Il cacciatore di teste
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Il cacciatore di teste

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Il cacciatore di teste

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A Roger Brown non manca nulla. Ha un lavoro rispettabile come cacciatore di teste per le grandi multinazionali e un hobby segreto, i furti d'arte, grazie ai quali foraggia lo spropositato stile di vita che conduce.
E non appena gli viene presentato Clas Greve, proprietario di un meraviglioso Peter Paul Rubens, un dipinto andato disperso durante la Seconda guerra mondiale, comincia immediatamente ad accarezzare l'idea del colpo.
Ma niente in questa storia va mai come previsto. E nell'appartamento di Greve, Roger Brown trova sí il prezioso Rubens, ma anche qualcosa che non cercava affatto. E ben presto appare evidente che lo scaltro cacciatore di teste altro non è che una povera preda... *** «Un libro che dovete leggere assolutamente. A confronto, Ellroy sembra un boy-scout ed Ellis uno scolaretto». Helsingin Sanomat

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408155
Parte terza

La seconda intervista

Capitolo 9
La seconda intervista

Mio padre, Ian Brown, amava moltissimo giocare a scacchi anche se non era particolarmente bravo. A cinque anni aveva imparato da suo padre, letto libri sull’argomento e studiato le partite piú celebri. Tuttavia non mi aveva insegnato a giocare prima dei quattordici anni, età in cui i ragazzini non apprendono piú con la stessa facilità di quando sono piccoli. Ma avevo comunque un certo talento, e a sedici anni lo battei per la prima volta. Sorrise come se fosse orgoglioso di me, ma sapevo che gli bruciava. Ridispose le pedine sulla scacchiera e mi chiese la rivincita. Giocavo come al solito con i bianchi; cercava di farmi credere che in questo modo mi stesse offrendo un vantaggio. Dopo alcune mosse si scusò e andò in cucina, dove, ne sono certo, bevve un sorso di gin. Quando ritornò, avevo cambiato posto a due pedine, ma lui non se ne accorse. Dopo quattro mosse fissò a bocca aperta la mia regina bianca davanti al suo re nero. E si rese conto che stavo per dargli scacco matto. Aveva un’aria cosí buffa che non potei fare a meno di ridere. E lessi nella sua espressione che aveva capito cos’era successo. Si alzò di colpo e rovesciò a terra tutti gli scacchi. Poi mi colpí. Le ginocchia mi cedettero e caddi, piú per lo spavento che per la violenza dello schiaffo. Non mi aveva mai picchiato prima di allora.
– Hai spostato le pedine, – sibilò. – Mio figlio non bara.
Sentii il sapore del sangue in bocca. La regina bianca era finita sul pavimento proprio davanti a me. La corona si era scheggiata. L’odio mi bruciava in gola e nel petto come un fuoco. Raccolsi la regina rovinata e la rimisi sulla scacchiera. Poi risistemai anche le altre pedine. Una dopo l’altra. Al medesimo posto.
– Tocca a te, papà.
Perché è cosí che il giocatore lucido, malgrado l’odio, si comporta nonostante abbia visto sfumare la vittoria e sia stato colpito di sorpresa dall’avversario che gli ha fatto male ed è riuscito a spaventarlo. Non perde il controllo del gioco, non dà a vedere di essere terrorizzato e si attiene al suo piano. Respira, ricostruisce, continua il gioco, incassa la vittoria. Si alza senza gesti trionfalistici.
Sedevo all’altro capo del tavolo e vedevo la bocca di Clas Greve muoversi. Vedevo le sue guance tendersi, rilassarsi e formare parole evidentemente comprensibili a Ferdinand e ai due rappresentanti di Pathfinder, tutti e tre visibilmente soddisfatti. Come odiavo quella bocca. Odiavo le gengive grigio-rosee, i denti simili a pietre tombali, persino la forma rivoltante di quell’orifizio, una fenditura con due angoli all’insú che stavano a indicare un sorriso, lo stesso sorriso scolpito con cui Bjørn Borg aveva affascinato il mondo. E con cui adesso Clas Greve stava seducendo il suo futuro datore di lavoro, Pathfinder. Ma ciò che odiavo di piú erano le sue labbra. Quelle stesse labbra che avevano toccato le labbra di mia moglie, la pelle di mia moglie, con ogni probabilità i suoi capezzoli rosa pallido e di sicuro la sua vagina aperta e bagnata. Mi parve addirittura di scorgere un pelo biondo del pube di Diana in una piega del suo labbro inferiore.
Ormai da oltre mezz’ora ascoltavo in silenzio Ferdinand che, con uno zelo imbecille, spacciava per sue alcune domande idiote tratte dal manuale del perfetto intervistatore.
Clas Greve, all’inizio del colloquio, aveva risposto rivolgendosi a me. Ma dopo un po’ aveva capito che io ero un osservatore passivo, non annunciato, e che il suo compito, quel giorno, era quello di redimere gli altri tre con il Vangelo secondo Greve. Tuttavia, di tanto in tanto, mi aveva lanciato sguardi furtivi e dubbiosi come se sperasse di capire da me qual era il mio ruolo.
Dopo un po’ i due di Pathfinder, il presidente della società e il direttore commerciale, gli avevano posto una serie di domande che ovviamente avevano a che fare con il periodo in cui aveva lavorato a Hote. E Greve aveva spiegato come lui e l’azienda avessero dato un contributo decisivo allo sviluppo di Trace, un liquido o una gelatina simile a una vernice contenente circa cento trasmettitori al millimetro e che poteva essere applicata su qualsiasi oggetto. Il grande pregio di questa vernice opaca era di essere quasi trasparente e, come tutte le vernici, di aderire all’oggetto in modo tale che era impossibile rimuoverla senza utilizzare un raschietto. Il suo limite stava invece nelle dimensioni dei trasmettitori, cosí minuscoli che non riuscivano a inviare segnali abbastanza forti da penetrare attraverso materiali piú spessi dell’aria, come per esempio acqua, ghiaccio, fango o strati molto fitti di polvere come quelli che potevano depositarsi sui veicoli durante le guerre nel deserto.
Per contro capitava raramente che le pareti, anche quelle molto spesse, rappresentassero un problema.
– I soldati ai quali abbiamo applicato Trace sono scomparsi dai nostri sistemi di rilevazione quando erano troppo sporchi, – aggiunse Greve. – Non disponiamo ancora di una tecnologia che ci consenta di inviare segnali abbastanza potenti con questi trasmettitori microscopici.
– Ma l’abbiamo noi di Pathfinder, – annunciò il presidente del consiglio di amministrazione. Era un uomo dai capelli radi, sulla cinquantina, che ogni tanto girava il collo come per paura che gli s’irrigidisse, o come se avesse ingerito qualcosa che non riusciva a inghiottire. Ebbi il sospetto che si trattasse di uno spasmo involontario dovuto a una malattia muscolare dall’esito fatale. – Sfortunatamente, però, non abbiamo la tecnologia Trace.
– Da un punto di vista tecnologico Hote e Pathfinder sarebbero stati una coppia perfetta, – osservò Greve.
– Dio ce ne scampi e liberi, – replicò il presidente con aria risentita. – A Pathfinder sarebbe spettata la parte della moglie casalinga a cui toccano le briciole dello stipendio del marito.
Greve ridacchiò. – Non posso darle torto. Senza contare che per Pathfinder sarebbe piú facile acquisire la tecnologia di Hote che viceversa. Ecco perché ritengo che Pathfinder abbia davanti a sé un’unica via percorribile, ovvero intraprendere il viaggio per conto suo.
Vidi gli esponenti di Pathfinder che si scambiavano un’occhiata.
– Lei ha indubbiamente un curriculum come si deve, Greve, – commentò il presidente, senza notare la rima involontaria. – Ma noi di Pathfinder siamo soprattutto alla ricerca di un amministratore delegato che intenda lavorare in azienda piuttosto a lungo, di un… come lo chiamate voi in gergo?
– Agricoltore, – si affrettò a suggerire Ferdinand.
– Sí, un agricoltore. Mi sembra un’immagine efficace. Una persona in grado di coltivare tutto ciò che già esiste e di svilupparlo e potenziarlo pian piano. Tenace e paziente. E lei ha un curriculum che è… spettacolare e incredibile, ma non sappiamo se possieda quella tenacia e testardaggine di cui deve essere dotato il nostro nuovo amministratore delegato.
Clas Greve aveva ascoltato il presidente di Pathfinder con interesse, quindi annuí.
– Innanzitutto vorrei dirle che condivido il suo punto di vista riguardo alle caratteristiche che dovrà avere il nuovo amministratore delegato di Pathfinder. In secondo luogo non avrei dimostrato interesse per questa posizione se non avessi avuto le qualità necessarie.
– Ritiene quindi di possederle? – chiese cautamente l’altro esponente di Pathfinder, un tipo diplomatico che avevo classificato come direttore commerciale ancor prima che si presentasse. Ne avevo fatti assumere diversi.
Clas Greve sorrise. Un sorriso cordiale, che non solo gli addolciva il viso spigoloso, ma che lo trasformava totalmente. Avevo visto quel trucco già altre volte; con quel sorriso Greve voleva far intuire che, all’occasione, poteva essere anche un adolescente malandrino. Suscitava lo stesso effetto del contatto fisico consigliato da Inbau, Reid e Buckley, il gesto intimo, la dichiarazione di fiducia, l’apertura che precede il mettersi a nudo.
– Lasciate che vi racconti una storia, – esordí. – Riguarda un episodio di cui parlo a fatica perché rivela che non so accettare la sconfitta. Sono una di quelle persone che non sanno perdere nemmeno quando fanno a testa o croce.
Si udirono delle risate soffocate nella stanza.
– Ma spero che vi faccia capire quanto so essere tenace e paziente, – proseguí. – Quando facevo parte delle Bbe mi capitò una volta di dover inseguire in Suriname un corriere della droga, una mezza tacca…
Notai che i due di Pathfinder si sporgevano inconsciamente un po’ piú in avanti. Ferdinand si premurò di versare altro caffè mentre mi rivolgeva un sorriso trionfante.
Vidi la bocca di Clas Greve muoversi. Strisciare in avanti. Posarsi in aree proibite. Aveva gridato? Senz’altro. Diana non riusciva a evitarlo, davvero una preda facile per i suoi piaceri. La prima volta che avevamo fatto l’amore mi aveva ricordato una scultura del Bernini nella cappella Cornaro, L’Estasi di santa Teresa. In parte per via della bocca schiusa, l’espressione appassionata del viso quasi contratta dal dolore, la vena in rilievo, la ruga di concentrazione sulla fronte. E in parte perché gridava, e io ho sempre pensato che la santa carmelitana in estasi scolpita dal Bernini gridi nel momento in cui l’angelo le estrae dal petto la freccia, pronto a scagliarla di nuovo. Almeno cosí l’ho sempre vista io, dentro-fuori-dentro, un’immagine di penetrazione divina, di fornicazione nella sua espressione piú sublime, ma pur sempre di fornicazione. Comunque nemmeno una santa avrebbe potuto gridare come Diana. Il grido di Diana era un godimento doloroso, la punta di una freccia che penetrava nei timpani e faceva venire la pelle d’oca in tutto il corpo. Era un grido lamentoso e insistente, che saliva appena di tono per poi diminuire come il modellino di un aeroplano. Cosí acuto che dopo il primo rapporto sessuale mi ero svegliato col mal d’orecchi e dopo tre settimane di passione avevo iniziato ad accusare i primi sintomi dell’acufene. Nelle orecchie sentivo lo scroscio permanente di una cascata o perlomeno di un ruscello, accompagnato da un fischio che andava e veniva.
Una volta le avevo detto scherzando che ero seriamente preoccupato per il mio udito, ma Diana non aveva colto l’ironia. Anzi, si era spaventata e si era quasi messa a piangere. E quando avevamo fatto di nuovo l’amore, mi aveva messo le sue mani morbide intorno alle orecchie, un gesto che dapprima avevo interpretato come una carezza un po’ insolita. Ma quando poi avevano formato due caldi cappucci protettivi, mi ero reso conto che si trattava di un vero e proprio gesto d’amore. Dal punto di vista uditivo Diana non aveva risolto granché – le sue grida erano comunque penetrate attraverso la mia corteccia cerebrale – ma l’effetto emotivo era stato notevole. Non sono un uomo che piange facilmente, ma nel preciso istante in cui stavo per venire mi ero messo a singhiozzare come un bambino. Probabilmente perché sapevo che nessuno, ma proprio nessuno, mi avrebbe mai amato quanto lei.
In quel momento, mentre osservavo Clas Greve con la consapevolezza che lei aveva gridato anche tra le sue braccia, provai a non pensare alla domanda successiva. Ma proprio come Diana, non riuscii a trattenermi: aveva coperto anche le sue orecchie?
– Il sentiero si snodava perlopiú attraverso una giungla fitta e un terreno paludoso, – proseguí Clas Greve. – Otto ore di marcia al giorno. Ma rimanevamo sempre un po’ indietro, eravamo sempre un po’ in ritardo. Gli altri si diedero per vinti, uno dopo l’altro. Febbre, dissenteria, morsi di serpente, sfinimento. E il tipo, come ho già detto, non era un pezzo grosso dell’organizzazione. La giungla ti fa uscire di testa. Io ero il piú giovane, ma alla fine fui quello a cui venne affidato il comando. E il machete.
Diana e Greve. Quando avevo parcheggiato la Volvo in garage, di ritorno dall’appartamento in Oscars gate, avevo preso in considerazione per un istante l’idea di abbassare i finestrini, lasciare il motore acceso e respirare l’anidride carbonica, il monossido di carbonio o come cazzo si chiama quella roba lí, probabilmente sarebbe stata una morte piacevole.
– Dopo aver seguito le sue tracce per sessantatre giorni, per trecentoventi chilometri, sul peggior terreno che si possa immaginare, il gruppo degli inseguitori si era ridotto a due, ovvero a me e a uno sbarbatello di Groningen troppo stupido per andar fuori di testa. Mi misi in contatto con la sede centrale e mi feci spedire un niether terrier. Conoscete questa razza? Credo di no. È il miglior segugio del mondo. Infinitamente leale, attacca tutto quello che gli si indica a prescindere dalla grandezza. Un amico per la vita. Letteralmente. Un elicottero paracadutò l’animale, un cucciolo di poco piú di un anno, in mezzo alla giungla, nell’enorme distretto del Sipaliwini, dove paracadutano anche la cocaina. Scoprimmo che era stato scaricato a oltre dieci chilometri da dove ci eravamo nascosti. Sarebbe già stato un miracolo se fosse riuscito a trovarci, se fosse sopravvissuto un giorno intero nella giungla. Ci raggiunse in meno di due giorni.
Greve si appoggiò allo schienale della sedia. Ora padroneggiava totalmente la situazione.
– Lo chiamai Sidewinder, come il missile che individua le vittime in base al calore che emanano. Adoravo quel cane. Ecco perché anche adesso possiedo un niether terrier; è il nipote di Sidewinder e sono andato a prenderlo ieri in Olanda.
Quando ero rientrato in casa la sera dopo aver svaligiato l’appartamento di Greve avevo trovato...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il cacciatore di teste
  4. Prologo
  5. Parte prima. La prima intervista
  6. Parte seconda. Accerchiamento
  7. Parte terza. La seconda intervista
  8. Parte quarta. Selezione
  9. Parte quinta. Un mese dopo. L’ultima intervista
  10. Epilogo
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright