Firmino
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Firmino

Avventure di un parassita metropolitano

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Firmino

Avventure di un parassita metropolitano

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Informazioni sul libro

La storia del topo Firmino che si ciba di libri per non morire di fame ha incantato i lettori di tutto il mondo, che lo hanno eletto a simbolo di quella figura emarginata, ma ostinata, che è il lettore di romanzi nella nostra società. «Non ne potevo piú di topi. Sono ovunque: al cinema, in televisione, nei fumetti, nelle fogne sotto casa. Poi ho conosciuto Firmino.
Solo un topastro sfigato e malinconico come lui mi poteva rimettere in pace con il mondo dei roditori».

Niccolò Ammaniti

«Firmino, il topo che Walt Disney avrebbe inventato se solo fosse stato Borges. Se leggere è il vostro piacere e il vostro destino, questo libro è stato scritto per voi».

Alessandro Baricco

«Firmino racconta di tutti noi il giorno in cui abbiamo scoperto che con un libro potevamo inventare la nostra vita».

Valeria Parrella

«Chi ama leggere farà subito amicizia con Firmino. Questo memorabile topo di biblioteca generato da una pantegana alcolizzata ci insegna che leggere è anche un peccato di gola. I buoni libri, ci ricorda Firmino, si divorano e lasciano, come questo di Sam Savage, il miele in bocca e un po' d'amaro nelle viscere».

Domenico Starnone

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858400500

5.

Viaggiavo nei libri, ma non li mangiavo più, e il cibo – quello prosaico, illetterato – rappresentava un problema costante. Fui costretto a lasciare il negozio ogni notte, a farmi coraggio e, insinuandomi sotto la porta dello scantinato, a sgattaiolare fuori, per rovistare in giro nella Piazza in cerca di cibo: appiattendomi nell’ombra, infilandomi furtivo nei tombini, correndo da un punto buio all’altro. Il diario di un lombrico notturno. Pian piano l’anno passava, i giorni si facevano sempre più freddi. Poi più caldi. Cominciai a notare dei cambiamenti nel quartiere. Non mi riferisco a qualche misero ciuffo d’erba o di giunchiglie rachitiche spuntato qua e là, le trasformazioni cui alludo erano piuttosto in contrappunto ironico con quel germogliare stentato. In quasi tutti gli isolati, le attività andavano scomparendo e, di notte, le strade laterali, e persino la stessa Piazza, si svuotavano sempre più presto. A parte i capannelli di marinai all’ingresso dei bar, dopo le undici in giro spesso non si vedeva nessuno. Negli edifici c’erano più finestre rotte, e quasi sempre restavano così, senza che nessuno si preoccupasse di aggiustarle, o venivano sostituite con fogli di compensato. C’erano cumuli d’immondizia nei vicoli e, davanti ad alcuni negozi, persino sui marciapiedi. Lungo i bordi delle strade, la gente aveva abbandonato macchine destinate a essere pian piano smontate, pezzo dopo pezzo, da rottamai che frugavano tra i rifiuti.Perfino i mattoni degli edifici parevano cedere sotto il peso degli anni, come vecchi – ratti o uomini – che avessero perduto la voglia di reggersi in piedi. I ratti intanto si spostavano nelle macchine per scavarsi, nei sedili, tane confortevoli.
Di tanto in tanto, là fuori, m’imbattevo in qualcuno della vecchia combriccola. Anche loro erano cambiati parecchio da quando si erano avviati per conto proprio. Con quelle guance scavate e quel modo di fare furtivo, i corpi allungati e i ventri penduli, erano dei figuri dall’aspetto talmente sgradevole che stentavo quasi a riconoscerli. Di solito anche loro preferivano far finta di non conoscermi. Erano sempre affannati a raggiungere questo o quell’altro posto – inseguendo voci di facili scroccate o in fuga dall’Uomo –, ma talvolta qualcuno si fermava per scambiare due chiacchiere, mi metteva al corrente delle ultime novità e, se capitava, mi dava anche qualche dritta su dove sgraffignare un po’ di roba per la cena. Dritte che, di solito, si rivelavano fasulle, e che mi spedivano di proposito nella direzione sbagliata. In fondo non erano così cambiati, intimamente – ai loro occhi io ero sempre un perfetto zuccone. Fu in uno di questi incontri fortuiti che venni a sapere delluccisione di Peewee, travolto da un taxi la notte prima. Ero sul marciapiede con Shunt quando lui mi indicò una chiazza di pelo in mezzo a Cambridge Street, che assomigliava a un piccolo tappeto. Anche se Peewee non aveva mai mostrato nei miei riguardi la minima considerazione, vederlo in quello stato mi gettò nello sconforto. Dentro di me, posi accanto al suo nome le parole: RIDICOLO e VITA.
E cosa misi accanto al mio, di nome? Quando ero giù di corda, CLOWN GROTTESCO e perfino RATTO. Ma quando ero di buonumore – il che mi accadeva quasi sempre allora: UOMO D’AFFARI. I miei affari erano i libri: consumo e scambio. Me ne stavo ore nella Mongolfiera e nel Ballatoio a cercare di capire in cosa consistesse quel mestiere. Di mattina, rischiando di cadere da un momento all’altro, mi sporgevo dal bordo della Mongolfiera per leggere il giornale oltre le spalle di Norman. E, quando metteva la tazza del caffè nel punto giusto, mi capitava anche di vedermi riflesso: visione tutt’altro che invitante all’ora di colazione. Anche Norman era un vero lettore. Tastava il ripiano della scrivania in cerca della tazza come un cieco e, quando la trovava, l’afferrava e la portava alle labbra senza distogliere un attimo gli occhi dal giornale. L’aroma del caffè si levava fluttuando e rimaneva lì, sospeso, spandendosi per tutto il soffitto. Amavo quell’odore, per quanto ne sarebbe passato, di tempo, prima che lo assaggiassi davvero.
Una volta in un bar un uomo mi chiese di che sapessero i libri, «più o meno». Avevo già la risposta pronta ma, per non farlo sentire sciocco, finsi per un po’ di riflettere prima di rispondergli: «Amico, considerato l’abisso che separa le tue esperienze dalle mie, posso suggerirti un’idea di quel gusto così singolare solo dicendoti che i libri hanno un sapore simile, più o meno, all’odore del caffè». Fu una risposta complessa. E mi resi conto, dal modo in cui tornò al suo bicchiere, di avergli dato un bel po’ da pensare. Adesso che sono di nuovo da solo, non sento più nemmeno l’odore del caffè: l’ennesima cosa bella della mia vita andata perduta.
Dopo il giornale del mattino, origliavo le conversazioni e i rapporti che intercorrevano tra Norman e i clienti. Molti – forse la maggior parte – erano veri lettori che speravano di poter comprare qualche buon libro a basso costo. Ma se non arrivavano già con un titolo a fior di labbra o davano l’impressione di curiosare in giro senza una meta o un’idea precisa, di certo Norman se ne accorgeva, e sapeva sempre come indirizzarli. Era un vero Sherlock Holmes quando si trattava di presagire l’indole di qualcuno dall’aspetto esteriore. Gli bastava uno sguardo, ed era in grado di dire – dall’abbigliamento, dall’accento, dal taglio dei capelli, perfino dall’andatura – il tipo di libro che piaceva a ognuno. E non sbagliava mai, mai dava Peyton Place a qualcuno che sarebbe stato più contento con il Dottor Zivago. Né viceversa. Norman Shine non era un tipo snob. Era piccoletto e con un gran sedere. Aveva anche una faccia larga – sembrava più larga che lunga – e una bocca minuscola che lui, quando ascoltava qualcuno, corrugava. Gli facevi una domanda, gli chiedevi se per caso aveva Dombey e figlio o La vita di Marianne di Marivaux tradotta in inglese, e vedevi la sua bocca corrugarsi. Era come tirare la cordicella di un sacchetto o toccare con una punta un anemone di mare. Indipendentemente da quanto fosse ordinaria la domanda – «Chi ha scritto Guerra e pace?» o «Dov’è il bagno?» –, lo vedevi piegare la testa per guardarti al di sopra degli occhiali, corrugare le labbra e, nel complesso, assumere un atteggiamento come se gli fosse stato posto il più profondo dei quesiti. Dopodiché, l’anemone dimenticava la sua paura, la cordicella allentava la stretta, la bocca si schiudeva nel più gentile dei sorrisi e lui, sollevando l’indice teso come a sentire il vento, rispondeva: «Stanza sul retro, scaffali a sinistra, terzo ripiano dal basso, verso la fine» o in altro modo, ma sempre con la stessa precisione. Con quella sua zucca pelata e quel cespuglio di capelli a ferro di cavallo, sembrava un frate gioviale. Talvolta lo confondevo con Frate Tuck.
Il sabato pomeriggio, soprattutto quando il tempo era bello, il negozio si affollava di clienti. Allora Norman lasciava la scrivania vicino alla porta e andava in giro per il locale, aiutando le persone a trovare quel che desideravano. Era davvero uno spettacolo, mentre si muoveva con grazia tra di loro. Sembrava un moschettiere. Diventava Athos, silenzioso e riservato, lento all’ira, ma micidiale, se qualcuno lo provocava. Sorpreso alle spalle da una qualche domanda, ruotava su se stesso, affondava rapido lo stocco in uno scaffale in cima e tirava giù, come un pesce guizzante trafitto da un arpione, Morte a Venezia. Un’altra richiesta poteva spingerlo a lanciarsi giù per un corridoio, una schivata allo spigolo di uno scaffale, una finta a sinistra in direzione delle opere giovanili, quindi, rannicchiandosi sulle ginocchia, un affondo a destra: ed ecco, infilzato sulla punta della spada, Il libro di cucina illustrato di Betty Crocker. Un terza richiesta, questa volta fatta da una vecchia brutta, curva, con indosso un impermeabile, riceveva il riguardo consueto. Un lungo inchino, una piroetta galante, due diretti sinistri fulminei, ed ecco lì, ai suoi piedi Il potere del pensiero positivo e Artrite e buonsenso. Bravo, mon vieux Athos, bravo.
Ma i momenti in cui Norman era più amabile erano i giorni di pioggia, quando non c’erano clienti nel negozio, e lui si aggirava per i corridoi armato di un grande piumino di penne di tacchino, spolverando a destra e a sinistra, canticchiando a fior di labbra e fischiettando. Vederlo mi faceva pensare, allora, a com’era bello essere uomini. Anche per me, i giorni di pioggia erano piacevoli. Cullato dal ticchettio dell’acqua, mi capitava di assopirmi nella mia postazione. Talvolta avevo anche degli incubi nei quali morivo di morti atroci, schiacciato sotto il Webster in versione integrale o trascinato dall’acqua giù per lo scarico, tra le urla. E quando mi svegliavo nel tepore confortevole del negozio al lieve sibilo della pioggia, al fruscio del piumino di penne, mi sentivo di nuovo felice.
Intanto, il mondo fuori da lì mi appariva sempre più un posto di cui non desideravo granché far parte. Durante i nostri giri d’orientamento lassù, Mamma si era lamentata a lungo con me e Luweena della nostra mancanza di gratitudine per tutto quel che lei stava facendo per noi, mostrandoci i migliori posti dove sgraffignare e scroccare. Il che era ridicolo. Dal mio punto di vista, ci aveva mostrato soprattutto un bel po’ di trappole mortali – non molto di cui esserle grati. L’unica eccezione era il Rialto Theater. E per questo, ancora oggi, la mia gratitudine non ha limiti. Senza Rialto, niente desiderio. Senza desiderio, niente Bellezze, Senza Bellezze... Cosa? Senza Bellezze, un roditore immalinconito dalla solitudine, al capolinea delle illusioni, che rimugina sulla natura della propria disperazione. Il resto della mia famiglia, in un certo senso, aveva avuto fortuna. Grazie a un’immaginazione da nanerottoli e a una memoria corta, non chiedevano molto, più che altro soltanto mangiare e fornicare. E, di entrambi, ne hanno avuto quanto bastava per tutta la loro esistenza. Ma non era questa la vita che faceva per me. Come un idiota, io avevo delle aspirazioni. Oltretutto vivevo nel terrore. Il Rialto si distingueva, in quel quartiere così avvilente, come l’unico posto un po’ più sicuro, un posto dove potevi raccattare qualcosa da mangiare, e mangiarla con tutta calma senza preoccuparti che qualche sventura si abbattesse sulla tua testa, riducendoti un tappetino come Peewee. Una via di mezzo fra un teatro-cinema e un albergo d’infimo ordine, il Rialto rimaneva aperto ventiquattrore su ventiquattro. Metà del pubblico era lì solo per dormire – perché era più economico di una stanza e più caldo della strada. Affettuosamente, era chiamato la Casa del Prurito, e la maggior parte dei ratti evitava di andarci per via dei parassiti, una colonia vorace di pulci e pidocchi, ma anche a causa del fetore – un puzzo di vecchi e di poveri, di sudore e sborra, mescolati al cattivo odore di pesticidi e disinfettanti che venivano buttati lì dentro una volta a settimana. Ma, data la mia indole, tutto ciò mi sembrava un piccolo prezzo da pagare. Il Rialto proiettava, durante il giorno e la sera, vecchi film, forse in tutto quaranta, che faceva andare di continuo, sempre gli stessi, giusto per mantenere una facciata di squallida rispettabilità. Poi, a mezzanotte, quando l’intera cittadinanza e i suoi censori si erano ficcati a letto sotto le coperte e i poliziotti potevano far finta di niente senza correre rischi, si passava alla pornografia. A mezzanotte in punto, Charlie Chan o Gene Autry, tremolando sullo schermo, graffiati e claudicanti, si fermavano in un fracasso d’ingranaggi a metà proiezione. Seguiva una totale oscurità, qualche breve minuto di colpi di tosse e piedi strascicati, poi il proiettore, in un ronzio, si rianimava; perfino il suono che produceva sembrava più vivace, con più smalto. Il mutamento era spettacolare.
Anche se il Rialto aveva molto da offrire, il pubblico di solito era sparuto, così mi veniva facile insinuarmi furtivo tra le file vuote e raccogliere, meticoloso, pezzetti scelti di caramelle e popcorn, e perfino talvolta qualche porzione di hot dog o di prosciutto affumicato (i frequentatori di tutta-la-notte si portavano spesso la cena), mentre il fascio di luce lampeggiava sopra di me come un faro da contraerea. Una tale abbondanza di cibarie, comunque, non era per me la principale attrazione del Rialto. Lì, sullo schermo di mezzanotte, nude e gigantesche come Amazzoni, c’erano creature proprio simili a quelle che mi avevano trafitto con la loro bellezza davanti al Casino Theater alcune settimane prima. Non indossavano però rettangoli neri al seno e sopra le cosce, né erano bloccate nell’immobilità di un’immagine fotografica. Si muovevano come creature reali in una gamma di colori vivi, danzavano, e qualche volta si dimenavano su tappeti evidentemente fatti di pelli d’animali ben più pelosi di Peewee. Si dimenavano da sole o insieme a uomini, la cui presenza greve – muscolosi e nerboruti com’erano, simili a enormi ratti neonati – mi sembrava superflua, se non oltraggiosa. E talvolta si dimenavano gli uni tra le braccia degli altri. Quanto ho desiderato quella pelle morbida e liscia come camoscio – sentirne l’odore, toccarla, assaporarla – e quelle chiome così fluenti – per affondarci il viso, fino al deliquio. Sapevo bene quel che gli altri membri della mia specie presunta, i pochi che per caso si avventuravano lì dentro, pensavano di quegli esseri dalla pelle vellutata. Lì dove io scorgevo angeli, essi vedevano soltanto orribili animali eretti, goffi, glabri e privi di senso. E se non ridevano era solo perché i ratti non ridono mai.
L’attrazione esercitata su di me da quelle creature dal fascino irresistibile era così potente che mi ritrovai a sacrificare ore e perfino giorni che avrei dovuto trascorrere al negozio di libri solo per starle a guardare. Tiro fuori ancora una volta il mio telescopio. Fremente d’impazienza, aspetto che i miei occhi si abituino all’oscurità guizzante di bagliori. Poi, scrutando in quel Rialto di sogni e memorie, faccio scorrere il telescopio da una parte e dall’altra finché non trovo, rinchiuso nel perimetro circolare della lente, quel me stesso più giovane, progenitore spensierato del rottame di adesso: tengo tra le zampe un pezzetto di quel che sembra uno Snickers e me ne sto in cima a una poltrona in prima fila tra ubriachi che russano, mendicanti che mangiano rumorosi, gente che sbava, che si masturba. Masticando in silenzio, contemplo il lento denudarsi dei corpi, il loro ondeggiare provocante, lo sfrenato roteare di quegli esseri che ormai considero semplicemente come «le mie Bellezze». Mastico e contemplo, contemplo e mastico, assolutamente rapito, assolutamente in estasi. Non mi vergogno. Talvolta mi viene da pensare che tutto quello di cui si ha bisogno nella vita è una quantità considerevole di popcorn e un po’ di Bellezze.
art
Norman acquistava la maggior parte dei volumi alle svendite patrimoniali, e questo era per me l’unico aspetto increscioso del commercio di libri. Al ritorno da qualcuna di quelle svendite, la vecchia Buick station wagon, rivestita di pannelli di legno, era così carica che quando faceva retromarcia verso l’ingresso del negozio il paraurti strisciava sul marciapiede. Una volta aperto il portellone posteriore, Norman trasportava i libri dentro a bracciate, accatastandoli vicino alla scrivania in pile alte sino alla cintola e, nei giorni successivi, ci scriveva dentro il prezzo a matita, a uno a uno. Odiavo quella parte del lavoro. Odiavo soprattutto leggere, oltre le sue spalle, le dediche: «Per il mio amato Peter nel nostro cinquantesimo anniversario di matrimonio» (nel Rubāiyāt di Omar Khayyām), «Questo libro mi è stato donato dalla cara defunta Violet Swain quando avevamo entrambi diciassette anni (nel Giovane Holden), «A Mary, con l’augurio che le dia conforto» (nei Sermoni di John Donne), «Per ricordarti delle nostre due settimane di paradiso italiano» (nelle Pietre di Venezia di Ruskin), «La follia è soltanto genialità incompresa – prega per me» (nei Canti dell’innocenza e dell’esperienza di Blake), «Io vivo, muoio; ho vissuto, sono morto; morirò, vivrò» (in Timore e tremore di Kierkegaard). Decine di dediche come queste in ogni carico. Una cosa oscena. Avrebbero dovuto seppellire i libri insieme ai loro proprietari, come gli egiziani – solo così si sarebbe potuto evitare che la gente, dopo, ci mettesse su le mani in modo oltraggioso –, avrebbero dovuto dar loro, ai defunti, qualcosa da leggere nel lungo viaggio attraverso l’eternità.
La maggior parte dei libri erano segnati a meno di un dollaro, ma Norman aveva occhio anche per i pezzi pregiati e – con quelle protuberanze sopra le orecchie – aveva un vero e proprio talento per la dissimulazione. Quando individuava un volume davvero pregiato in una svendita patrimoniale, si teneva quella mossa nascosta sotto la manica finché non riusciva a comprarlo per quattro soldi. Poteva anche pagare un nichelino per un libro e poi, con una mossa a sorpresa, ficcarlo in una vetrina e venderlo per mille dollari il giorno dopo. Quando i collezionisti venivano per vedere cosa avesse, si infilavano dei guanti bianchi di cotone prima di toccare qualsiasi cosa fosse nella vetrina. E alle volte si trattava proprio di libri che, qualche giorno prima, Norman si era portato in giro nella station wagon. Ma non fatelo sapere ai collezionisti! Tenendo tra le mani i libri con delicatezza come fossero bambini appena nati, se ne stavano seduti lì con quei loro guanti bianchi in atteggiamento solenne, come Papi, a discutere di luoghi di provenienza, prime edizioni, autografi d’autore, e del grande Rosenbach. Alcuni di loro conoscevano bene la storia dei libri, ma nessuno era in grado di competere con Norman, e non succedeva mai che riuscissero a prendersi gioco di lui. Era sorprendente. Giunsi a credere che non ci fosse niente che lui non sapesse. Ormai da un bel po’ avevo tolto dalla mia mente il cartello che lo etichettava soltanto come il Proprietario della Scrivania, e accanto al suo nome ne avevo affisso due nuovi: LO SPADACCINO E IL CUSTODE DELLA CHIAVE DELLA CONOSCENZA. Passare da quelle definizioni a san Pietro, attraverso l’immagine della chiave, fu del tutto naturale. Fu così che l’immagine di Norman Shine si mescolò nella mia mente con l’idea di santità.
C’era un altro aspetto del commercio di libri che mi sembrava interessante, e che accostava Norman all’operatore nascosto nella cabina di proiezione del Rialto. Dovete sapere che oltre ai libri usati ma ancora in buono stato sugli scaffali, ai libri malconci del seminterrato e ai libri rari nelle vetrine, c’erano anche i libri chiusi nella vecchia cassaforte di ferro che si trovava davanti al Buco del Ratto. Libri messi al bando, brossure dalle copertine bianche pubblicate dall’Olympia Press e dall’Obelisk Press, fatte arrivare di nascosto da Parigi. Avevano titoli come Tropico del Cancro, Nostra signora dei fiori, Ginger Man, Pasto nudo, La mia vita e i miei amori. Chi li comprava li richiedeva in un sussurro. Se Norman conosceva l’acquirente o se, dopo averlo squadrato dalla testa ai piedi (erano tutti uomini), decideva di fidarsi, faceva cadere la maschera da Frate Tuck: gli occhi rotondi si trasformavano in due fessure, la piccola bocca a portafoglio si appiattiva sino a ridursi a una feritoia, in un’espressione dura. Era come ritrovarsi, all’improvviso, a guardare un altro film – in cui lui impersonava un agente segreto di cellule clandestine francesi incaricato di consegnare a ciascuno documenti falsi, o forse un ricettatore assoldato dalla malavita per trasportare dei diamanti rubati. «Un attimo», diceva, lanciando un’occhiata rapida intorno. Poi si accovacciava davanti alla cassaforte in modo da non farne vedere il contenuto e con un gesto rapido, abile, dissimulava quella merce di contrabbando infilandola dentro una busta marrone anonima, senza la scritta pembroke books, non prima però che dalla cassaforte aperta si diffondesse un vago aroma di Parigi – di Gauloises Bleues, vino rosso, gas di scarico d’automobili
– che si levava su per la stanza mescolandosi sul soffitto all’odore di caffè. E io pensavo: Bravo Norman, in lotta per la libertà. Il che dimostra come fossi, nel profondo del cuore, un rivoluzionario ancor prima di conoscere Jerry Magoon. Ma dimostra anche come nascondessi a me stesso, nonostante la sua evidenza, il fatto che Norman, oltre a lottare per la libertà, stesse facendo un grande affare. Adesso lo capisco, quanto fosse contraddittoria la sua indole. Ma, a quei tempi, le uniche contraddizioni che sapevo riconoscere erano le mie.
Tutte queste esperienze nuove suscitarono nella mia mente un conflitto terribile tra Pembroke Books e il Rialto. Ai miei occhi, erano come templi rivali che si contendevano la mia venerazione: arhat e saggi da una parte, angeli dall’altra. Talvolta cedevo al richiamo dell’uno, talvolta invece a quello dell’altro. E quando propendevo per il Rialto spesso vi rimanevo per tutta la notte e oltre. In questo modo riuscivo a vedere i film proiettati durante il giorno senza dover camminare per le strade alla luce del sole. Tra le pellicole in bianco e nero riciclate di continuo, oltre a Charlie Chan e Gene Autry, c’erano western, film di gangster e musical, film con Joan Fontaine, Paulette Godard, James Cagney, Gianni e Pinotto, Fred Astaire. Il proiezionista doveva avere un debole per Fred Astaire, considerata la quantità di suoi film che proiettava, e in breve anch’io cominciai ad avere un debole per lui. Quando passavano sullo schermo le sue pellicole, rimanevo sempre. Non avevo dubbi riguardo al fatto che il proiezionista fosse un altro ministro di riti misterici, come Norman. Due templi, due sacerdoti. Morivo dalla voglia di vederlo anche solo di sfuggita, ma non mi accadde mai.
Fred Astaire divenne il mio modello, il mio faro – il suo modo di cammin...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo primo
  2. Capitolo secondo
  3. Capitolo terzo
  4. Capitolo quarto
  5. Capitolo quinto
  6. Capitolo sesto
  7. Capitolo settimo
  8. Capitolo ottavo
  9. Capitolo nono
  10. Capitolo decimo
  11. Capitolo undicesimo
  12. Capitolo dodicesimo
  13. Capitolo tredicesimo
  14. Capitolo quattordicesimo
  15. Capitolo quindicesimo
  16. Nota dell’autore
  17. Indice