«Per speculum et in aenigmate».
Riassumendo le discussioni sul significato del simbolo che accompagnarono la redazione del Dizionario filosofico di André Lalande1, Umberto Eco osserva che non ci furono conclusioni: «la conclusione indiretta a cui Lalande invita è che il simbolo è troppe cose, e nessuna. Insomma, non si sa che cosa sia»2. Se così è, questa è la condizione migliore per non preoccuparsi troppo di ortodossia semiologica, alla quale, del resto, i simboli politici sembrano interessare poco o punto3. Siamo sufficientemente liberi di parlare di simboli come ci pare meglio, in vista dei propositi che muovono la riflessione (i propositi enunciati poche pagine più su).
La discussione sul “simbolico” e sulla nostra condizione di “esseri simbolici” – cioè di esseri che non si fermano di fronte a ciò che appare ai sensi, ma sono costantemente indotti dalla loro stessa indole a “guardare attraverso” per vedere al di là – può procedere da quanto dice Paolo di Tarso (1 Corinzi 13,12): «Ora noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia»4. Si presuppone così che ci sia una realtà al di là di quella di cui noi facciamo esperienza diretta, con i sensi e con la conoscenza speculativa; che ciò che entra in questa nostra esperienza diretta non sia quella realtà, ma una sua immagine imperfetta, confusa; che gli oggetti che conosciamo direttamente possano essere intesi come segni di qualche cosa d’altro, come allusioni il cui significato rinvia a qualcosa che noi non possiamo constatare, ma solo intuire.
Paolo contrapponeva un “ora” dell’imperfezione, l’ora delle realtà di quaggiù, a un “allora” della perfezione, l’ora delle realtà di lassù. Rinviava a quell’ora l’appagamento del desiderio di conoscenza piena, attraverso la contemplazione immediata della verità e il dissolvimento d’ogni mistero. «Quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà» (13,10); così anche «la conoscenza svanirà» (γνῶσις καταργηθήσεται) (13,8), perché non ce ne sarà più bisogno.
I passi menzionati sono ricchi di contenuto. Non soltanto interessano la teologia e la scienza del divino. In generale, dicono che la conoscenza, quando esiste, è imperfetta e che, quando fosse perfetta, non esisterebbe più perché si muterebbe in immedesimazione. In breve, dicono che, nell’ora di quaggiù, se desideriamo conoscere, dobbiamo sapere che non conosceremo mai perfettamente. In secondo luogo, dicono che, al di là delle cose sperimentali e razionali (le cose di quaggiù, dunque fonti di conoscenza imperfetta), ci sono cose ulteriori alle quali aspiriamo accedere, che sfuggono all’esperimento e al ragionamento, cioè alla conoscenza diretta. In terzo luogo, che le cose di quaggiù non sono divise da quelle di lassù, come da una parete impenetrabile, ma le prime possono darci un’immagine, sia pure imprecisa e sfocata, delle seconde. Questi tre punti caratterizzano profondamente e universalmente il nostro modo di pensare, in quanto ci si faccia condurre dall’idea che esistono realtà che sono tali, pur se sfuggono all’osservazione empirica e all’argomentazione razionale, al calcolo e all’esperimento, ma che non per questo appartengono a un mondo di totale incomunicabilità e inconoscibilità.
Il segno simbolico, speculum e aenigma, non è un semplice segnale, come un’indicazione stradale, o un mezzo identificativo, come un “logo”, o una sostituzione linguistica come i “codici” o le “sigle” che si usano al posto di altri segni, per tenere nascosto ai più e confondere (i codici segreti) o per semplificare (le abbreviazioni, gli acronimi, i “simboli” della logica simbolica, le formule della matematica, della geometria, della chimica, ecc.). Il simbolo di cui qui parliamo è un “luogo di rinvio” che presuppone un doppio strato di realtà: quello che sta al di là dell’esperienza fattuale e logico-dimostrativa e che ci è come nascosto da un velo, e quello che il velo stesso ci mostra, nell’approssimazione e nel doppio gioco dello scoprimento e del nascondimento. Attraversando il segno simbolico, si dischiude una dimensione supra-sensibile e supra-razionale dove gli esseri umani incontrano un mondo che è per loro realtà, come il divino e il diabolico, l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, l’infinitamente alto o l’infinitamente profondo, la giustizia e l’ingiustizia, l’ordine e il caos, il potere e l’arbitrio, l’amore e l’odio, l’unione e la divisione, il puro e l’impuro, la riscossa e la rassegnazione, la pace e la guerra: realtà anch’esse, per chi le percepisce, le desidera o le teme, pur se appartenenti a un altro “ordine di realtà” rispetto a quelle empiriche e razionali.
Potremmo dire: il mondo delle realtà immateriali; immateriali ma, per chi le contempla, non meno reali di quelle materiali. Un’immagine che forse rende bene la funzione del simbolo, nel mettere in rapporto il soggetto e l’oggetto, è quella del cristallo opaco e deformante: chi sta al di qua vede attraverso, ma in un modo impreciso che sollecita la sua immaginazione e le sue congetture su ciò che davvero sta di là; a sua volta, ciò che sta di là si manifesta a chi sta di qua in modo da sollecitare la sua immaginazione e le sue congetture che, a loro volta, cercheranno conferme o smentite trapassando di nuovo dall’altra parte: conferme e smentite né sperimentali né puramente razionali, per la semplice ragione che ciò che sta di là non è afferrabile pienamente né con l’esperimento, né con il ragionamento e le sue regole. In una parola, i simboli sono dispositivi eminentemente ermeneutici. Essi sono il punto d’incontro d’un andare e venire. È un andare dalle esperienze fondate sulle nostre sensazioni fisiche e sulle attività razionali a una realtà metafisica. Questa poi rifluisce su di noi che, sempre di nuovo, ci interroghiamo circa il suo significato appena intravisto.
Si potrebbe pensare, in termini platonici, che i segni percettibili siano come le ombre di quella realtà che sta al di là e che si potrebbe vedere illuminata a giorno solo uscendo dalla caverna5? Non precisamente. I segni simbolici non sono ombre della realtà soprasensibile e soprarazionale. Non ne portano affatto necessariamente le tracce; non ne contengono una certa, limitata, quantità come si dice, per esempio, d’una bella donna in carne e ossa, che ci introduce all’idea della bellezza muliebre, se solo siamo capaci di passare dal relativo all’assoluto. Il segno simbolico non è una rappresentazione parziale; è cosa diversa: ha un primo e immediato significato ma noi, partendo da lì, possiamo compiere un viaggio mentale che ci conduce a un risultato che non ha alcun rapporto con la materialità da cui siamo partiti.
Ogni cosa, un simbolo?
Dobbiamo pensare che vi siano cose dotate di capacità simboliche e altre no? Qualunque cosa può essere simbolo? È una ricerca senza confini, dagli esiti sorprendenti: organismi animali e vegetali, astri, figure geometriche e strutture volumetriche, numeri, fenomeni naturali d’ogni genere, sostanze fisiche (l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra), lettere e fonemi sono stati assunti, nel corso dei millenni, nelle diverse civiltà, come segni per alludere a realtà profonde, che non si lasciano descrivere e circoscrivere immediatamente, ovviamente, completamente e che pure rappresentano, per così dire, orizzonti di senso entro i quali si colloca l’esistenza degli umani. Se volessimo tentare qualche classificazione che dia ordine a questo immenso ed eterogeneo materiale, potremmo, per esempio, distinguere i simboli a seconda che concernano l’armonia universale e la segreta intesa che l’essere umano intrattiene con la natura; la sovranità divina sul mondo instaurata dalle religioni monoteiste e il conseguente “timor di Dio”; la trasposizione dei segni della sovranità divina nella sfera della sovranità politica, del principe e dello Stato; la rappresentazione simbolica dei miti moderni, come quelli della scienza, del progresso, della velocità, del benessere, dello sviluppo economico. Ma non è questo l’intento di queste pagine. Basta segnalare il carattere non episodico e non casuale dell’esperienza simbolica e il suo carattere organicamente collegato alla rappresentazione che la civiltà umana, nelle sue diverse fasi di sviluppo, fa di se stessa.
Il pensare simbolico raggiunge la sua massima estensione quando il mondo intero è concepito come simbolo, attraverso il quale, per gradi successivi di conoscenza iniziatica, si può approdare, per quanto è possibile, a sollevare il velo sul “principio del mondo”. Attraverso il simbolo, si può percorrere il cammino inverso della creazione, da ciò che è “principiato” e che è sotto i nostri occhi a ciò che è “principiante” e che è nascosto ai nostri occhi: nel pensiero religioso, dalle creature al creatore. Nella spiritualità qabbalista, perfino le lettere dell’alfabeto sono l’oggetto della contemplazione divina e tale è la loro forza significante che la stessa «alchimia delle lettere»6 coincide con la creazione del mondo, da cui derivano le creature.
Per quanto attraverso i simboli si creda possibile accedere a una realtà oggettiva più profonda di quella che appare, siamo pienamente nel regno del soggettivo: qualunque dato esteriore può essere, per così dire, sublimato in segno, cioè caricato di significati. I simboli sono tanti quanti noi crediamo o vogliamo che siano. Per chi pensa per speculum et in aenigmate, ogni dato sensibile può dirigere verso l’ultra-sensibile. L’elenco delle realtà che hanno assunto valore di segno simbolico, nelle diverse culture e spesso trasversalmente tra loro, è, come s’è detto, sterminato. Perfino il mondo intero. Quando si pensa che ciò che vediamo è apparenza e che dietro le apparenze ci sono realtà nascoste, qualunque cosa può essere presa per indizio, per sintomo, e può metterci sulla strada della percezione di quel che esiste celato oltre le apparenze. Sempre, in questi casi, un dato – cosa, segno, disegno, avvenimento – può essere l’inizio di percorsi che, dalla materialità, attraverso evocazioni, proiezioni, intuizioni, collegamenti, analogie soggettive, ci conducono all’immaterialità. Il veggente è l’esperto in questi percorsi.
Comprendiamo allora perché su questo dualismo tra l’ente e il suo segno si basano le esperienze mistiche, le religioni misteriche, l’esoterismo di ogni genere. Ma comprendiamo anche perché, essendo quella realtà ultima sottratta alla percezione precisa, incontrovertibile, sperimentale, ed essendo totalmente assente qualsiasi protocollo metodologico per raggiungere “correttamente” la meta cui il simbolo ci invita, chiunque avverta la tensione tra ciò che vediamo e ciò che intuiamo è nelle condizioni di arrivarci come vuole. Può muovere le sue facoltà intellettive e quelle sensitive; le prime con tutte le sottigliezze e l’inventiva di cui l’intelletto è capace; le seconde attraverso la stimolazione dei sensi di cui è capace l’ozio, la musica, la danza, il rito, la liturgia, l’hascisc7.
Il segno simbolico, rinviando a qualcosa che è al di là della sua materialità, non è né vero né falso, nel senso delle scienze esatte. Si sottrae a qualunque prova di verità o di verificazione. Se diciamo: «è realmente un simbolo» (v. infra, p. 39), non vogliamo dire altro che “funziona” effettivamente come simbolo; che possiamo “farne” un simbolo; che è un simbolo secondo la nostra esperienza. Non che “è” un simbolo. Per questo, nella distanza che separa il “qui e ora” del segno dal “non ancora qui e ora” del segnato che ci s’accinge a decifrare s’apre lo spazio vertiginoso per la libera intuizione, per l’immaginazione poetica, per l’esperienza estetica, per l’estasi mistica, per il contatto con dio o con la natura, per l’immedesimazione esistenziale dell’individuo nel tutto, e quindi per il suo annichilimento nella percezione della propria nullità, ovvero per la sua assolutizzazione attraverso il trascendimento di sé nell’universale. Nulla è deciso a priori. Tutto è indefinitamente possibile.
Dal segno al simbolo.
Il rapporto tra il segno simbolico e il contenuto di significato è dunque innanzitutto soggettivo. Per me, questo significa quello – per te, quell’altro; questa è una pipa – no, questa non è una pipa: che cosa sia, ognuno può dirlo per sé. Il serpente boa che inghiotte un elefante, secondo il Piccolo principe, per “i grandi” è un cappello. Il movimento artistico che si chiama “simbolismo” è la rottura d’ogni rapporto convenzionale della parola con la cosa, affinché la parola, e in generale il segno, possano essere il veicolo su cui chiunque può salire per farsi trasportare ovunque lo conduca la sua capacità immaginifica, sregolata, liberamente alimentata da spiritualità e sensualità e capace di sfruttare corrispondenze soggettivamente percepite8. Fin qui, l’esperienza simbolica è essenzialmente soggettiva.
Ma il simbolo può diventare oggettivo, quando i suoi significati sono codificati in una norma significante generalmente accettata o subita. Ecco come, dunque, il segno assume il valore di simbolo nell’esperienza comune. Il passaggio attraverso il quale dal segno inteso singolarmente si passa alla medesima percezione di ciò a cui esso allude da parte di due persone, di più persone, di tutte le persone, quello è il momento in cui il segno diventa veramente simbolo, come fatto psichico di natura sociale. L’esperienza individuale di significato è trascesa in un’esperienza collettiva che supera gli individui come tali e li lega in un rapporto di per sé invisibile, ma reso visibile nel segno simbolico. Il simbolo...