1.1. Il mondo sta attraversando una crisi, nella quale crescono i pericoli di una guerra nucleare che minaccia la sopravvivenza dell’umanità.
Tra le cause della crisi la realtà del sottosviluppo è venuta assumendo una preminenza rilevante: esso è ormai uno dei fattori principali della diffusa insicurezza e della generale instabilità che caratterizzano le attuali relazioni politiche ed economiche mondiali. C’è una crescente tensione nei rapporti nord-sud, si moltiplicano e si estendono i conflitti nelle aree sottosviluppate, si delinea la tendenza a trasformare l’Africa, l’Asia, l’America Latina in un terreno di contesa fra le massime potenze e i blocchi militari contrapposti.
D’altro canto le condizioni di povertà e di arretratezza in cui vivono due terzi dell’umanità creano effetti dirompenti su tutta l’economia mondiale e rendono impensabili una ripresa e una crescita economica degli stessi paesi industrializzati al di fuori dello sviluppo di quelli attualmente sottosviluppati.
Si fa sempre piú stretto il nesso tra pace, ripresa economica e sviluppo equilibrato del mondo. Perciò occorre guardare con realismo e con nuove idee al rapporto nord-sud. Si impone una strategia mondiale dello sviluppo che assuma come momento centrale la soluzione positiva di quel rapporto. Insieme ad una politica di pace occorre pensare a nuove forme di collaborazione, a un coordinamento e a una programmazione internazionale come base del «negoziato globale» tra nord e sud e come traduzione del principio e della pratica di una «cooperazione paritaria» tra paesi capitalistici, paesi sottosviluppati e paesi socialisti.
1.2. In questi ultimi decenni le relazioni economiche, politiche e culturali tra gli Stati e tra i popoli si sono allargate in modo straordinario, sono avanzati processi di internazionalizzazione e di interdipendenza che hanno reso la comunità umana meno condizionata nell’ambito dei confini nazionali, piú aperta a influssi provenienti da ogni parte del mondo.
Questa dinamica non ha tuttavia prodotto fenomeni di reale cooperazione. Essa si è sviluppata su basi marcatamente diseguali. Una parte del mondo – particolarmente i paesi capitalistici avanzati – se ne è assicurata i vantaggi e i benefici. Un’altra – la maggior parte dei paesi sottosviluppati – ne è stata esclusa e ne ha pagato le spese.
Le conseguenze sono tragiche.
Agli inizi degli anni ’80 ottocento milioni di esseri umani vivono al di sotto della soglia della povertà assoluta; due miliardi e mezzo sopravvivono con un reddito annuo inferiore a 370 dollari (quattrocentomila lire), e si tratta di medie che nascondono fortissime disparità di reddito. Pur abitando in terre ricche o potenzialmente ricche, per masse sterminate di donne, di uomini, di bambini, la vita è solo fame, analfabetismo, miseria subumana e spesso morte precoce. Invece il 25 per cento della popolazione del globo, concentrato nei paesi industrializzati, beneficia dell’80 per cento del reddito mondiale, consuma il 70 per cento di tutte le risorse disponibili, concentra nelle sue mani il 90 per cento della produzione industriale, detiene il monopolio della ricerca scientifica e tecnologica.
Per fare fronte a questa situazione, a partire dal 1960 le Nazioni unite avevano deciso una politica di «aiuti» al sottosviluppo, invitando i paesi sviluppati a destinare prima l’1 per cento del loro prodotto interno lordo in «aiuto» ai paesi sottosviluppati, poi lo 0,70 in «aiuto pubblico» allo sviluppo. Ma all’inizio del «terzo decennio dello sviluppo» (1980), nulla è mutato se non in peggio. Nessuno dei paesi sviluppati – tranne qualche eccezione – ha seguito le indicazioni dell’Onu. Anzi c’è stata una progressiva riduzione dell’aiuto pubblico previsto. Nel 1980 i paesi capitalistici hanno complessivamente destinato a quelli sottosviluppati solo lo 0,34 per cento del loro prodotto nazionale lordo contro lo 0,37 della fine degli anni ’60. L’Europa comunitaria sfiora lo 0,40 per cento (l’Italia è allo 0,17), gli Stati Uniti raggiungono appena lo 0,27, il Giappone lo 0,32.
Nel frattempo la situazione complessiva dei paesi sottosviluppati è peggiorata con un aumento drammatico del divario tra nord e sud. Rispetto a dieci anni fa sono diminuite le risorse alimentari, si è accresciuto il debito pubblico, c’è meno energia, l’inflazione ha effetti devastanti.
Centodiciannove nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina sono attanagliate dal problema della fame. È emerso il gruppo dei «paesi meno sviluppati», con le economie alla deriva, gli stenti, i cinquanta milioni di morti all’anno per fame o per inedia. Se nel frattempo le nazioni produttrici di petrolio e alcune ristrette isole di industrializzazione hanno accresciuto il loro reddito, l’80 per cento di africani e asiatici, e gli abitanti di qualche paese latino-americano sono ancor piú sprofondati in una povertà che è aggravata da fenomeni di degradazione, decadenza, emarginazione. Privati delle loro risorse, bloccati nel loro sviluppo, i paesi sottosviluppati hanno visto aggiungersi nuove forme di spoliazione. La scarsa manodopera qualificata e i non molti tecnici emigrano, con un fenomeno che coinvolge ormai milioni di persone le quali vanno per il mondo – nella maggioranza dei casi subendo discriminazioni economiche, razziali, religiose – in cerca di un minimo di reddito. Si tratta ormai di un imponente fenomeno migratorio, che si aggiunge a quelli interni di fuga dalle campagne e di urbanizzazione selvaggia e a quelli continentali che vedono la migrazione di interi villaggi, gruppi etnici e tribali in cerca di cibo.
La politica degli «aiuti» non ha dunque minimamente intaccato la realtà del sottosviluppo. Essa è inadeguata e rischia persino di essere ingannevole se viene concepita come pura assistenza.
E tuttavia in dimensioni e con finalità diverse resta necessaria. Occorre ottenere l’adempimento delle indicazioni dell’Onu e aumentare la consistenza dell’aiuto. C’è un vero e proprio programma di emergenza da attuare in almeno tre settori: beni alimentari con un piano mondiale di lotta alla fame; energia, per assicurare le condizioni minime di funzionamento economico ai «paesi meno sviluppati» colpiti piú duramente di altri dal costo del petrolio; aiuti finanziari, volti a attenuare gli effetti devastanti dell’inflazione e dei debiti.
Questi gli obiettivi immediati, se si vuole evitare una catastrofe economica di proporzioni mondiali. Tanto piú che aumenta a ritmo vertiginoso lo squilibrio tra crescita demografica e quantità delle risorse disponibili. Nel 2000 gli abitanti della terra saranno piú di sei miliardi. Nei paesi sottosviluppati si addenseranno cinque miliardi di persone.
Esiste un certo acuto problema demografico che esige anche politiche specifiche di controllo delle nascite. D’altra parte si potrebbe guardare con minore preoccupazione a tale problema se ci fosse un uso piú razionale delle risorse, se la scienza e la tecnologia non fossero distorte a fini di dominio, ma poste al servizio del progresso umano e del reperimento di nuove risorse. Tutto ciò non sarebbe però ancora in grado di risolvere il problema: la questione centrale resta quella di uno sviluppo delle forze produttive nelle aree sottosviluppate.
La fame, la povertà, l’incontrollato incremento demografico sono infatti l’espressione estrema e piú drammatica delle strutture attuali del sistema economico mondiale. Non sono eliminabili se non alle loro radici.
1.3. Il sottosviluppo è storicamente il prodotto del capitalismo imperialistico, di un lungo dominio coloniale seguito da una massiccia e perdurante presenza neocoloniale. La storia degli ultimi decenni è segnata da eventi che hanno modificato la fisionomia del mondo. Le rivoluzioni socialiste, nazionali e anticoloniali hanno sottratto, in tutto o in parte, grandi paesi e vaste zone di ogni continente alla soggezione e allo sfruttamento dell’imperismo. Quest’ultimo non ha potuto, né può, fare a meno di prendere atto dei nuovi rapporti di forza mondiali, ridimensionando le sue ambizioni, cambiando i suoi strumenti di intervento, modificando i meccanismi interni e le sue manifestazioni esterne.
Lo squilibrio che condanna una cosí grande parte dell’umanità alla arretratezza continua comunque ad avere la sua causa principale nel sistema capitalistico e nei meccanismi del mercato mondiale, dominato da ragioni di scambi, ineguali, che perpetuano lo sfruttamento e il controllo delle risorse delle aree sottosviluppate, conservano i vincoli di dipendenza e una precisa gerarchia di privilegi di classe.
Poderosi interessi materiali si oppongono ad ogni cambiamento dell’ordine economico esistente. Contro di essi si sono sinora infranti tutti i tentativi, dalle proposte dei paesi non allineati alla ragionevole riforma prospettata nel rapporto Brandt.
A impedire ogni cambiamento ha concorso anche una concezione, dominante negli anni di una maggiore espansione del capitalismo, secondo cui lo sviluppo delle aree arretrate sarebbe stato conseguenza spontanea e automatica del processo di crescita dei paesi industrializzati: la loro domanda avrebbe dovuto stimolare l’incremento delle capacità produttive dei paesi sottosviluppati. Ma, se è vero che imponenti ristrutturazioni dell’economia capitalistica hanno assicurato ad alcuni paesi sottosviluppati una certa crescita delle forze produttive, nel complesso si è trattato di fenomeni limitati, frutto di una divisione internazionale del lavoro dettata dalle esigenze dei paesi capitalistici avanzati, e dalle loro imprese transnazionali, di allargare le basi della propria produzione e i margini del loro profitto. In realtà queste esigenze hanno determinato all’interno dei paesi interessati nuovi e acuti squilibri sociali, vere e proprie distorsioni nelle forme dello sviluppo. Il caso dell’Iran resta esemplare. Il risultato complessivo è stato un aggravamento del problema del sottosviluppo e il generale disordine in cui versano le relazioni economiche mondiali.
2.1. Questa linea fallimentare viene oggi ripresa dalle forze piú conservatrici. Una parte dei paesi europei comincia a comprendere le conseguenze negative della mancata soluzione del problema del sottosviluppo, ma un’altra parte dell’occidente capitalistico – in particolare l’amministrazione Reagan degli Stati Uniti – rifiuta ogni innovazione, cercando di ripristinare vecchi rapporti di forza e nuove posizioni di dominio. Si vanta la bontà del libero gioco – per altro inesistente – del mercato mondiale e degli investimenti privati e si torna cosí a concepire il rapporto nord-sud in termini di contrapposizione tra paesi consumatori e paesi produttori di materie prime. Si dichiara che la soluzione può stare soltanto nelle iniziative delle grandi imprese capitalistiche nazionali e multinazionali.
È una linea pericolosa perché inasprisce lo scontro tra nord e sud e ha come inevitabile corollario l’uso della forza per arrestare la spinta al cambiamento che viene dai paesi sottosviluppati.
Assai grave è anche il tentativo dell’amministrazione Reagan di trasformare il problema del sottosviluppo in un ulteriore motivo della tensione tra est ed ovest. Ciò infatti stimola un coinvolgimento, diretto e indiretto, degli Usa, dell’Urss e dei loro blocchi politico-militari contrapposti nei processi di liberazione in atto nelle aree sottosviluppate.
Anche l’Urss ha serie responsabilità nell’emergere di questa pericolosa tendenza. La solidarietà con i popoli in lotta per la loro liberazione è una cosa doverosa e giusta. Un’altra cosa è sostituire agli autonomi processi rivoluzionari un’espansione della propria area di influenza attraverso una politica di potenza orientata da criteri strategici. L’intervento in Afghanistan è l’espressione piú grave di questa logica: esso ha avuto effetti negativi per la distensione mondiale e la causa della liberazione dei popoli.
Ogni intento di trasformare l’Asia, l’Africa e l’America Latina in area di contesa tra est ed ovest e di coinvolgerle nella politica dei blocchi rappresenta una minaccia per la pace. Già se ne vedono alcune conseguenze. Il movimento dei paesi non allineati – che ha dato un contributo decisivo al superamento della guerra fredda e alla ricerca di nuove forme di cooperazione internazionale – è sottoposto a pressioni preoccupanti per l’uno e per l’altro blocco.
Processi originali di emancipazione e di liberazione rischiano di essere compromessi e appiattiti in una visione del mondo che concepisce unicamente due campi contrapposti e apparentemente omogenei.
Aumentano i conflitti e le guerre tra i «paesi poveri». L’uso della forza e degli strumenti militari sta prevalendo sull’iniziativa negoziale, in una spirale di sospetti e di sfiducia reciproci con conseguente ricerca di protezioni e alleanze. Si moltiplicano le basi militari a territorio straniero e si sviluppa una generale corsa al riarmo, sia convenzionale che nucleare.
La spesa mondiale per gli armamenti già supera ogni anno i 500 miliardi di dollari (seicentomila miliardi di lire). È una cifra pari all’indebitamento complessivo di tutti i paesi sottosviluppati. Ma ciò non impedisce che anche questi paesi al limite della decadenza economica dissipino le loro scarse risorse in armamenti. I paesi sottosviluppati coprivano nel 1970 l’8 per cento del totale della spesa militare e mondiale: nel 1980 sono arrivati al 16 per cento e la metà di questa cifra è concentrata nell’area mediorientale.
Ma non c’è solo la corsa agli armamenti convenzionali. Ci sono fenomeni inquietanti di proliferazione nucleare che in alcuni casi (Israele e Sud Africa) non riguardano paesi sottosviluppati, ma in altri sí (ad esempio India e Pakistan) e che in ogni caso introducono elementi di grave turbamento nelle aree del sottosviluppo.
2.2. Di fronte all’acutezza della crisi occorrono, insieme a un nuovo ordine economico, anche un assetto politico e un sistema internazionale nuovi, fondati su principî che siano universalmente riconosciuti e praticati. I comunisti italiani ritengono che nell’era atomica la pace mondiale sia il bene supremo e una necessità assoluta. Essa sola può consentire ai processi di liberazione e di emancipazione dei popoli la loro piena espansione.
Il riconoscimento del diritto di ogni popolo alla piena sovranità e indipendenza è un principio dal quale non si può derogare. Nessun intervento esterno può essere in alcun modo giustificato: le rivoluzioni e le controrivoluzioni non si esportano.
Fermare la corsa al riarmo, imporre il controllo degli armamenti e avviare immediatamente la loro riduzione al fine di arrivare al disarmo è determinante. Il livello raggiunto dagli armamenti è non piú soltanto un effetto, ma anche una causa delle tensioni e dell’insicurezza mondiale da disinnescare con urgenza. È tempo invece che avanzi un nuovo concetto di sicurezza affidato soprattutto allo sviluppo di legami economici, politici, culturali tra i popoli e gli stati.
In quest’ambito vi sono obiettivi urgenti da conseguire nelle aree sottosviluppate: essi riguardano la regolazione pacifica dei conflitti, la non estensione dei blocchi, il rispetto e la difesa del non allineamento, la creazione di zone di sicurezza e di zone denuclearizzate, l’arresto della proliferazione nucleare, il controllo internazionale sul commercio delle armi.
Grandi in questo senso sono la funzione e la responsabilità delle due maggiori potenze. La ripresa del dialogo tra Usa e Urss è essenziale, per la pace e ai fini stessi della soluzione del problema del sottosviluppo, parte integrante del rilancio della distensione. Se l’accordo tra Urss e Usa resta fondamentale, esso tuttavia non è sufficiente. Ci sono nel mondo altri protagonisti della vita internazionale, grandi o piccoli che siano, dai quali non si può prescindere nella costruzione di un nuovo assetto politico internazionale piú giusto e democratico.
2.3. L’Europa occidentale – e in particolare la Comunità europea – ha una funzione particolare. Essa dipende dal sud del mondo per il 75 per cento dei rifornimenti di materie prime e di risorse energetiche: ha quindi piú di altri bisogno di un rapporto positivo con i paesi sottosviluppati.
L’Europa occidentale ha i mezzi economici, tecnologici, politici e culturali per costruire fruttuose relazioni paritarie con le aree del sottosviluppo. Essa può assolvere per i suoi interessi oggettivi e le sue potenzialità soggettive un ruolo internazionale autonomo di grande rilievo, sia per la distensione e cooperazione tra est ed ovest, sia per la soluzione del problema nord-sud. Al contrario ha tutto da perdere in una lotta tra le grandi potenze per il controllo delle aree sottosviluppate, che la spingerebbe a una rinnovata disciplina di blocco e a un’inaccettabile estensione delle sue alleanze politico-militari. La sua indipendenza e il suo stesso sviluppo economico ne sarebbero compromessi.
Ma l’Europa occidentale non riesce ad esprimere una politica unitaria e autonoma che risponda ai suoi interessi generali. La convenzione di Lomé, stipulata nel 1...