L'albero dei giannizzeri
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L'albero dei giannizzeri

  1. 392 pagine
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L'albero dei giannizzeri

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Una serie di omicidi misteriosi scuotono il Palazzo. Una giovane circassa dell'harem, quattro cadetti della Nuova Guardia che da qualche tempo ha sostituito i giannizzeri, sciolti dopo la loro rivolta di dieci anni fa... Proprio ai giannizzeri, alle loro tradizioni mistiche e feroci, sembra condurre l'indagine di Yashim, mentre l'incubo degli incendi torna a impaurire la grande città sul Bosforo. Eunuco di corte, Yashim apprezza la buona cucina e i libri. Ama le donne, con impeto e pudore. Con l'occhio della sua intelligenza illumina un mondo vario e cosmopolita di ambasciatori stranieri, dark ladies, assassini efferati, magnifici travestiti, artigiani, sette religiose sufi, soldati combattuti tra l'invidia dell'Occidente e la nostalgia delle vittoriose armate ottomane. Mentre la città lentamente sprofonda tra gli incubi del passato e la paura del futuro, e forse ci vuole qualcosa di grosso per risvegliarla...

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858407929

XXXII.

Le belle città, dove i cittadini soddisfatti finanziano un’amministrazione capace, esistono eccome e non contengono un solo edificio pubblico pericolante né una zona edificabile cosparsa di erbacce e neppure un palazzo in sfacelo; ma una grande metropoli sí, perché anche il degrado è un segno di vita. All’orecchio giusto, la decadenza parla di grandi possibilità. All’altro, di corruzione e delinquenza. La Istanbul di quegli anni non faceva eccezione.
Il cordone sfilacciato del campanello che giaceva inerte nella sua mano, mentre sostava sui gradini davanti al portone di un palazzo di Pera, il quartiere «europeo» di Istanbul di fronte al Corno d’Oro, ispirò a Yashim una riflessione di questo tenore. Sentiva che il campanello rotto rivendicava una sorta di parentela con quanto di logoro e ammuffito esisteva già nell’antica metropoli, dalle basiliche lesionate alle case in legno cadenti, dall’ufficio del patriarca alle fradice palafitte del porto.
All’ultimo mortale strattone, un campanello aveva suonato a distesa in un remoto angolo della vecchia magione. Per la prima volta da settimane e l’ultima per anni, un campanello annunciava visite all’ambasciatore.
Palewski si scollò dal divano con un’imprecazione e un rumore di cocci.
Uscito in cima alle scale, si aggrappò alla balaustra e scese giú ad aprire, senza alcuna fretta. Fissò per un attimo i chiavistelli poi si stiracchiò, contrasse i muscoli della schiena, si passò una mano fra i capelli e dietro il collo e aprí la porta con uno strattone. L’improvvisa ondata di luce invernale gli fece involontariamente strabuzzare gli occhi.
Yashim gli cacciò in mano i resti del cordone ed entrò. Palewski chiuse la porta borbottando.
– Perché non entri semplicemente dalle finestre sul retro?
– Non volevo prenderti di sorpresa.
Palewski gli voltò le spalle e cominciò ad arrampicarsi per le scale. – Niente può sorprendermi.
Yashim intravide un corridoio scuro, che conduceva sul retro della residenza, e un lenzuolo che copriva dei mobili accatastati nell’atrio. Salí le scale dietro a Palewski.
L’ambasciatore aprí una porta. – Ecco, – fece.
Yashim seguí l’amico in una stanza piccola dal soffitto basso, rischiarata da due lunghe finestre. Sulla parete di fronte troneggiava un elaborato caminetto, ornato da fasci di scudi scolpiti e da archi e frecce appartenenti a un’epoca piú cavalleresca; il fuoco dietro la grata era quasi spento. Palewski aggiunse un altro ciocco e lo riattizzò, alzando qualche scintilla. Le fiamme cominciarono a propagarsi.
Palewski si buttò su un’enorme poltrona e fece segno a Yashim di imitarlo. – Beviamoci una tazza di tè, – disse.
Yashim era già stato in quella stanza tante volte; eppure si guardò intorno con piacere. Uno specchio macchiettato con la cornice dorata appeso tra le due finestre a persiana sormontava il piccolo scrittoio di Palewski e l’unica sedia rigida della stanza. Le due poltrone accanto al fuoco erano mezze sfondate, ma comode. Sopra al caminetto era appeso un ritratto a olio di Jan Sobieski, il re polacco che levò l’assedio turco di Vienna nel 1683; altri due olii, di un signore in parrucca a cavallo di un destriero che faceva la rallegrata, e di un gruppo di famiglia, decoravano la parete vicino alla porta, sopra un tavolino di servizio in mogano su cui era posato il violino di Palewski. L’altra parete, e le nicchie accanto al camino, erano tappezzate di libri.
Palewski si sporse in avanti e tirò due volte la striscia di stoffa di un campanello. Una linda servetta greca apparve sulla porta e l’ambasciatore le ordinò il tè. La ragazza lo portò su un vassoio e lo serví sul letto indiano davanti al fuoco. Palewski si fregò le mani.
– Tè inglese, – disse. – Keemun con una punta di bergamotto. Latte o limone?
Il tè, il fuoco, e le ricche sonorità dell’orologio tedesco sulla mensola del camino addolcirono l’umore dell’ambasciatore polacco. Anche Yashim si sentí piú rilassato. Nessuno dei due aprí bocca per un bel pezzo.
– L’altro giorno te ne sei uscito con una citazione… a proposito di un esercito che marcia pancia a terra. Di chi era? Di Napoleone?
Palewski annuí con una smorfia. – Tipico di Napoleone. Alla fine le sue truppe hanno marciato con i piedi congelati.
Anche stavolta Yashim si ripromise di sondare l’atteggiamento di Palewski nei confronti di Napoleone. Sembrava un misto di ammirazione e amarezza. Ma invece chiese: – Secondo te c’è qualcosa di significativo nei nomi che i giannizzeri assegnavano ai loro gradi militari?
– Significativo? Si ispiravano alla cucina. Il colonnello veniva chiamato zuppiere, no? Ricordo che c’erano anche altri gradi: sguattero, fornaio, pasticcere. I sergenti maggiori portavano un lungo mestolo di legno come distintivo del loro incarico. Quanto alla truppa, perdere una marmitta del reggimento in battaglia – uno dei grossi calderoni che usavano per preparare il riso pilaf – era l’onta peggiore in assoluto. Si occupavano loro del vettovagliamento. Ma che c’entrano i giannizzeri?
Yashim glielo spiegò. Gli disse del calderone, dell’uomo legato stretto come un arrosto, del mucchio d’ossa e dei cucchiai di legno. Palewski lo lasciò parlare senza interromperlo.
– Scusa Yashim, ma non eri a Istanbul dieci anni fa? La chiamano repressione, vero? Le risate possono essere represse. Le emozioni. Ma qui si parla di carne e ossa. Questa è storia. Tradizione. Repressione? Quel che è capitato ai giannizzeri non è stato neppure un massacro.
Con stupore di Yashim, Palewski balzò in piedi dalla poltrona.
– Io c’ero, Yashim. Non te ne ho mai parlato perché nessuno – neppure tu – avresti voluto saperlo. Non usa fra gli ottomani –. Esitò, con un mesto sorriso. – Te ne ho mai parlato?
Yashim fece di no con la testa. Palewski sollevò il mento.
– 16 giugno 1826. C’era il sole. Ero a Stambul per non so che incarico, non mi ricordo, – cominciò. – E bum!, la città esplode. Un rimbombar di paioli sulla piazza di Etmeidan. Studenti nelle madrase che ronzano come zanzare. Torna indietro, mi dico. Vai al Corno d’Oro, salta su un caicco, pigliati un tè sul prato e attendi notizie.
– Il tè? – obiettò Yashim.
– È un modo di dire. Un po’ come il prato. Ma fa niente: non ci sono riuscito. Il Corno d’Oro. Silenzio. Vedo i caicchi, tirati in secco dal lato di Pera. Comincio a sbracciarmi come un matto sul pontile, ma niente, non s’è accostata anima viva per traghettarmi dall’altra parte. Sul serio Yashim, mi si sono drizzati i capelli dietro la nuca. Mi sono sentito come se mi avessero messo in quarantena.
– Una mezza idea di quello che bolliva in pentola ce l’avevo. Ho pensato a certi pascià di mia conoscenza, ma poi mi sono detto, di grattacapi ne avranno già abbastanza, senza bisogno di accollarsi pure il sottoscritto. A dire la verità, non mi pareva proprio il caso di barricarsi nella magione di qualche pezzo grosso nel momento di crisi, che tutti sapevamo imminente. Indovina un po’ dove sono andato, invece.
Yashim aggrottò la fronte. Lo so benissimo, amico mio, ma non voglio rovinarti la battuta. – In una taverna greca? Una moschea? Mah.
– Dal sultano, sono andato. L’ho trovato al Serraglio, al chiosco della Circoncisione: era appena giunto sul Bosforo da Besiktas. Insieme a vari comandanti. E al gran muftí –. Palewski guardò intensamente Yashim. – Non parlarmi di repressione. Io c’ero. «Vittoria o morte!» hanno urlato i pascià. Mahmut ha preso il sacro vessillo del Profeta fra le mani. «O vinciamo oggi, – ha detto, – o Istanbul sarà ridotta a un cumulo di macerie su cui passeggeranno i gatti». Lo dico per la Casa di Osman: ci avranno messo anche duecentocinquanta anni a decidersi, ma una volta deciso, non sono piú tornati indietro.
– Gli studenti si sono riversati in massa nel grande cortile di Topkapi. Hanno ricevuto le armi e portato il sacro vessillo alla moschea del sultano Ahmet, tutto quel versante della città era nostro, intorno all’Ippodromo, Aya Sofya e il palazzo. I ribelli erano in fondo alla strada vicino alla caserma, intorno alla moschea di Beyazit e piú giú, verso il mercato delle pulci, che è sempre stato una roccaforte dei giannizzeri. Le truppe del sultano sono partite all’attacco da lí. Con la mitraglia. Come Napoleone alle Tuileries. Con una raffica di mitraglia.
– Solo due cannoni, ma comandati da un tizio che chiamavano Ibrahim. L’Infernale Ibrahim. I giannizzeri si sono rifugiati in caserma e hanno cominciato a barricare gli ingressi con le pietre, senza curarsi dei compagni rimasti indietro per le strade. Anche quando l’artiglieria li ha circondati, hanno rifiutato di trattare la resa. Si sono limitati ad asserragliarsi dietro la Grande Porta, a quanto pare. La prima cannonata che l’ha sfondata ne ha uccisi una caterva, seduta stante.
– Abbiamo visto le fiamme, Yash. Bruciare tutti i giannizzeri – o quasi. È stato come disfare un pagliaio, uccidere i topi mentre scappano fuori. I prigionieri vennero mandati nella moschea del sultano Ahmet, ma quelli che furono strangolati sul posto vennero scaricati sotto l’albero dei giannizzeri, c’erano una mezza dozzina di cadaveri all’imbrunire. Il giorno dopo all’Ippodromo c’era una montagna di corpi.
– Mi ha sempre dato la nausea, quell’albero. Se penso a quei poveracci appesi ai rami, come frutti. E i cadaveri dei giannizzeri ammucchiati addosso al tronco. Sarà intriso di sangue, Yash. Fino alle radici.
– Però è quello che ho visto, e che ti dico adesso. Ho conosciuto i pogrom e le stragi. Ho visto di peggio, francamente, della fine che hanno fatto i giannizzeri. Donne e bambini… le ho viste certe cose. I giannizzeri erano uomini, e in un certo senso se lo meritavano, poveri sciocchi, per ciò che avevano fatto, e per ciò che altri prima di loro avevano fatto e facevano da tempo immemore. Sapevano in quale giro erano entrati. Stavano uccidendo l’impero lentamente, figurati se non sapevano che un giorno sarebbe arrivata la resa dei conti.
– Forse non si aspettavano che arrivasse in quel modo, cosí totale, senza appello. Non è stato «la festa è finita, siete pregati di deporre le sciabole sul bancone all’uscita», no? Li hanno sterminati, Yash. Diecimila morti? Li hanno stanati col fuoco dalla Foresta di Belgrado. Sono andati a snidarli nelle città di provincia. I cavalieri tartari, volati per tutto l’impero a spargere la notizia. Il Fausto Evento, non è cosí che l’hanno ribattezzato? I giannizzeri non vengono citati nemmeno sul loro certificato di morte. Sono spariti, senza lasciare traccia, per giunta.
– Sai, qualche settimana dopo, ho visto il sultano con un boia, in un cimitero fra i cipressi. Dei loro antichi defunti. I fedeli e coraggiosi, i disonesti e i corrotti. Il boia decapitava ogni lapide, con una pesante spada.
Yashim alzò un dito.
– Ne è rimasta una. A Uskudar, con la manica incisa nella pietra.
Palewski lo zittí con la mano.
– Ne resta sempre una. E forse anche a decine. Cosa vuoi che importi. L’impero ottomano continua a esistere, ma sta cambiando proprio sotto i nostri occhi. Tutto quel che c’era di strano e magnifico nel tuo popolo, Yash, tutto quello che ha tenuto in vita questo mondo per secoli, sta sprofondando sotto i nostri piedi perché i giannizzeri non ci sono piú. Erano il fondamento dell’impero, capisci? Ogni giorno Istanbul deve assistere a spettacoli che farebbero piangere i tuoi avi. Il sultano a cavallo di una sella europea. L’esercito che viene addestrato come le truppe napoleoniche. I cristiani che aprono spacci di alcolici a Pera, uomini in fez anziché in turbante, e chi piú ne ha piú ne metta. E poi: i giannizzeri erano dei bastardi ladri, prepotenti e gretti, ma anche poeti e artigiani sopraffini. E tutti erano accomunati dalla stessa cultura. Qualcosa di piú grande di loro, piú grande della loro avidità e dei loro difetti.
– Se mi dispiace per loro? No. Ma li rimpiango, Yashim. Sono il solo in questa città, ma li rimpiango perché incarnavano l’anima di questo impero, nel bene e nel male. Con loro, gli ottomani erano unici. Orgogliosi, strani e, in un certo senso, liberi. I giannizzeri ricordavano loro chi erano e cosa volevano essere. Senza di loro? Sono molto normali, temo. Anche troppo: hanno addirittura cancellato il ricordo dei giannizzeri. E l’impero, secondo me, non potrà andare avanti a lungo con questa normalità. È troppo inconsistente, troppo fragile, senza memoria. La capacità di ricordare: ecco qual è l’essenza di un popolo. Vale anche per noi polacchi, – aggiunse, rabbuiandosi di colpo.
Sedette solennemente su una poltrona e rimase in silenzio, meditando con una mano sugli occhi. Yashim assaggiò il tè, scoprí che si era raffreddato e lo bevve fino all’ultima goccia.
– Scusa, – disse. – Non avrei dovuto scocciarti con questa storia.
Palewski sollevò lentamente il capo. – Figurati, Yashim. Scocciami pure quanto vuoi. Sono solo l’ambasciatore, cosa vuoi che ne sappia?
Yashim fu preso da una voglia infantile di alzarsi e andare via. – Mi stavo chiedendo delle ossa, – disse, – perché erano pulitissime. Quanti giorni hanno avuto? Sei. Come fai a spolpare un uomo in cosí poco tempo?
– Be’, – mormorò Palewski, un tantino nauseato. – Lo metti a bollire.
– Mmm. Tutto intero, per giunta, dentro un’enorme marmitta. Non ci sono segni di taglio sulle ossa.
Palewski versò un altro po’ di tè. Yashim si accorse che gli tremava la mano.
– Pensa all’odore, – stava dicendo. – Ti pare che qualcuno non ci ha fatto caso?
– Yashim, amico mio, – protestò Palewski. – Esistono degli aspetti di questo mistero che non siano legati alla cucina? Credo che dovremo sospendere i nostri giovedí sera finché questa faccenda non sarà chiarita. Temo proprio che non faccia per me.
Yashim parve non aver sentito.
– E i posti dove vengon trovati i corpi, è come se stessero segnalando il loro raggio d’azione: prima alle nuove stalle sopra Aksaray, poi giú a Galata sull’altra riva del Corno d’Oro, vicino alla Moschea della Vittoria. E infine oggi, ne abbiamo trovato uno proprio davanti all’ingresso del Bazar. Cadaveri che spuntano dal nulla… e ne deve arrivare ancora uno, – aggiunse. – Sempre se non facciamo prima noi.
– Potresti riuscirci solo se… insomma… se esistesse uno schema di qualche tipo. Se ognuno di questi posti, per quanto distanti fra loro, tornassero in qualche modo comodi all’assassino. Consegnare cadaveri per tutta la città, addirittura a Galata, costa molta piú fatica che lasciarli venire a galla nel Bosforo.
Yashim alzò gli occhi e annuí. – Ma per qualche ragione gli assassini pensano che valga la pena di affrontare qualche fatica in piú.
– Uno schema, Yashim. Devi procurarti una cartina decente e rilevare i punti.
– Una cartina decente, – ripeté Yashim senza entusiasmo. Erano anni che qualcuno non provava a realizzare una buona cartina di Istanbul.
Palewski lo sapeva bene quanto lui. – D’accordo, cos’altro hai?
– Una poesia sufi, ma fors...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'albero dei giannizzeri
  3. I.
  4. II.
  5. III.
  6. IV.
  7. V.
  8. VI.
  9. VII.
  10. VIII.
  11. IX.
  12. X.
  13. XI.
  14. XII.
  15. XIII.
  16. XIV.
  17. XV.
  18. XVI.
  19. XVII.
  20. XVIII.
  21. XIX.
  22. XX.
  23. XXI.
  24. XXII.
  25. XXIII.
  26. XXIV.
  27. XXV.
  28. XXVI.
  29. XXVII.
  30. XXVIII.
  31. XXIX.
  32. XXX.
  33. XXXI.
  34. XXXI.
  35. XXXII.
  36. XXXIV.
  37. XXXV.
  38. XXXVI.
  39. XXXVII.
  40. XXXVIII.
  41. XXXIX.
  42. XL.
  43. XLI.
  44. XLII.
  45. XLIII.
  46. XLIV.
  47. XLV.
  48. XLVI.
  49. XLVII.
  50. XLVIII.
  51. XLIX.
  52. L.
  53. LI.
  54. LII.
  55. LIII.
  56. LIV.
  57. LV.
  58. LVI.
  59. LVII.
  60. LVIII.
  61. LIX.
  62. LX.
  63. LXI.
  64. LXII.
  65. LXIII.
  66. LXIV.
  67. LXV.
  68. LXVI.
  69. LXVII.
  70. LXVIII.
  71. LXIX.
  72. LXX.
  73. LXXI.
  74. LXXII.
  75. LXXIII.
  76. LXXIV.
  77. LXXV.
  78. LXXVI.
  79. LXXVII.
  80. LXXVIII.
  81. LXXIX.
  82. LXXX.
  83. LXXXI.
  84. LXXXII.
  85. LXXXIII.
  86. LXXXIV.
  87. LXXXV.
  88. LXXXVI.
  89. LXXXVII.
  90. LXXXVIII.
  91. LXXXIX.
  92. XC.
  93. XCI.
  94. XCII.
  95. XCIII.
  96. XCIV.
  97. XCV.
  98. XCVI.
  99. XCVII.
  100. XCVIII.
  101. XCIX.
  102. C.
  103. CI.
  104. CII.
  105. CIII.
  106. CIV.
  107. CV.
  108. CVI.
  109. CVII.
  110. CVIII.
  111. CIX.
  112. CX.
  113. CXI.
  114. CXII.
  115. CXIII.
  116. CXIV.
  117. CXV.
  118. CXVI.
  119. CXVII.
  120. CXVIII.
  121. CXIX.
  122. CXX.
  123. CXXI
  124. CXXII.
  125. CXXIII.
  126. CXXIV.
  127. CXXV.
  128. CXXVI
  129. CXXVII.
  130. CXXVIII.
  131. CXXIX
  132. CXXX.
  133. CXXXI.
  134. CXXXII.
  135. Ringraziamenti
  136. Il libro
  137. L’autore
  138. Dello stesso autore
  139. Copyright