Indignazione
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Indignazione

  1. 152 pagine
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Indignazione racconta dell'educazione di un giovane uomo alle terrificanti opportunità e ai bizzarri impedimenti della vita nell'America del 1951. È una storia di inesperienza, stoltezza, resistenza intellettuale, scoperta sessuale, coraggio ed errore. È una storia narrata con tutta l'energia inventiva e l'arguzia di cui Roth è maestro, e un ulteriore poderoso tassello nella sua analisi dell'impatto della società americana sulla vita di individui vulnerabili.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858400579

Sotto morfina

Circa due mesi e mezzo dopo che il 25 giugno 1950 le ben addestrate divisioni della Corea del Nord, armate dai comunisti sovietici e cinesi, avevano attraversato il 38° parallelo invadendo la Corea del Sud, e le sciagure della Guerra di Corea avevano avuto inizio, io avevo cominciato a frequentare il Robert Treat, un piccolo college nel centro di Newark che prendeva nome da colui che nel xvii secolo aveva fondato la città. Ero il primo esponente della mia famiglia ad ambire a un’istruzione universitaria. Nessuno dei miei cugini era andato oltre le superiori, e né mio padre né i suoi tre fratelli avevano finito le elementari. – È da quando avevo dieci anni che lavoro per guadagnarmi da vivere, – mi diceva sempre mio padre. Era un macellaio di quartiere, e io per tutto il periodo delle superiori avevo fatto le consegne in bicicletta per lui, eccetto durante la stagione del baseball e nei pomeriggi in cui dovevo partecipare con la mia squadra agli incontri del campionato interscolastico di dibattito. Quasi dal giorno stesso in cui lasciai il negozio – dove avevo lavorato per lui sessanta ore alla settimana da quando mi ero diplomato in gennaio fino all’inizio del college a settembre –, quasi dal giorno stesso in cui andai alla mia prima lezione al Robert Treat, mio padre cominciò a temere per la mia vita. Forse la sua paura aveva a che fare con la guerra, in cui le forze armate statunitensi, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, erano immediatamente entrate per sostenere lo sforzo bellico del male addestrato e poco attrezzato esercito sudcoreano; forse aveva a che fare con le pesanti perdite che le nostre truppe stavano subendo contro la potenza di fuoco comunista e con la paura che, se il conflitto si fosse trascinato altrettanto a lungo della Seconda guerra mondiale, io venissi arruolato nell’esercito per combattere e morire sul campo di battaglia coreano come i miei cugini Abe e Dave erano morti durante la Seconda guerra mondiale. O forse la paura aveva a che fare con le sue preoccupazioni finanziarie: l’anno precedente, il primo supermercato del quartiere aveva aperto i battenti ad appena qualche isolato dalla macelleria kosher della nostra famiglia, e le vendite avevano cominciato progressivamente a calare, in parte perché la sezione carne e pollame del supermercato applicava prezzi inferiori a quelli di mio padre, e in parte perché nel dopoguerra sempre meno famiglie si prendevano il disturbo di mantenere uno stile di vita kosher e di comprare carne e pollo kosher da un negozio con certificazione rabbinica il cui proprietario fosse membro della Federazione dei Macellai Kosher del New Jersey. O forse la sua paura per me nasceva dalla paura per se stesso, poiché a cinquant’anni, dopo aver goduto per tutta la vita di ottima salute, quell’uomo piccolo e robusto cominciava a essere tormentato da una tosse secca e persistente che, per quanto inquietasse mia madre, non gli impediva di tenere per l’intera giornata una sigaretta accesa all’angolo della bocca. Qualunque fosse stata la causa, o la concomitanza di cause, dell’improvvisa trasformazione del suo precedentemente benevolo comportamento paterno, ora mio padre manifestava la sua paura perseguitandomi giorno e notte con le sue domande ossessive. Dove sei stato? Perché non eri a casa? Come faccio a sapere dove sei quando esci? Sei un ragazzo con un magnifico futuro davanti... come faccio a sapere che non vai in posti dove potresti farti ammazzare?
Erano domande grottesche, dal momento che, negli anni delle superiori, ero stato uno studente giudizioso, responsabile, diligente, che prendeva sempre il massimo dei voti e usciva solo con le ragazze piú ammodo, raffinato argomentatore nelle sfide di dibattito, jolly interno per la squadra di baseball della scuola, soddisfatto di mantenermi nell’ambito delle norme adolescenziali del nostro quartiere e della mia scuola. Erano anche domande esasperanti: era come se il padre a cui ero stato cosí vicino nel corso di tutti quegli anni, crescendo praticamente al suo fianco in negozio, non avesse piú la minima idea di chi o cosa fosse suo figlio. Al negozio, i clienti deliziavano lui e mia madre dicendo loro quant’era stato bello veder crescere il piccolino a cui una volta portavano i biscotti – quando il padre per farlo giocare gli lasciava tagliare i pezzi di grasso come un «macellaio grande», sebbene con un coltello dalla lama smussata –, vederlo trasformarsi sotto i loro occhi in un giovanotto distinto e forbito che passava il manzo nel tritacarne e spargeva la segatura per spazzare il pavimento e strappava via le piume rimaste al collo dei polli morti appesi ai ganci quando il padre lo chiamava e gli diceva: – Fa’ il piacere, Markie, pulisci due polli per la signora Tal-dei-tali –. Durante i sette mesi prima del college, fece molto piú che darmi la carne da tritare e i polli da pulire. Mi insegnò come ricavare le braciole da un carré d’agnello, come separare ogni costola e, quand’ero arrivato al fondo, prendere la mannaia e affettare quel che restava. E mi insegnò sempre con grande disinvoltura. – Basta che tieni l’altra mano lontana dalla mannaia e andrà tutto bene, – diceva. Mi insegnò a essere paziente con i clienti piú pignoli, in particolare quelli che volevano esaminare la carne da ogni angolazione prima di comprarla, quelli per cui dovevo reggere il pollo in modo tale che loro potessero letteralmente guardargli su per il buco del culo per assicurarsi che fosse pulito. – È incredibile cosa ti fanno passare certe donne prima di convincersi a comprare il pollo, – mi diceva. E poi ne faceva l’imitazione: – «Me lo giri. No, dall’altra parte. Mi faccia vedere il didietro» –. Il mio compito non era solo spennare i polli, ma anche sviscerarli. Incidergli il culo in modo da allargarlo un po’, infilarci la mano dentro, agguantare le viscere e tirarle fuori. Odiavo quell’operazione. Era nauseante e disgustosa, ma andava fatta. Ecco cosa imparavo da mio padre e cosa mi piaceva imparare da lui: si fa quel che va fatto.
Il nostro negozio si affacciava su Lyons Avenue, a Newark, a un isolato dal Beth Israel Hospital, e in vetrina avevamo uno scomparto per mettere il ghiaccio, con un ampio ripiano leggermente inclinato in avanti. Un camion del ghiaccio veniva a venderci il ghiaccio tritato, e noi lo mettevamo lí dentro e poi ci mettevamo sopra la carne in modo che la gente la vedesse mentre passava. Nei sette mesi prima del college, quando lavoravo a tempo pieno in macelleria, spettava a me preparare la vetrina per lui. – L’artista è Marcus, – diceva mio padre quando la gente faceva qualche commento. Ci mettevo di tutto. Ci mettevo bistecche, ci mettevo polli, ci mettevo stinchi d’agnello... prendevo tutti i prodotti che avevamo e li disponevo in vetrina in modo «artistico». Mi facevo dare delle felci dal fioraio davanti all’ospedale e le usavo per decorare la carne. E non mi limitavo a fare le vetrine e a tagliare, affettare e vendere la carne; in quei sette mesi in cui sostituivo mia madre al suo fianco, andavo con mio padre al mercato all’ingrosso la mattina presto e imparavo anche a comprarla, la carne. Lui ci andava una volta alla settimana, alle cinque, cinque e mezzo del mattino, perché andando lui al mercato, scegliendo lui la carne, portandola lui in negozio e mettendola lui nella cella frigorifera, risparmiava sul sovrapprezzo che avrebbe dovuto pagare per farsela consegnare. Compravamo un intero quarto di manzo, compravamo un quarto anteriore d’agnello per ricavarne le braciole, compravamo un vitello, compravamo fegati di manzo, compravamo polli e fegatini di pollo e, dato che avevamo un paio di clienti che ne volevano, compravamo cervella. Il negozio apriva alle sette del mattino e si lavorava fino alle sette, otto di sera. Avevo diciassette anni, ero giovane, volenteroso e pieno di energia, ma alle cinque ero già stravolto. Invece lui eccolo lí, ancora in forze, che si caricava in spalla quarti anteriori da cento libbre e andava ad appenderli ai ganci nella cella frigorifera. Eccolo lí che tagliava e affettava con i coltelli, che menava fendenti con la mannaia e compilava ordini alle sette di sera, quando io ero sull’orlo del collasso. Però toccava a me pulire i ceppi come ultima cosa prima di andare a casa, buttarci sopra la segatura e grattarli con la spazzola di ferro, e cosí, chiamando a raccolta la poca energia che mi restava, grattavo via il sangue per mantenere il posto kosher.
Ripenso a quei sette mesi come a un periodo meraviglioso – eccetto quando veniva il momento di sviscerare i polli. E anche quella a modo suo era una cosa meravigliosa, perché era una cosa che andava fatta e andava fatta bene, una cosa che non mi piaceva fare. Perciò anche lí c’era una lezione da imparare. E io adoravo le lezioni – adoravo metterle in pratica! E adoravo mio padre, e lui me, piú di quanto fosse mai successo prima. In macelleria preparavo io il pranzo, per lui e per me. Non solo mangiavamo in negozio, ma cucinavamo in negozio, su una piccola griglia nel retro, accanto a dove tagliavamo e preparavamo la carne. Arrostivo fegatini di pollo, arrostivo piccole bistecche, e noi due non eravamo mai stati cosí felici insieme. Eppure poco tempo dopo ebbe inizio la distruttiva lotta fra di noi: Dove sei stato? Perché non eri a casa? Come faccio a sapere dove sei quando esci? Sei un ragazzo con un magnifico futuro davanti... come faccio a sapere che non vai in posti dove potresti farti ammazzare?
Quell’autunno cominciai il primo anno al Robert Treat, e ogni volta che mio padre chiudeva a doppia mandata la porta anteriore e quella posteriore e, se tornavo a casa venti minuti dopo quel che lui si aspettava, non potevo entrare con le mie chiavi e dovevo bussare a una delle due porte, pensavo che fosse diventato pazzo.
Ed era diventato pazzo: pazzo per la preoccupazione che il suo amato figlio unico fosse altrettanto impreparato ai pericoli della vita quanto chiunque altro alle soglie della maggiore età, pazzo per la spaventosa scoperta che un bambino cresce, diventa alto, mette in ombra i genitori e non puoi piú trattenerlo, devi consegnarlo al mondo.
Me ne andai dal Robert Treat dopo un solo anno. Me ne andai perché tutt’a un tratto mio padre non mi credeva nemmeno piú capace di attraversare la strada da solo. Me ne andai perché la sorveglianza di mio padre era diventata insopportabile. La prospettiva della mia indipendenza aveva trasfigurato quell’uomo altrimenti equilibrato, che di rado perdeva la pazienza con qualcuno, ma che adesso pareva determinato a ricorrere alla violenza nel caso avessi l’ardire di deluderlo, mentre io – nonostante la mia rinomata fredda logica mi avesse reso il pilastro della squadra di dibattito delle superiori – ero ridotto a ululare di frustrazione di fronte alla sua ignoranza e irrazionalità. Dovevo allontanarmi da mio padre prima di ucciderlo – questo dissi in un attacco di collera alla mia angosciata madre, che adesso si ritrovava al pari di me sorprendentemente priva di influenza su di lui.
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Una sera rientrai a casa con l’autobus intorno alle nove e mezzo. Ero stato alla sede centrale della Newark Public Library, dato che al Robert Treat non c’era la biblioteca. Ero uscito di casa alle otto e mezzo del mattino e da allora ero stato a lezione o a studiare, e la prima cosa che disse mia madre fu: – Tuo padre ti sta cercando. – Perché? Dove mi sta cercando? – È andato al biliardo. – Non ci so neanche giocare, a biliardo. Cosa gli salta in mente? Stavo studiando, per l’amor di Dio. Stavo preparando un compito scritto. Stavo leggendo. Cos’altro crede che faccia notte e giorno? – Ha parlato di Eddie con Mr Pearlgreen, ed era in ansia per te –. Eddie Pearlgreen, il figlio del nostro idraulico, si era diplomato insieme a me e poi era andato al college di Panzer, a East Orange, per studiare da insegnante di educazione fisica. Giocavo a palla con lui da quando ero piccolo. – Io non sono Eddie Pearlgreen, – dissi, – io sono io. – Ma lo sai cos’ha fatto? Senza dirlo a nessuno, è andato fino in Pennsylvania, a Scranton, con l’auto del padre, per giocare a biliardo in una particolare sala che c’è da quelle parti. – Ma Eddie è un asso del biliardo, e bara. Non mi stupisce che sia andato fino a Scranton. Eddie non riesce nemmeno a lavarsi i denti la mattina senza pensare al biliardo. Non mi stupirei se andasse fin sulla luna per giocare a biliardo. Eddie becca qualche tizio che non conosce, all’inizio gioca facendo finta di essere al suo livello, poi comincia a scommettere venticinque dollari a partita finché non lo lascia in mutande. – Finirà a rubare le auto, ha detto Mr Pearlgreen. – Oh, mamma, è ridicolo. Qualunque cosa faccia Eddie, non mi riguarda. Secondo te, io finirò a rubare auto? – Certo che no, tesoro mio. – A me non piace questo gioco che piace a Eddie, non mi piace l’atmosfera che piace a lui. Non mi interessano i bassifondi, mamma. Mi interessano le cose che contano. Non ci ficcherei neppure il naso, io, in una sala da biliardo. Oh, senti, non intendo aggiungere una parola su quel che mi piace e non mi piace. Non intendo dare altre spiegazioni. Non intendo fare un inventario delle mie virtú o citare il mio dannato senso del dovere. Non intendo piú essere messo di fronte a queste ridicole, assurde stronzate! – E a quel punto, come se seguisse le indicazioni di un regista, mio padre entrò in casa dalla porta di servizio, ancora carico di agitazione, puzzolente di fumo di sigaretta, e adesso arrabbiato non perché mi aveva trovato in una sala da biliardo, ma perché non mi ci aveva trovato. Non gli sarebbe mai venuto in mente di scendere in centro e cercarmi alla biblioteca pubblica, e questo perché in biblioteca nessuno ti spappola la testa con una stecca da biliardo accusandoti di averlo truffato, nessuno ti accoltella perché sei seduto a leggere il capitolo assegnato di Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di Gibbon come avevo fatto io quella sera dalle sei in avanti.
– Dunque, eccoti qui, – annunciò. – Già. Strano, no? A casa. Dormo qui. Vivo qui. Sono tuo figlio, ricordi? – Davvero? Ti ho cercato dappertutto. – Perché? Perché? Qualcuno, per favore, mi spieghi perché «dappertutto». – Perché se ti succedesse qualcosa... se mai dovesse succederti qualcosa... Ma non succederà niente. Papà, io non sono quel terribile scapestrato giocatore di biliardo che risponde al nome di Eddie Pearlgreen! Non succederà niente. – Lo so che non sei come lui, per l’amor di Dio. Lo so benissimo quanto sono fortunato con il mio ragazzo. – Allora cos’è tutta questa storia,papà? – È la vita, dove i minimi passi falsi possono avere conseguenze tragiche. – Oh, Cristo santo, parli come un biscotto della fortuna. – Ah sí? Ah sí? Non come un padre premuroso ma come un biscotto della fortuna? È questo l’effetto che faccio quando parlo a mio figlio del futuro che ha davanti, un futuro che una qualunque minima cosa potrebbe distruggere? – Oh, al diavolo! – gridai, e corsi fuori casa, in cerca di un’auto da rubare per andare a Scranton a giocare a biliardo e magari beccarmi anche lo scolo, già che c’ero.
In seguito appresi da mia madre com’erano andate le cose quel giorno, come quella mattina fosse arrivato Mr Pearlgreen per aggiustare il gabinetto nel retro del negozio, e come mio padre avesse rimuginato sulla loro conversazione da quel momento fino all’ora della chiusura. Doveva aver fumato tre pacchetti di sigarette, mi raccontò, tanto era sconvolto. – Non sai quanto è fiero di te, – disse mia madre. – Appena uno entra in negozio, lui attacca: «Mio figlio, sempre il massimo dei voti. Non ci delude mai. Neanche ha bisogno di guardare i libri... gli viene automatico». Tesoro, quando non sei presente, non fa altro che lodarti. Devi credermi. Si vanta per tutto il tempo di te. – E quando invece sono presente, non fa altro che assillarmi con queste assurde nuove paure, e io sono stufo marcio, mamma. – Ma io l’ho sentito, Markie, quello che ha detto a Mr Pearlgreen: «Grazie a Dio, con il mio ragazzo non ho da preoccuparmi di queste cose». Ero lí con lui in negozio quando è arrivato Mr Pearlgreen a controllare la perdita. È esattamente questo che ha detto quando Mr Pearlgreen gli ha raccontato di Eddie. Sono state queste le sue parole: «Con il mio ragazzo non ho da preoccuparmi di queste cose». Ma sai cosa gli ha risposto Mr Pearlgreen? È stato questo a farlo partire per la tangente. Gli fa: «Ascolti, Messner. Lei mi piace, Messner, è stato buono con noi, ha badato che a mia moglie durante la guerra non mancasse la carne. Ora, dia retta a me che lo so per esperienza. Anche Eddie è uno studente universitario, ma questo non significa che abbia l’accortezza di star lontano dalle sale da biliardo. Com’è che l’abbiamo perso? Non è un cattivo ragazzo. E che dire del fratello minore... che razza di esempio è per il fratello minore? Cosa abbiamo fatto di sbagliato per trovarcelo di punto in bianco in una sala da biliardo a Scranton, a tre ore da casa! Con la mia auto! Come se li è procurati i soldi per la benzina? Giocando a biliardo! Biliardo! Biliardo! Ascolti me, Messner: il mondo è lí pronto a prendersi il suo ragazzo, è già lí che si lecca i baffi». – E mio padre gli crede, – dissi. – Mio padre crede non a quel che vede con i suoi occhi da una vita intera, ma a quel che gli racconta l’idraulico inginocchiato ad aggiustare il gabinetto nel retro del negozio! – Era troppo. Mio padre era impazzito a causa di una stupida frase detta da un idraulico! – Sí, mamma, – conclusi, precipitandomi furioso in camera mia, – le minime cose possono davvero avere conseguenze tragiche. Lui ne è la dimostrazione!
Dovevo allontanarmi ma non sapevo dove andare. Non sapevo distinguere un college dall’altro. Auburn. Wake Forest. Ball State. Southern Methodist University. Vanderbilt. Muhlenberg. Per me erano nomi di squadre di football. In autunno, ogni sabato attendevo con impazienza di ascoltare alla radio i risultati delle partite universitarie alla trasmissione sportiva serale di Bill Stern, ma non avevo idea di quali fossero le differenze accademiche fra i college in competizione. Louisiana State 35, Rice 20; Cornell 21, Lafayette 7; Northwestern 14, Illinois 13. Erano quelle le uniche differenze che conoscevo: il punteggio a fine partita. Un college era un college: frequentarne uno e uscirne laureati era l’unica cosa che contava per una famiglia poco di mondo come la mia. Avevo scelto un college in città perché era vicino a casa e ce lo potevamo permettere.
E a me andava bene. Agli albori della mia vita adulta, prima che all’improvviso tutto diventasse cosí difficile, avevo un grande talento per l’accontentarmi. Ce l’avevo fin da piccolo, e durante il primo anno al Robert Treat faceva ancora parte del mio repertorio. Ero entusiasta del college. Avevo cominciato in fretta a idolatrare i miei professori e a farmi degli amici, per lo piú ragazzi di famiglie di lavoratori come la mia, poco o nulla piú istruiti di me. Alcuni erano ebrei e venivano dalla mia stessa scuola superiore, ma la maggior parte non lo era, e sulle prime mi esaltava pranzare con loro per il fatto stesso che fossero irlandesi o italiani, categorie di newarkesi, nonché di esseri umani, per me del tutto nuove. Le lezioni poi mi esaltavano; per quanto fossero rudimentali, al mio cervello stava accadendo qualcosa di simile a quando avevo posato per la prima volta gli occhi sull’alfabeto. Inoltre – dopo che l’allenatore mi aveva spiegato come far scivolare le mani su per la mazza in modo da tirare la palla oltre il campo interno e farla cadere in quello esterno invece di sventagliare alla cieca con tutta la mia forza come facevo alle superiori – quella primavera mi ero guadagnato una posizione nell’organico della minuscola squadra delle matricole del college e giocavo seconda base accanto a un interbase di nome Angelo Spinelli.
Ma soprattutto imparavo, scoprivo qualcosa di nuovo a ogni ora della giornata, perciò mi andava bene anche il fatto che il Robert Treat fosse cosí piccolo e poco appariscente, piú simile a un circolo di quartiere che a un vero college. Era rintanato all’estremità settentrionale dell’affaccendato centro cittadino fatto di palazzine per uffici, centri commerciali e negozietti a conduzione famigliare, schiacciato fra il piccolo parco triangolare della Guerra d’indipendenza frequentato da barboni trasandati (che conoscevamo quasi tutti per nome) e il fangoso fiume Passaic. Il college era composto da due anonimi edifici: una vecchia fabbrica di birra abbandonata con i mattoni scuriti dal fumo lungo la sponda industriale del fiume, da cui erano state ricavate le classi e i laboratori di scienze dove frequentavo le lezioni di biologia e, a diversi isolati di distanza, dall’altro lato della principa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sotto morfina
  3. Non piú sotto
  4. Nota storica
  5. Indice