Per ben cinque giorni si appostò, ogni volta che gli fu possibile, davanti all’Albergo Locanda Alle Poste, ma senza alcun risultato. Assistette da lontano a qualche pasto consumato silenziosamente dai Busatto nel giardino-ristorante. Seguí spesso – sempre da lontano – madre e figlia che se ne andavano a passeggiare fino alla pineta, e persino l’amata che – libera e sola – scorrazzava per ogni dove. Ma mai ebbe l’ardire di farsi notare, né di abbordare Cicci. Giacché il vero erotofilo, colui che pone il sesso al culmine del proprio struggente desiderio di vita, è il piú delle volte un ipersensibile, un poeta, un crepuscolare: insomma, un timido.
E intanto il tempo passava, e la sbandata ero-sentimentale per la Divina assumeva proporzioni alienanti.
Finalmente fu lei (lei!) a provocare il primo approccio.
Nella bottega dove sua madre lo mandava a fare la spesa, Oberdan stava ritirando mezzo chilo di sale e due uova, quando LEI entrò, e l’imberbe innamorato per poco non svenne.
– Coscia ghe demo a cvesc’ta bela zig’norina? – chiese il bottegaio, col suo accento sloveno.
– Una tinozza, – rispose lei in italiano.
(Evidentemente non usava il triestino perché il padre-ufficiale era come tutti i militari – un «cabibo», cioè meridionale).
– Coscia? – replicò il mercante, per il quale quel sostantivo era desueto.
– Una mastèla... – tradusse Oberdan, arrossendo.
Sua Altezza lo degnò di uno sguardo ma, quando l’enorme utensile le fu posto dinanzi e lei lo ebbe pagato con un’indifferenza da Zarina di tutte le Russie, impose seccamente al bambino di una testa piú basso di lei:
– Aiutami.
E cosí, tenendo la tinozza per i manici – uno da una parte e uno dall’altra – i due raggiunsero l’Albergo Locanda Alle Poste.
Durante il breve tragitto, Sua Altezza disse soltanto:
– In questo sporco paese lavano la roba cosí male che la mamma preferisce farla lei con le sue mani, come una serva... Non vede l’ora di tornare a Trieste... A me poi piace il mare. Dorso. E tu?
– Rana, – mentí Oberdan, che aveva fatto l’ultimo bagno al «Pedocín» (pidocchino), lo stabilimento popolare, a cinque anni.
Giunti alla meta, la tinozza venne appoggiata nell’atrio, dove i genitori di Cicci stavano appendendo la chiave della camera al gancetto numerato, diretti al ristorante.
– Ringrazia questo bravo bambino che ti ha aiutata, – suggerí la Regina Madre alla figliuola.
– Grazie, bravo bambino! – sbuffò la Principessa, facendole il verso. E quel «bambino» trafisse Oberdan con una pugnalata.
Ciò nonostante il kamikaze dell’eros l’indomani fece la posta all’Albergo – giustappunto – Alle Poste e, quando finalmente madre e figlia uscirono per la passeggiata, finse di trovarsi lí per caso e gli si accodò.
Pineta, picnic, e soliti interrogatori cui le donne borghesi sottopongono i bambini altrui per crogiolarsi nella conferma che tutte le altre famiglie sono – per un verso o per l’altro – inferiori alla propria.
Tuttavia la qualifica di figlio della piú autorevole insegnante di Prosecco e l’assicurazione che tra pochi giorni la maestra sarebbe ritornata a esercitare nella metropoli – abbandonando quel paesuccio nel quale si era trattenuta per motivi climatici – conferí a Oberdan il privilegio di non venire snobbato dalla signora Busatto, la quale concesse al «bambino» un pizzico della propria regale benevolenza.
Quanto a Cicci, una costante aria di annoiata sufficienza e di distacco, e sporadici interventi verbali, di cui ci limiteremo a riportare solo due o tre esempi:
Regina Madre:
– Come ti chiami, bambino?
Oberdan:
– Oberdan.
Principessa:
– E la forca dov’è?
Regina Madre:
– E quanti anni hai?
Oberdan, «ad abundantiam»:
– Undici.
Principessa:
– Proprio un giovanotto. Sarebbe il caso di dargli del lei.
Regina Madre:
– E come fate di cognome?
Oberdan:
– Baciro.
Principessa:
– Parenti dello stagnino Baciro Danilo, quello che ci viene sempre a distasare il gabinetto?
E cosí via.
E questa solfa durò fino alla previgilia della partenza di Oberdan. Il quale era sprofondato nella piú nera disperazione, perché aveva perduto ormai ogni speranza non solo di stabilire l’agognato rapporto amoroso con Cicci, ma persino di scambiare con lei quattro chiacchiere in privato.
Né gli affronti subiti avevano scemato il suo disperato innamoramento per la Divina, ma anzi avevano ottenuto l’effetto contrario.
Ma fu proprio in «zona Cesarini» che Cicci si recò da sola alla pineta, e Oberdan la seguí.
Non intendiamo tediare il lettore riportando su queste pagine l’intero dialogo intercorso fra l’appetente e l’appetita.
Né questa umile penna si sente all’altezza di descrivere il processo dialettico che permise al «paria» di introdurre con la Divina l’argomento SESSO.
Comunque il miracolo avvenne, soprattutto grazie a una felice intuizione di Oberdan: quella cioè di sottacere ogni accenno al proprio innamoramento e al proprio sogno di un rapporto sentimentale impossibile, accenno che gli avrebbe procurato certamente umiliazioni ancora piú amare delle precedenti.
Viceversa raccontò la storia di Beatrice facendola passare per un vero e proprio commercio sessuale completo e infiorandola – ormai lanciato allo sbaraglio – con frequenti citazioni ricavate dall’eronarrativa di Fausto Cusmat.
Cicci all’inizio lo guardò sbalordita e ostile, fingendo una riprovazione di ordine moralistico che evidentemente non rispondeva alle sue piú intime istanze, visto che man mano la sua attenzione si fece sempre piú tesa, le sue guance s’imporporarono e – in quelle iridi absburgiche – il freudiano avrebbe potuto cogliere la contrazione della libido erotica.
La Principessa non favorí mai il benché minimo principio di un rapporto paritetico, continuando a comportarsi come una Faraona egizia che assistesse a un’esibizione del giullare di corte. Ma non si preoccupò affatto di tacitare lo strano bambino informatissimo, anzi lo interruppe solo per concedergli una delicata confidenza.
– Quando vado al Centro Ippico di Montebello, – si degnò di rivelargli, – mi piace stringere fra le gambe la sella del cavallo.
E subito:
– Continua!
Oberdan non se lo fece ripetere due volte, e continuò, non trascurando il minimo dettaglio.
E intanto Cicci, che quel giorno non indossava i pantaloni da cavallerizza ma un gonnellino scozzese, distendeva ed apriva sempre di piú quelle sue incredibili gambe da infarto.
E questo fu per Oberdan il segno infallibile della sicura, imminente vittoria.
Tanto piú che a un certo momento la Divina fece scivolare una mano sotto la gonna e ve la lasciò.
E niente affatto immobile.
Quanto a Oberdan, ormai lo conosciamo bene, e quindi un’ennesima descrizione delle sue condizioni psicofisiologiche in siffatte circostanze è da ritenersi superflua.
Continuò a parlare e, dopo aver continuato a parlare, continuò a parlare ancora.
In preda a un turgore fallico di proporzioni iperboliche, continuava a controllare l’effetto che le sue parole ottenevano. Effetto superiore a ogni previsione, tanto che dopo non molto la Principessa cominciò a sospirare con notevole affanno e a roteare le pupille verso l’alto, abbandonandosi all’intenso godimento preorgastico che andava procurandosi con le proprie dita nervose impegnate nel febbrile gioco malcelato dalle mutandine.
L’istinto suggerí a Oberdan che il manicaretto da lui stesso ammannito era al giusto grado di cottura e cosí, estratta e impugnata la propria appendice, dura come l’acciaio, si avvicinò a Cicci, che in quel momento teneva gli occhi chiusi per concentrarsi e per gustare fino in fondo l’urgente acme.
– Sí, amore, insieme!... – le mugolò sulla bocca.
E Cicci, spalancando gli occhi che assunsero immediatamente un’espressione da «horror movie», lanciò un urlo e allontanò da sé il temerario con una spinta di inaudita violenza.
– Deficiente! – strillò, – mi hai rovinato tutto!
Contemporaneamente vide ciò che la piccola mano del «paria», immobilizzata dalla sorpresa, stava avvolgendo.
Allora si alzò di scatto e si allontanò di corsa, lasciando lo schiavetto troppo confidenziale solo e inespressivo, simile a quegli scimpanzé in gabbia che fissano lo spettatore dello zoo stringendosi il membro fra le dita. Ultime battute di Sua Altezza in fuga, sempre piú lontane:
– Porco!... Schifoso!... Che ti credevi, che mi mettessi con un caga-in-braghe della tua età?!... Nano puzzolente!... Lo dirò a mio padre e vedrai come te la farà pagare!
E cosí ancora una volta il povero Oberdan Baciro si trovò a cozzare, allibito, contro l’imprevedibilità e la ferocia del cosiddetto sesso debole.
Tuttavia opinò a ragion veduta che quella delazione non avrebbe mai avuto luogo, giacché la stessa delatrice – tutt’altro che estranea a certi risvolti erotici dello sfortunato episodio – rischiava, sviscerandolo, di compromettersi.
Non era nelle abitudini di Oberdan il fare la spia ma, nel caso, avrebbe applicato la legge del taglione.
Eh sí, per dio: «mors tua vita mea!»
La mattina seguente, mentre i Baciro preparavano le valigie per partire con la corriera delle 17, dal basso si udí una voce femminile:
– Signora!... Signora!...
La maestra si affacciò.
– Dica, signora...
– Signora, potrebbe scendere un attimo?
– Ma perché non sale, signora?... Si accomodi... Scusi solo se troverà un po’ di disordine... Sa, siamo in partenza...
– Appunto, signora, se scende un minuto, vorrei dirle due parole in privato...
– Come preferisce, signora...
(In quegli anni le signore piccolo-borghesi e borghesi, conversando tra loro, ripetevano la parola «signora» migliaia di volte, nel beato compiacimento di confermare l’abissale superiorità classista che vantavano sul proletariato e sul contadinato).
La signora Baciro scese e Oberdan si affacciò alla finestra.
Ma subito si ritirò, perché gli occhi che lo folgorarono in quell’istante esprimevano la piú inequivoca...