un'avventura dove eroi e comparse daranno vita a una grandiosa e scatenata commedia umana.
L'irresistibile comicità di Ammaniti sa cogliere i vizi e le poche virtú della nostra epoca. E nel sorriso che non ci abbandona nel corso di tutta la lettura annegano ideali e sentimenti.
E soli, alla fine, galleggiano i resti di una civiltà fatua e sfiancata. Incapace di prendere sul serio anche la propria rovina. «Gli adepti abbassarono il capo. Il leader sollevò gli occhi al soffitto e allargò le braccia.
- Chi è il vostro padre carismatico?
- Tu! - dissero in coro le Belve.
- Chi ha scritto le Tavole del Male?
- Tu!
- Chi vi ha insegnato la Liturgia delle Tenebre?
- Tu!
- Chi ha ordinato le pappardelle alla lepre? - fece il cameriere con una sfilza di piatti fumanti sulle braccia.
- Io! - Saverio allungò una mano.
- Non toccare che scottano».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858400296
Parte seconda

La festa

Sono un grande falso mentre fingo l’allegria.
TIZIANO FERRO, Alla mia età.
Mappa di Villa Ada
Durante i pranzi all’aperto, tra i romani si discute spesso su quale sia il piú bel parco della città. Alla fine, inevitabilmente, si contendono il podio Villa Doria Pamphili, Villa Borghese e Villa Ada.
Villa Doria Pamphili, dietro il quartiere di Monteverde, è la piú estesa e scenografica; Villa Borghese, proprio al centro della città, è la piú famosa (chi non conosce il piazzale del Pincio da cui si gode una vista indimenticabile del centro di Roma e di piazza del Popolo?); Villa Ada, di tutte e tre, è la piú antica e selvaggia.
A modesto parere dell’autore di questa storia, Villa Ada batte tutte le altre. È molto grande, circa centosettanta ettari di boschi, prati e roveti compressi tra via Salaria, il viadotto dell’Olimpica e il centro sportivo dell’Acqua Acetosa. Al suo interno vivono tuttora scoiattoli, talpe, ricci, conigli selvatici, istrici, faine e una ricca comunità di uccelli. Deve essere il totale abbandono e l’incuria in cui versa il parco, ma la sensazione appena ci si addentra nei suoi boschi è di essere in una foresta. La città e i suoi rumori scompaiono e ci si ritrova tra pini centenari, boschetti di allori, stradine fangose che si snodano tra cespugli di more impenetrabili e tronchi abbattuti, campi di ortica e grandi prati ricoperti di erbacce. Tra le frasche si intravedono vecchie costruzioni abbandonate ricoperte di edera, fontane smantellate dai fichi selvatici e bunker che chissà a cosa servivano. Se non la si conosce bene è meglio non avventurarsi da solo nel bosco, c’è il rischio di smarrirsi per giorni. Il sottosuolo della Villa è attraversato dalle catacombe di Priscilla dove i primi cristiani seppellivano i loro morti.
Nella parte nord, oltre un grande lago artificiale, sorge una collina alberata chiamata Forte Antenne perché alla fine del diciannovesimo secolo l’esercito italiano vi costruí delle fortificazioni per difendere Roma dagli attacchi francesi. Quando Roma ancora non esisteva, in quel luogo già sorgeva l’antica città di Antemnae. Il nome, secondo lo storico romano Varrone, deriva da ante amnem (davanti al fiume), perché lí l’Aniene confluisce nel Tevere. Da quella posizione la città dominava il traffico fluviale verso il guado dell’isola Tiberina. Romolo nel 753 a.C. la espugnò e i suoi abitanti furono accolti come cittadini romani e nelle loro terre furono mandati coloni. Dal terzo secolo a.C. la città decadde e fu abbandonata. Le alture di Antemnae, nei secoli della decadenza romana, ospitarono i Goti di Alarico che, venendo dal Nord, si preparavano a conquistare Roma. Per secoli e secoli non abbiamo piú notizie e dobbiamo aspettare il diciassettesimo secolo per averne di nuovo. Roma era ancora lontana e lí era aperta campagna. La zona era diventata la tenuta agricola del Collegio Irlandese. Poi nel 1783 la terra fu acquistata dal principe Pallavicini, che vi costruí una villa. La proprietà passò alla metà dell’Ottocento ai principi Potenziani e fu venduta nel 1872 alla famiglia reale, che ne fece la sua residenza romana. Vittorio Emanuele II, che amava l’arte venatoria, acquistò altri terreni confinanti per farne la sua tenuta di caccia.
Alla sua morte gli successe Umberto I, che preferí spostarsi con tutta la corte al Quirinale. La Villa fu comprata per cinquecentotrentunomila lire dal conte svizzero Tellfner, amministratore dei beni della famiglia reale, che le diede il nome della moglie Ada, di cui pare fosse perdutamente innamorato.
Nel 1900 re Umberto I fu assassinato da un anarchico. Il successore Vittorio Emanuele III decise di tornare a vivere nella Villa del nonno, che rimase residenza ufficiale dei regnanti fino al 1946, anno della caduta della monarchia, quando il re e i suoi congiunti furono costretti all’esilio.
La Villa passò allo Stato italiano, con l’eccezione della Villa Reale, che i Savoia generosamente diedero in concessione al governo egiziano, in segno di riconoscenza per l’ospitalità ricevuta dopo l’esilio del 1946. L’edificio divenne l’ambasciata d’Egitto.
Da quel momento in poi Villa Ada diventò parte del demanio pubblico e fu trasformata in parco comunale. Furono tracciati nuovi viali, costruiti percorsi attrezzati per gli atleti, scavati laghi artificiali e piantate molte specie arboree non autoctone.
Nel 2004, per rimpinguare le casse comunali esaurite, la giunta capitolina decise di mettere all’asta l’intera area di Villa Ada per la cifra astronomica di trecento milioni di euro.
L’asta ebbe luogo nel Campidoglio il 24 dicembre, fra le proteste dei romani inferociti per quello che passò negli annali capitolini come «il grande scippo». Vi parteciparono personaggi del calibro di Bono degli U2, l’imprenditore russo Roman Arked′evič Abramovič, Paul McCartney, l’Air France, e un cartello di banche svizzere.
Inaspettatamente riuscí ad accaparrarsela per la cifra di quattrocentocinquanta milioni Salvatore Chiatti detto Sasà, un imprenditore campano dagli oscuri natali che nel corso degli anni Novanta era riuscito ad accumulare un capitale immenso in proprietà immobiliari. Era finito in galera per evasione fiscale e abigeato ma grazie all’indulto era tornato in libertà.
Qualche giorno dopo, in un’intervista al quotidiano «Il Messaggero», l’imprenditore motivò cosí l’acquisto: «Mi ci portava sempre mamma da piccolo. Sono stato spinto dalla nostalgia». Cosa falsa, dal momento che Chiatti aveva vissuto la sua infanzia a Mondragone, lavorando nella bottega del padre carrozziere. Il giornalista poi gli aveva chiesto: «E cosa conta di farne?»
«La mia residenza romana».
Per un paio di anni la Villa rimase chiusa. Gli abitanti della zona formarono un comitato per la restituzione del parco ai romani. Si diceva che Chiatti in realtà l’avesse comprata per speculare e cercasse dei soci stranieri per trasformarla in area residenziale con campi da golf, club di equitazione e una pista di go-kart.
Nel 2007 cominciarono le opere di ristrutturazione. I muri di cinta vennero alzati a dieci metri e sulla sommità furono poggiate matasse di filo spinato. Ogni cinquanta metri lungo il perimetro murario apparvero delle torrette da cui pendevano grappoli di telecamere.
La marchesa Clotilde, vedova del generale Farinelli, dal suo attico di via Salaria riusciva a intravedere tra le fronde degli alberi uno spicchio del parco. A un giornalista del settimanale «Panorama» l’anziana signora rivelò che vedeva un viavai ininterrotto di operai. Piantavano alberi, disboscavano. E aveva visto anche due giraffe e un rinoceronte. Il giornalista diede poco credito alla fonte dal momento che la vedova Farinelli aveva settantotto anni e un principio di Alzheimer.
Ma la marchesa aveva visto bene.
Sasà Chiatti aveva costruito acquitrini, fiumi, sabbie mobili, e si era impegnato nella ripopolazione del parco. Aveva comprato dagli zoo in abbandono e dai circhi dismessi dell’Est orsi, foche, tigri, leoni, giraffe, volpi, pappagalli, gru, aironi, macachi, bertucce, ippopotami, piranha, e li aveva sparpagliati per i centosettanta ettari di Villa Ada. Erano tutte bestie nate e cresciute in cattività e quindi mansuete e dipendenti dal cibo fornito dai guardiani. Vivevano in un paradiso naturale, dove le regole primordiali preda-predatore non esistevano piú. Col passare dei mesi la fauna eterogenea aveva trovato una sorta di equilibrio. Ogni specie si era ricavata la sua nicchia ecologica. Gli ippopotami si piazzarono nel laghetto accanto al vecchio chiosco del bar e da lí non si mossero piú, i coccodrilli colonizzarono insieme ai piranha il secondo specchio artificiale a poca distanza dalle altalene e gli scivoli. Leoni e tigri formarono una colonia sul monte Antenne. I pipistrelli australiani, bestioni di sei chili l’uno, trovarono rifugio nelle catacombe. Accanto all’ex ambasciata, in una grande pianura erbosa, pascolavano gnu, zebre, cammelli e branchi di bufali che Sasà si era fatto portare direttamente da Mondragone.
Con la fauna aviaria le cose furono un po’ piú complesse. Stefano Coppé, steso accanto al suo Burgman 250 dopo esser stato tamponato da una Opel Meriva sullo svincolo fra la Salaria e l’Olimpica, vide roteare sopra di lui uno stormo di avvoltoi e capí che le cose si stavano mettendo male. Una coppia di condor fece il nido sul balcone della famiglia Rossetti, in via Taro, e straziò Anselmo, il soriano di casa, che aveva tentato una difesa disperata del terrazzino. Gli atleti dell’Acqua Acetosa videro nibbi e barbagianni appollaiati sui pali delle porte di rugby. Il pescivendolo di via Locchi fu depredato di una spigola di tre chili da un’aquila pescatrice. Pappagalli e tucani si spiaccicavano sui parabrezza delle macchine che correvano sulla tangenziale.
L’idea di Sasà Chiatti era semplice e grandiosa allo stesso tempo: organizzare per l’inaugurazione della sua Villa un party cosí esclusivo e sfarzoso che sarebbe stato ricordato nelle cronache dei secoli a venire come il piú grande evento mondano nella storia della nostra Repubblica. E lui sarebbe passato dalla fama di losco immobiliarista a quella di radioso magnate miliardario ed eccentrico. Politici, imprenditori, gente dello spettacolo e dello sport sarebbero venuti a corte a omaggiarlo, proprio come il Re Sole a Versailles. Ma per fare ciò non bastava una festa con musica, balli, buffet e cotillon. Ci voleva qualcosa di assolutamente speciale e inimitabile che avrebbe lasciato tutti a bocca aperta.
L’idea gli venne una notte vedendo La mia Africa, con Robert Redford e Meryl Streep.
Un safari! Doveva organizzare per gli invitati un safari a sorpresa. Nella sua megalomania decise che uno non era sufficiente. Ce ne volevano tre. La classica caccia inglese alla volpe, la caccia africana al leone coi battitori di colore e quella indiana alla tigre, sugli elefanti.
Ma perché tutto funzionasse a dovere era necessario che all’esterno non trapelasse nulla dei preparativi della festa. A tutte le guardie, agli operai e al personale fece firmare un contratto di segretezza.
Convocò il famoso cacciatore bianco Corman Sullivan, che si fregiava di avere accompagnato lo scrittore Ernest Hemingway alla caccia grossa nel 1934. Sullivan aveva un’età indefinita che andava dagli ottanta ai cento anni, era affetto da cirrosi epatica cronica e da venti anni viveva in una casa di cura delle suore missionarie a Manzini Town nello Swaziland, il piccolo stato confinante col Sudafrica. Arrivato all...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Che la festa cominci
  4. Parte prima. Genesi
  5. Parte seconda. La festa
  6. Parte terza. Katakumba
  7. Parte quarta. Quattro anni dopo
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright