Salviamo l'Italia
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Salviamo l'Italia

  1. 140 pagine
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Salviamo l'Italia

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Il 150° anniversario della nazione non dovrebbe essere solo l'occasione per sventolare bandiere tricolori o indulgere nella retorica: richiede invece un ripensamento profondo sulla storia d'Italia e sul contributo del Paese al futuro del mondo moderno. A tal fine si rivisitano le grandi figure del Risorgimento (da Cattaneo a Cavour, da Manin a Pisacane, da Mazzini a Garibaldi) cosí che le loro riflessioni si mescolano in presa diretta alle nostre. Per «salvare» l'Italia, Paul Ginsborg fa affidamento su alcuni elementi fragili ma costanti presenti nel nostro passato: l'esperienza dell'autogoverno urbano, l'europeismo, le aspirazioni egualitarie e l'ideale della mitezza. Fondamenti dotati della carica utopica necessaria per creare una patria diversa.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
ISBN
9788858404072

Capitolo secondo
La nazione mite

In risposta al pregnante interrogativo posto da Giulio Bollati direi che la via italiana alla modernità passa oggi attraverso quattro elementi fra di loro correlati, tutti presenti in misura diversa nel passato italiano. Due hanno carattere politico, uno di appartenenza geografica, l’ultimo è una virtú sociale. Il primo elemento risiede nella lunga tradizione di autogoverno urbano presente in Italia, che durante il Risorgimento tocca l’apice nel patriottismo difensivo delle repubbliche democratiche di Venezia e di Roma nel 1848-49. Il secondo è l’intrinseca vocazione europea dell’Italia, in questo cosí diversa dalla Gran Bretagna. Il terzo elemento è la ricerca dell’eguaglianza, perseguita solo da piccole minoranze nel Risorgimento, ma essenziale per arrivare a dar vita a una repubblica degna di questo nome. L’ultimo elemento della costruzione di un paradigma moderno della nazione è il piú inusuale ma anche potenzialmente il piú efficace: la presenza nella storia italiana della mitezza come virtú sociale1.
Descriverò per sommi capi tali caratteri nell’ambito di questo capitolo, per ritornarvi brevemente alla fine del libro. A scanso di equivoci sottolineo che non mi accingo a sostenere la tesi che questi quattro elementi siano predominanti nella storia d’Italia. Cosí non è. Né intendo imbarcarmi in un esercizio teleologico a indicare l’ineluttabile procedere della storia italiana verso esiti prestabiliti. Nulla garantisce il trionfo del modello alternativo che propongo. Mi preme piuttosto rinvenire tracce storiche spesso dimenticate, soprattutto quelle presenti nel Risorgimento, e sostenerne la validità come punti di riferimento per il futuro. Gli elementi individuati non hanno la forza storica delle «figure profonde» di Banti. Ma sono nondimeno presenze significative nella storia d’Italia, fattori degni di essere identificati e coltivati perché contribuiscono a una visione della nazione moderna assai diversa, che si distacca dal terribile nazionalismo del secolo scorso. Nel ricercarli mi propongo di seguire l’esortazione già ricordata di Simone Weil: «Concepirle in modo assolutamente chiaro… affondarle per sempre in quella parte dell’anima dove i pensieri si radicano; e tenerle presenti in ogni decisione. È forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette, siano buone»2.

1. L’autogoverno.

All’inizio di questo capitolo è la voce di Carlo Cattaneo a risuonare forte e chiara, come già nel primo. Cattaneo, e con lui Giuseppe Ferrari, sono a buona ragione considerati i due paladini risorgimentali del federalismo. Nel marzo 2010 la Lega, convinta delle strette analogie tra il pensiero di Cattaneo e il proprio programma, ha istituito la Fondazione Carlo Cattaneo a Besozzo, in provincia di Varese. Che il patriota fosse un eloquente fautore del federalismo è indubbio, ma non è necessariamente vero, come mi accingo a dimostrare, che ne sostenesse la versione propugnata da Umberto Bossi. Né va dimenticato che, pur andando fiero delle sue origini lombarde, Cattaneo era esplicito sul fatto che la virtú non fosse esclusiva prerogativa di un’unica nazione o di un singolo gruppo etnico. Riflettendo sugli accadimenti degli anni 1848-49 egli scrisse: «barbaro può suonare quanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi [corsivo suo]»3.
La base su cui Cattaneo fondava la propria tesi politica è l’autogoverno comunale. Nella sua opera piú completa sull’argomento, Sulla legge comunale e provinciale (1864), egli chiedeva ai suoi lettori come mai a partire dalla metà del xviii secolo la Lombardia, benché oggetto di «tante irruzioni straniere», avesse goduto ininterrottamente di una notevole prosperità. La Lombardia, sosteneva fiero Cattaneo, era la regione italiana con il maggior numero di strade, scuole, medici condotti e «ogni altra comunale provvidenza»4. Era anche la regione che contava il maggior numero di piccoli e piccolissimi comuni. Era plausibile l’esistenza di una connessione tra benessere e autogoverno? Cattaneo era convinto di sì. A suo avviso i meriti dei comuni lombardi, di «codesti plessi nervei della vita vicinale»5, per usare la sua memorabile definizione, divennero ancor piú evidenti nel paragone tra Lombardia e Sicilia. Nell’Italia del 1860 era la Sicilia la regione che vantava il maggior numero di abitanti per comune – una media di 6681. Ma in Sicilia la desolazione regnava sovrana – assenti le strade, pochi i cimiteri, mancanza di istruzione e nessun senso della comunità. In un brano di grande efficacia Cattaneo denunciava questo stato di cose definendolo una ruberia ai danni della nazione:
Se le famiglie hanno piú d’una mezz’ora o di un’ora di cammino dalle case alla scuola, alla levatrice, al mortario o a qualunque altra parte di necessario servizio vicinale […] il concetto del comune svanisce; e chi deve contribuire alle sue spese, è frodato […] Mi valgo di questo vocabolo scortese, per dire ben chiaramente che, quando parlo di diritto comunale, non intendo fare una vana frase; ma parlare del mio e del tuo. E aggiungo per ultimo che anco la nazione è frodata; perché i suoi figli crescono nell’ignoranza [corsivo mio]6.
Per Cattaneo, quindi, la spina dorsale della nazione erano i piccoli comuni ben funzionanti. Essi costituivano «la nazione nel piú intimo asilo della sua libertà»7.
Non erano solo le esperienze recenti della sua regione, bensí la totalità della storia urbana del Centro e del Nord della penisola, la gloria delle sue cento città, a rafforzare la convinzione di Cattaneo che la miglior organizzazione del potere politico partisse dal basso, a opera dei comuni e successivamente delle regioni, e non dall’alto, a opera dello stato-nazione centralizzato. I grandi successi delle repubbliche municipali italiane del Medio Evo ne erano ulteriore conferma. La loro storia, che – come abbiamo visto – era stata narrata da Sismondi e divorata dai giovani patrioti italiani del periodo della Restaurazione (nonché da Shelley e Byron), a giudizio di Cattaneo trasmetteva un messaggio molto chiaro, ossia che l’autogoverno municipale era l’essenza della particolare arte di governo italiana: «pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi»8.
Per Cattaneo autogoverno e presa di coscienza da parte dei cittadini andavano di pari passo. L’autogoverno non poteva esser valido se basato sull’ignoranza e l’interesse personale, oppure se veniva delegato a figure carismatiche di livello locale o nazionale – il moderno equivalente dei principi e dei condottieri. Doveva essere invece un apprendistato, un confronto basato sulle opinioni e gli interessi di ciascuno. Le rivoluzioni degli anni 1848-49 portarono altra acqua al mulino di Cattaneo. L’intera Europa si entusiasmò nel vedere due città italiane, Venezia e Roma, costituirsi in repubbliche democratiche fondate sul suffragio universale maschile e impegnarsi per molti mesi nell’eroica difesa della libertà, municipale e nazionale9. Purtroppo per Cattaneo e per il destino del Risorgimento tutto, l’insurrezione milanese del marzo 1848, la piú straordinaria di tutte le rivoluzioni europee dell’epoca – a composizione popolare e a guida repubblicana –, non diede vita a un analogo esperimento di autogoverno repubblicano10.
All’unità d’Italia, nel 1861, si giunse in maniera del tutto diversa da quanto auspicato da Cattaneo e indicato dalle esperienze di Venezia e Milano. La monarchia piemontese trionfò nell’intera penisola, introdusse un governo fortemente centralizzato e fondò il sistema parlamentare su un suffragio molto ristretto, in base a criteri censitari. Lungi dal salvaguardare le libertà locali e incoraggiare l’autogoverno, il nuovo regno assegnò ampi poteri ai prefetti e ai sindaci.
Tutto ciò era un controsenso per Cattaneo ma nei suoi scritti posteriori al 1860 non v’è traccia apparente di un approccio secessionista. Benché l’Italia fosse stata fondata come stato monarchico e centralizzato, contrariamente ai principî profondamente repubblicani e federalisti di Cattaneo, egli non si dedicò a minarne le basi, bensí a tentare di migliorarla. I suoi modelli erano la confederazione elvetica e gli Stati Uniti d’America. Cattaneo inseguiva il sogno di un equivalente italiano, gli «Stati Uniti d’Italia» li definiva, in cui venisse garantito pieno riconoscimento a culture, sistemi giuridici e tradizioni diverse, e da questa eterogeneità l’Italia unita attingesse forza11.
L’ultima considerazione riguarda il nazionalismo consapevolmente attenuato di Cattaneo. Egli trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita nel Ticino cui riconobbe una doppia identità: essere insieme parte integrante dell’economia e cultura lombarda ma anche elemento costitutivo della confederazione elvetica. Queste due identità non erano antitetiche. Al contrario, si sovrapponevano senza offuscarsi a vicenda12. Lo stesso valeva per l’individuo. Si poteva essere lombardi, ma anche italiani o svizzeri. Le identità individuali potevano benissimo essere composite, limitando cosí il rischio di trasformare in nemico “l’altro”.
Sette anni dopo la pubblicazione delle lettere di Cattaneo con il titolo Sulla legge comunale e provinciale, fu realizzato a Parigi il massimo esperimento di autogoverno del xix secolo. La Comune di Parigi del 1871 nacque in tempo di guerra e fu soffocata dopo soli 71 giorni, i suoi fautori massacrati a migliaia dall’esercito nazionale di Thiers. La Comune era rivoluzionaria quanto a ordinamento interno – era previsto che i delegati fossero eletti a suffragio universale e ricevessero un compenso pari solo al salario di un operaio, i giudici dovevano essere eletti in base agli stessi principî, la burocrazia doveva sottostare al controllo del popolo e l’esercito essere una milizia popolare. Nei rapporti esterni l’approccio era ancor piú radicale, la Comune auspicava la Francia libera federazione di comuni autonomi.
Cattaneo era morto nel febbraio 1869. Sarebbe stato affascinato dalla Comune di Parigi, cosí vicina alle sue idee, e soprattutto dalla proposta di una nuova Francia federale, ma non l’avrebbe approvata. Egli era un liberale e un borghese sino in fondo, uno degli intellettuali piú lungimiranti di quella rivoluzione borghese italiana che stentava ad affermarsi nel corso dell’Ottocento. Ma era anche un radicale, anticonformista, che aveva ben chiara in mente la necessità di costruire la democrazia come processo di educazione e presa di coscienza.
L’idea dell’autogoverno è rimasta un filo rosso della storia nazionale, riaffiorando di tanto in tanto con grande intensità. La vediamo in azione nelle pagine di «Ordine Nuovo» di Gramsci, nei progetti di autogoverno sostenuti dal Partito d’Azione nel 19441945, nell’utopia radicale degli studenti sessantottini, nella grande diffusione dei consigli di fabbrica negli anni Settanta, e persino oggi, in chiave minore, nei tentativi di iniettare nel sistema di democrazia rappresentativa in grave crisi una dose di esperimenti partecipativi. Il governo locale italiano continua a essere molto piú vivace e partecipato rispetto a quello britannico. In Italia negli anni Novanta l’affluenza media alle urne in occasione delle elezioni amministrative era di poco inferiore all’80 per cento, mentre in Gran Bretagna toccava appena il 35. Ma bisogna aggiungere che finora nella storia nazionale italiana l’autogoverno, nell’accezione di Cattaneo, non ha mai trovato una forma soddisfacente né piena realizzazione – ha avuto vita breve, sempre soffocato dai politici e dagli interessi personali. Questo non significa però che sia da scartare.

2. Dentro e fuori Europa.

La storia della presenza dell’Italia in Europa negli ultimi due secoli è storia di un potenziale ampiamente irrealizzato. Ciò risulta tanto piú strano considerando che il paese, simbolo di bellezza e di libertà, ha ispirato l’immaginario europeo forse piú di ogni altro. Nel dicembre 1786, Johann Wolfgang von Goethe, a Roma per la prima volta, espresse ammirazione per gli alberi di arancio dei frutteti romani, lasciati crescere spontaneamente: «I frutti pendono a centinaia da ciascun albero, che non è potato e messo in un mastello come da noi, ma vive libero e felice nella terra, in fila con i propri fratelli. Non si può immaginare nulla di piú allegro della loro vita»13. E qualche giorno prima aveva annotato sul suo diario: «Io conto d’esser nato una seconda volta, d’essere davvero risorto, il giorno in cui ho messo piede in Roma»14. È straordinario come questo modo nordeuropeo di vivere l’Italia come una resa perenne di fronte alla storia, alla luce e all’armonia del Bel Paese rimanga costante nel tempo. Spesso si accompagna a un apprezzamento della libertà della sua gente, al pari di quella dei suoi aranci; una libertà non tanto politica quanto di costumi, un modo di vivere essenzialmente libertario in cui gioia e armonia trovano il loro legittimo spazio.
Esiste però un altro tipo di libertà degli italiani che faremmo bene a tener presente. La “libertà negativa” è divenuta un Leitmotiv della storia d’Italia, e si esprime nel rifuggire da regole e norme, dall’ordine e dalla precisione, dalla legge. Questa “libertà da” ha trovato storicamente espressione anche nell’evadere le tasse ed evitare in generale ogni interferenza da parte dello stato. Si tratta di un retaggio pesante che ha dovuto misurarsi con le diverse tradizioni europee di definire il rapporto tra cittadino e stato.
L’unità d’Italia, nel 1861, fu celebrata in tutta Europa, eccetto, è ovvio, in Austria. Va detto subito che la componente europeista non ebbe grande sviluppo nel pensiero risorgimentale. Mazzini, è vero, già nel 1847, aveva profetizzato «un ampio mercato comune» e i popoli d’Europa in marcia «verso una nuova era di unità, di piú intima...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prologo
  5. Capitolo primo
  6. Capitolo secondo
  7. Capitolo terzo
  8. Capitolo quarto