Il respiro del buio
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Il respiro del buio

  1. 312 pagine
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Il respiro del buio

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Il respiro del buio comincia con un viaggio, alcune centinaia di chilometri che sanciscono l'ingresso in una nuova vita. Il servizio militare in Cecenia è finito, è tempo di tornare, ma per Nicolai la parola ritorno ha perso significato. È un altro uomo quello che scende dal treno, e anche la città che lo accoglie ha ormai rinunciato alla propria identità per inchinarsi ai miti d'Occidente. Rinchiuso nel suo appartamento, circondato dalle armi importate illegalmente dalla Cecenia, Nicolai attraversa un «dopoguerra» privatissimo e feroce: all'indifferenza muta che gli riserva il suo Paese, non trova altra risposta che l'odio. Odia gli edifici, le strade, l'umanità «pacifica» che gli appare fasulla, intollerabile nella sua pretesa di civiltà.
Per provare a fare i conti con le atrocità subite e commesse, decide d'intraprendere un nuovo viaggio, verso il luogo che rappresenta l'unico ritorno possibile: la Siberia. In questa terra che sa essere per lui spietata e materna, guidato da un nonno che vive in perfetto equilibrio tra asprezza e incantato stupore, Nicolai sembra ritrovare il desiderio di una vita comune. Ma non basta certo il silenzio a cancellare un passato così ingombrante, e neppure serve la determinazione, perché quella che si offre come una possibilità di riscatto può rivelarsi in ogni momento una trappola che inverte la corsa e riporta al punto di partenza.
Così può succedere che un impiego in un'agenzia di sicurezza privata a San Pietroburgo si trasformi in una nuova guerra, più nascosta e apparentemente meno violenta rispetto a quella combattuta in divisa, eppure, se possibile, ancora più pericolosa. Una guerra che fa le sue vittime nelle strade delle grandi città, ma che si combatte soprattutto nelle stanze lussuose della nuova élite economica, nei rapporti tra oligarchi e politici corrotti, negli archivi segreti ereditati dal KGB.
Tra complotti e tradimenti, attentati e amori impossibili, violenze atroci e sorprendenti accensioni ironiche, Nicolai Lilin ci regala quello che tra i suoi romanzi, forse, più lo rappresenta. Perché le storie dei suoi personaggi - storie accadute all'autore stesso o viste accadere ad altri, ascoltate o soltanto immaginate - non sono che varianti possibili di un identico destino: quello di chi, per fuggire dal vuoto, non ha avuto altra scelta che lanciarsi nel buio.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858404973
L’uomo della foresta
Oggi prenderò la Transiberiana,
incontrerò i cacciatori, parlerò con loro,
senza fretta, senza contraddirci, seguendo le regole della Taiga,
mi racconteranno come va la loro vita.
Della Taiga profonda sono rimaste solo le paludi,
hanno fucilato la Taiga dal bordo degli elicotteri,
non torneranno gli uccelli selvatici di una volta,
solo le trivelle sono rimaste a prosciugare la terra, come vampiri.
Tanto tempo fa la Siberia è stata conquistata,
spesso le pallottole hanno sostituito le parole,
noi scendevamo nelle miniere, ammanettati,
le nostre prigioni sono diventate le vostre culle, bambini siberiani.
Nella Taiga possente affondano le nostre radici,
abbiamo cercato di salvarla, non era facile,
tra le trivelle e i boschi abbattuti si sentivano solo bestemmie.
Il tempo del bene è passato, è arrivato il tempo del male.
Prima c’erano i vecchi saggi – io credo nelle loro parole –,
non sparavano alle bestie addormentate,
non inquinavano i fiumi con l’esplosivo, con i motori,
consideravano una vergogna cacciare gli orsi con il fucile.
Nella Taiga possente affondano le nostre radici,
ma oggi la Taiga chiede pietà.
Amo questa terra, qui sono nato e cresciuto,
ma di quel mondo ai miei figli non resterà niente.
(Dalla canzone Dialogo della Siberia di Sergej Matveenko,
cantautore russo di origine siberiana)
Piú nobile di un Lord inglese,
con l’incarico piú alto di quello di un apostolo,
per la foresta vaga una faccia scontenta
e tiene tra le mani una carabina.
Se qualche balordo ancora non ha capito
chi è il padrone di questi boschi,
e costruisce trappole per gli animali
oppure caccia per proprio piacere,
il mio vecchio non perde la calma:
senza rimorsi spara al nemico,
che sia un ambasciatore di pace,
un turista, oppure uno scienziato.
Spara a tutti il nostro caro guardiano
per far conoscere al mondo intero la regola siberiana:
per qualsiasi balordo che viene in questo bosco
noi abbiamo una pallottola pronta.
(Poesia che ho scritto da ragazzo,
dopo aver passato un’estate
in Siberia con nonno Nikolaj)
Quando Dio creò l’uomo era già stanco. Ciò spiega molte cose.
(Aforisma attribuito a Mark Twain)
La piú breve descrizione del senso della vita è questa: il mondo si muove, si perfeziona; l’obiettivo di ogni essere umano è partecipare a questo movimento, obbedire e contribuire ad esso.
(Citazione attribuita a Lev Nikolaevič Tolstoj)
Prima di andare da nonno Nikolaj dovevo passare da San Pietroburgo, che si trova dalla parte opposta del Paese, all’estremo ovest.
Dovevo sistemare un affare che mio padre mi aveva affidato anni prima, quando era andato via in gran fretta, lasciandomi alcune sue vecchie faccende da sbrigare. Erano tempi molto difficili, sul territorio dell’ex Urss tutto cambiava alla velocità della luce, e come molti altri rappresentanti di un mondo del crimine che affondava le radici in un sistema arcaico – quello dei cosiddetti «criminali onesti» che agiscono in nome di ideali politici e sociali, senza pensare ad arricchirsi – anche mio padre aveva subito degli attentati da parte della polizia corrotta, addirittura tre: cercavano di eliminarlo perché non voleva condividere con loro i guadagni dei suoi affari.
Il primo attentato era stato organizzato vicino a un locale di Tiraspol´, una specie di mensa per militari. Era stato invitato a un incontro con alcuni rappresentanti della nuova amministrazione, che cominciavano a diventare molto potenti: all’epoca i poliziotti facevano trattative vere e proprie, cercando di spartire le zone della regione tra i criminali che collaboravano, toglievano ai vecchi per dare ai giovani. Ma era una finta: appena un criminale giovane assumeva il pieno controllo su un’attività, i poliziotti lo eliminavano e si appropriavano del territorio, con la scusa di evitare la lotta per il posto liberato. E parecchia gente si beveva questa strategia, convinta che la polizia volesse veramente portare serenità e pace nei margini della comunità. Nel giro di poco i poliziotti hanno fatto fuori una buona parte dei criminali, diventando la piú potente associazione a delinquere del momento.
Quel giorno il nonno aveva cercato di fermare mio padre, ricordandogli che parlare con i politici era contro le nostre regole, ma lui non voleva ascoltare nessuna ragione: ormai, come molti altri della sua generazione, non si riconosceva nei codici dei vecchi, voleva controllare i suoi piccoli affari, diventare una sorta d’imprenditore dell’illegalità.
Al locale ha incontrato dei poliziotti che gli hanno proposto di gestire un traffico di droga nella nostra zona: sembrava tutto ben organizzato, con i magazzini, i punti-vendita all’ingrosso e il classico spaccio per strada. E in omaggio gli promettevano anche la gestione indipendente di una grossa discoteca che stava prendendo piede. Lui non ha detto niente, chiedendo tempo per riflettere. Una risposta che molto probabilmente non li ha soddisfatti, visto che quando si è seduto al volante per andarsene un uomo gli ha buttato una bomba a mano sotto la macchina. L’uomo non sapeva che mio padre, per quella pura fortuna che nella sua vita disperata non l’ha mai lasciato, aveva parcheggiato sopra un tombino coperto da una grata spaccata in piú punti, e che la bomba era finita proprio in una delle spaccature, esplodendo in un tubo di cemento armato senza provocare alcun danno – spavento a parte. Solo a quel punto mio padre ha capito che mio nonno aveva ragione.
Dopo qualche mese c’è stato il secondo attentato, e questa volta sulla scena c’ero anch’io. Eravamo in macchina in mezzo ai boschi, tornavamo a casa da una cittadina poco distante, e dietro di noi c’era un’altra macchina con dentro un amico di mio padre e una ragazza, una di quelle che nelle società evolute si chiamano «di facili costumi». Ci siamo fermati per fare benzina e mangiare una cosa al volo, e quando dovevamo rimetterci in marcia mio padre mi ha chiesto di andare con il suo amico, perché adesso voleva dare lui un passaggio alla signorina. Io ero giovane ma non ero scemo, comunque mi avevano insegnato a essere discreto e non gli ho detto niente, limitandomi ad augurargli tra me e me tutti i mali del mondo per il suo comportamento disonesto nei confronti di mia madre e soprattutto perché lo faceva senza vergogna in mia presenza. Siamo partiti, davanti mio padre che dava il «passaggio» alla signorina, dietro il suo amico e io pieno di rabbia. Dopo la terza curva ho sentito una lunga raffica di spari, e in un momento, prima che riuscissi a capire cosa stava succedendo, l’amico di mio padre era uscito di strada, mi aveva tirato fuori dal sedile davanti e mi aveva portato in mezzo agli alberi, allontanandomi dall’auto. Ci siamo nascosti, ho visto che lui imbracciava un AKS, io avevo una CZ calibro 9 agganciata alla cintura.
La macchina di mio padre era mezza accartocciata contro un albero, e dall’altra parte del bosco qualcuno continuava a sparare verso l’abitacolo: da come si presentavano le cose, mio padre non aveva scampo. Il suo amico sembrava disperato, in preda a una sorta di tic continuava a cambiare posizione del selezionatore da fuoco singolo a raffica breve, bestemmiando e convincendosi – e convincendo anche me – della morte sicura di mio padre. Ma a un certo punto abbiamo sentito una serie di raffiche che arrivavano da vicinissimo: era mio padre che sparava nascosto dagli alberi a circa cento metri da noi! Siamo corsi nella sua direzione, finché non lo abbiamo trovato sdraiato sulla schiena, tutto pieno di sangue, con un Kalašnikov puntato verso il bosco. Anche il suo amico ha cominciato a sparare, io invece non riuscivo a capire dove si trovasse l’avversario e ho rinunciato, mi sembrava inutile sprecare le cartucce della mia pistola sparando a caso, soprattutto perché c’erano già in ballo due fucili d’assalto automatici. Mi sono semplicemente nascosto dietro gli alberi lí accanto, aspettando che tutto finisse. Hanno sparato qualche caricatore, con lunghe pause, e poi basta, il tutto non è durato piú di cinque minuti.
Siamo rimasti per un bel po’ fermi ai nostri posti, nel caso in cui l’attentatore si facesse sentire ancora, ma era sparito. Dopo quasi un’ora di attesa in mezzo alle macchine che passavano senza fermarsi, anzi accelerando alla vista del fuoristrada di mio padre divorato dai proiettili, siamo usciti allo scoperto. La ragazza era morta sul sedile. Ricordo di aver sentito fisicamente l’esistenza di Dio, era vicino e mi accarezzava tutto, avevo la testa vuota e le gambe morbide, quasi mi sentivo mancare, ma non per la visione della ragazza senza vita, quanto per la consapevolezza chiara e semplice che al suo posto in quell’esatto momento potevo esserci io. Il corpo era letteralmente spaccato dalle pallottole, il torso tranciato, segato a metà, il fianco destro, il piú esposto ai colpi, era disintegrato. Della testa era rimasta solo la parte inferiore, il resto era spalmato nell’abitacolo. La portiera dietro cui era seduta sembrava all’improvviso piccola, trasformata da un incantesimo in una strana miniatura. C’era sangue dappertutto, a terra il profondo rosso si mischiava con l’olio e la benzina che colavano dai fori della carrozzeria, come se la macchina fosse un organismo ferito, un animale morente colpito da un cacciatore.
Mio padre, di nuovo baciato dalla fortuna (quando lo baciava la fortuna ci metteva proprio tutto il suo amore) era praticamente illeso, il sangue che aveva addosso apparteneva quasi tutto alla ragazza: lui aveva solo sfondato con la testa lo specchietto retrovisore al momento dell’impatto contro l’albero, procurandosi una piccola ferita sulla fronte. Si era poi storto la caviglia destra saltando giú dalla macchina, e non riusciva tanto a stare in piedi. Tutto qui.
Dopo questo attentato, comunque, mio padre ha praticamente smesso di uscire dal cortile di casa, si spostava sempre con gli amici fedeli, in grande riservatezza e solo in caso di estrema necessità.
Suo padre, nonno Boris, lo prendeva apertamente in giro davanti a tutta la famiglia, perché se avesse rifiutato di parlare con i poliziotti non sarebbe successo niente. A tavola lo chiamava con disprezzo «presidente Kennedy», oppure, con un piacere quasi sadico, «la povera vittima», «il perseguitato» e ancora «l’anatra1 di Dallas». Non ho mai capito perché, ma la figura di John Fitzgerald Kennedy rappresentava per mio nonno il prototipo dell’uomo sfortunato, stupido e incapace di gestire la propria sicurezza, vittima dei propri sbagli e della propria debolezza politica. E quelle, secondo mio nonno, erano anche le caratteristiche di mio padre.
L’ultimo attentato è avvenuto sulla strada, fuori da un ristorante, mentre mio padre e un suo amico si dirigevano verso le loro macchine nel parcheggio. Gli attentatori sono passati in auto lenti, sparando diversi colpi in direzione dei due che camminavano tranquilli cominciando a digerire la cena.
Si sono buttati per terra, mio padre ha risposto al fuoco colpendo un attentatore al braccio e quello ha perso la pistola dal finestrino. Un altro ha cercato di buttare una bomba a mano, ma una raffica sparata con la mitraglietta dall’amico di mio padre l’ha centrato nel collo e nella testa, e la bomba a mano ormai attivata è caduta dentro la macchina. Pochi istanti dopo, mentre svoltavano l’angolo attorno al ristorante, gli attentatori sono saltati in aria. Né mio padre né il suo amico sono stati feriti. La pistola caduta all’attentatore, una Walther PPK, è stata recuperata da mio padre ed è rimasta nascosta a lungo a casa nostra, l’ho trovata solo anni dopo.
Il giorno successivo all’attentato mio nonno, come pensando, ha detto a bassa voce: «Finalmente Kennedy ha avuto la sua rivincita». Io però sapevo che c’era mancato poco: quel pomeriggio, sul muro del ristorante, avevo contato i fori di ventisei colpi.
Tre giorni dopo il terzo attentato mio padre abbandonò la Russia e se ne andò in Occidente: la fortuna poteva non reggere tutte quelle prove a cui la stava sottoponendo…
Qualche mese dopo la sua partenza sono stato «interrogato» da alcuni poliziotti su certi presunti tesori che aveva lasciato in città. Era pomeriggio e tornavo dal mercato, quando una macchina mi ha superato e si è fermata sul bordo strada. È sceso un poliziotto in borghese che mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Appena sono arrivato davanti a lui, senza dire niente mi ha dato un pugno in faccia. Sono caduto, altri tre poliziotti in borghese mi hanno circondato, mi hanno perquisito, uno mi ha colpito alla testa con il calcio di una CZ. Poi, preso per le gambe e per le braccia, sono stato caricato a peso morto sulla loro auto. Il cibo che avevo comprato era rimasto sparso sull’asfalto.
In macchina, mentre non sapevo dove mi portavano, un poliziotto ha cominciato a farmi domande sul conto di mio padre: se lo avevo sentito di recente, cosa sapevo di lui, dov’era, di cosa si occupava. E soprattutto: dove aveva nascosto i suoi soldi? Io non sapevo veramente niente, mio padre di sicuro era andato in Occidente, probabilmente in Germania, ma non chiamava, non mandava lettere, era sparito senza dare notizie. Di certo non sapevo nulla dei suoi soldi, altrimenti li avrei usati per andare via da quel bordello di Paese, per costruirmi la vita in qualche posto piú umano. Insomma, le cose si mettevano male, perché davo l’impressione di non voler collaborare e i poliziotti si arrabbiavano sempre di piú.
Quando ci siamo fermati nel bosco sulla riva del fiume ero sicuro che mi avrebbero ammazzato. Nella mia testa erano comparse le immagini dei cadaveri che io stesso, con i miei amici, avevo qualche volta ripescato dal fiume, corpi pieni di segni di tortura, le mani e i piedi legati con il fil di ferro, qualche buco di proiettile nel petto e sulla testa. Ho pensato: «Ecco, finirò cosí». E infatti, dopo avermi tirato fuori dalla macchina e riempito di calci, mi hanno legato le mani dietro la schiena con il fil di ferro. Mi hanno ordinato di entrare nell’acqua del fiume fino alla cintura dei pantaloni, poi uno di loro ha estratto la sua pistola, l’ha caricata e me l’ha puntata addosso.
«Dove li tenete i soldi di tuo padre?» ha chiesto.
Non so come spiegarlo, ma in quel momento sono entrato in uno stato di totale rilassamento, non m’importava niente di quello che succedeva, mi sentivo già morto e ogni cosa attorno a me appariva talmente stupida e ridicola che ho cominciato a ridere piano, come se avessi sentito per caso una barzelletta nel discorso di due estranei. Il poliziotto ha urlato e poi ha sparato nell’acqua attorno a me, e alla fine mi ha mandato a quel paese, andando via con i suoi colleghi.
Sono uscito dal fiume e senza riuscire a slegarmi sono partito a piedi verso casa. Per strada un uomo mi ha aiutato a liberarmi le mani e mi ha offerto da bere. Mi ricordo che mi sentivo incredibilmente normale, come se tornassi da scuola o da un altro posto famigliare. Era quella la parte piú terribile della nostra vita: le ingiustizie e la prepotenza per noi erano routine, le solite cose.
Prima e dopo la partenza di mio padre, molti dei suoi amici avevano deciso di lasciare il Paese. Uno di loro gli aveva affidato un appartamento a San Pietroburgo, rimasto vuoto dopo la morte della madre. Il tizio, data la vita piuttosto movimentata che faceva, non aveva mai abitato in quell’alloggio: all’epoca stava in Francia, si occupava di traffico d’armi a livello internazionale e non pensava certo di tornare a casa, ma allo stesso tempo non voleva vendere l’appartamento perché per lui era l’unico ricordo della sua infanzia. Spesso i criminali sono sentimentali, e quello era proprio un caso di criminale sentimentale, che aveva deciso di trasformare l’appartamento della madre in una specie di altare alla sua memoria.
Toccava a me, da quando mio padre se n’era andato, seguire tutti gli affari legati a quell’appartamento.
A sedici anni avevo registrato lí il mio domicilio, e a diciotto avevo preso la residenza. Prima di entrare nell’esercito ero riuscito ad affittarlo a uno studente, un tipo simpatico che si chiamava Arkadij, con il quale avevo fatto un accordo: lui doveva tenerlo in ordine, pagare regolarmente le bollette e occupare solo una stanza – lasciandone sempre pronta un’altra nel caso in cui servisse a me – e in cambio io gli facevo pagare la metà del prezzo di mercato. Era un buon affare, dato che i prezzi degli immobili erano saliti alle stelle, e di conseguenza erano aumentati moltissimo anche gli affitti.
Poi ero finito in guerra e per due anni non avevo potuto ritirare i soldi, quindi Arkadij, persona corretta e fedele alla parola data, aveva contattato mio cugino e passava a lui l’affitto per me. Ma mio cugino, da vera canaglia, aveva preso quella situazione alla leggera e aveva usato quei soldi come se fossero i suoi, la paga mensile per qualche ignoto impegno. Quello stronzo girava per la città comportandosi da uomo ricco, pagando da bere a tutti i suoi amici, si era comprato una macchina usata per fare il duro davanti alle discoteche e portare a spasso le ragazze, sperando che io morissi in guerra e che il suo paradiso continuasse all’infinito. Solo che la vita è fatta in modo diverso, niente è eterno e spesso ci tocca saldare i conti che abbiamo in sospeso. Per questo, quando sono tornato, quello stronzo non si faceva trovare, era l’unico membro della famiglia che non si degnava di farmi visita.
Nonno Boris, già abbastanza malato, mi aveva dato il permesso d’intervenire fisicamente contro quell’elemento indegno della famiglia, «quel topo», diceva lui, usando il termine che nel vecchio gergo criminale indica chi osa rubare ai propri amici o parenti.
Adesso avevo deciso di riprendere il controllo dell’appartamento, passare a San Pietroburgo a salutare il mio inquilino e chiacchierare con lui della ristrutturazione: l’edificio era vecchio e il tempo non aveva avuto pietà, perciò l’amico di mio padre aveva mandato parecchi soldi, chiedendomi di ristrutturarlo alla maniera moderna. La somma era notevole, poteva bastare per l’acquisto di un piccolo monolocale in periferia. Pensavo di lasciare ad Arkadij una parte di quei soldi e chiedergli di occuparsi dei lavori mentre io ero in Siberia, in modo che al mio ritorno potessi trovare tutto finito. E chissà, magari andare ad abitarci.
San Pietroburgo, come capita spesso d’autunno, mi ha dato il suo benvenuto con una fitta pioggia nordica, fredda e pungente, accompagnata da un vento costante carico dell’odore del sale e delle paludi su cui è costruita la città. Le strade sembravano posate in una culla di nebbia che circondava e riempiva tutto, cancellando la linea dell’orizzonte. I palazzi, i ponti, le torri e le famose facciate barocche (diciamo pure eccessive) dell’epoca zarista sembravano sospesi nel nulla. Anche i suoi abitanti, da sempre, somigliano a fantasmi: facce pallide, pelle trasparente come ali di libellula sotto i rari raggi del sole; si spostano camminando sulla terra con un enorme senso di abbandono interno. Già alla nascita nei loro occhi si legge la perdita del senso della vita, un’espressione molto intima, calma, priva di ogni contrasto, da cui si può riconoscere un nativo di San Pietroburgo in qualsiasi parte del pianeta. Nonno Boris, ricco di fantasiose definizioni, chiamava questa città «il paese dei morti viventi». È uno di quei posti in cui se cammini distratto e per sbaglio finisci in mezzo al cimitero non ti accorgi del cambiamento.
Ho fatto qualche chilometro a piedi, poi ho preso il tram e sono arrivato dritto sotto il palazzo in cui si trovava l’appartamento.
Arkadij era a casa, lo sentivo dalla musica che arrivava attutita da dietro la porta. Volevo fargli una sorpresa e ho inserito la chiave nella toppa piano, senza far rumore, poi ho spinto la porta con molta cautela. Ho infilato dentro la testa per osservare la situazione prima di procedere con la mia irruzione da perfetto film di spionaggio, ma dall’altra parte c’era lo studente che con una bottiglia di birra in mano, spaventato, osservava i miei movimenti. Appena i nostri occhi si sono incrociati, mi ha guardato con stupore:
– Nicolai! Allora sei vivo! – Nella sua voce c’era una nota di sorpresa.
Ci siamo salutati abbracciandoci come due vecchi amici. Non lo eravamo, ci conoscevamo appena, ma tra noi si era creata fin da subito una sorta di fiducia, e in quel momento eravamo davvero felici di vederci.
– Sono vivo, sí, non è stato facile ma sono tornato! – ho risposto sorridendo. Lui ha mosso le braccia nell’aria e ha fatto una smorfia, poi ha detto:
– Allora tuo cugino mi ha raccontato un sacco di balle! Mi ha detto che ti avevano sepolto, che eri stato ucciso in guerra!
Non ci potevo credere. Mio cugino mi aveva dato per morto per giustificare il fatto che si prendeva i soldi dell’appartamento. Ho sentito la rabbia annebbiare la mia ragione. Arkadij ha capito subito che il tema della mia morte era abbastanza delicato, quindi ha deciso di cambiare argomento.
– Qui, come vedi, è tutto in ordine. L’anno scorso c’era troppa umidità e dal balcone arrivavano infiltrazioni d’acqua, allora ho comprato un prodotto apposta, una specie di silicone, e l’ho passato attorno a tutte le porte e le finestre, adesso va meglio…
La casa in effetti era tenuta bene, in modo molto maschile: mi sentivo a mio agio lí dentro, come in una camerata militare. C’era tutto il necessario, ogni cosa al suo posto, il frigo ronfava in cucina, il bagno era pulito e ordinato, le finestre erano lavate e non si notavano segni di polvere, i fiori erano vivi, si respirava un’aria buona.
La sua camera era molto modesta e ben curata. Il letto da una piazza e mezzo era fatto preciso come nell’esercito, sul tavolo c’era il computer acceso con un gioco avviato, contro il muro uno scaffale pieno di libri. Sul davanzale della finestr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Il respiro del buio
  5. L’uomo della foresta
  6. L’esercito dei pochi
  7. La guerra dentro
  8. La cenere delle nostre anime