Strada a Pera; in fondo la punta del Serraglio.
Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno dâOro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, dâandar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella cittĂ nascosta, oscura, piena di meraviglie, di tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-OsmaniĂŠ e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar.
Partiamo dalla piazza della moschea Sultana Validè.
Qui forse si vorrebbe fermare piĂş dâun lettore goloso per dare unâocchiata al Balik-Bazar, mercato dei pesci, famoso fin dai tempi di quel vecchio Andronico Paleologo, il quale, comâè noto, dal solo prodotto della pesca lungo le mura della cittĂ ricavava di che far fronte alle spese culinarie di tutta la sua corte. La pesca, infatti, è ancora abbondantissima a Costantinopoli, e il Balik-Bazar, nei suoi bei giorni, potrebbe offrire allâautore del Ventre de Paris il soggetto dâuna descrizione pomposa e appetitosa come le grandi mense dei vecchi quadri olandesi. I venditori son quasi tutti turchi, e stanno schierati intorno alla piazza, coi pesci ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o sopra lunghe tavole, intorno a cui si disputano lo spazio una folla di compratori e un esercito di cani. LĂ si ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte piĂş grosse di quelle dei nostri mari; le ostriche dellâisola di Marmara, che i Greci e gli Armeni soli sanno cuocere a punto sulla brace; le palamite e i tonni che son salati quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a salare dai Marsigliesi; le sardelle di cui Costantinopoli provvede lâArcipelago; gli ulufer, i pesci piĂş saporiti del Bosforo, che si pigliano al lume della luna; gli scombri del Mar Nero, che fanno sette invasioni successive nelle acque della cittĂ , levando uno strepito che si sente dalle ville delle due rive; isdaurid colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk, pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari, inseguiti dai delfini e dai falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui strappano la preda dal becco i piombini. Cuochi di pasciĂ , vecchi buongustai musulmani, schiave e giovani di taverna, sâavvicinano alle tavole, guardano i pesci in atto meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra appesa a uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa dâun nemico; a mezzogiorno la piazza è sgombra, e i rivenditori son giĂ sparsi per i caffè vicini, dove stanno fino al cader del sole, sognando ad occhi aperti, colle spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.
Per andare al Gran Bazar, sâinfila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto stretta che le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi per un buon tratto in mezzo a due file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco ÂŤla quarta colonna della tenda della voluttĂ Âť dopo il caffè, lâoppio ed il vino, o ÂŤil quarto sofĂ dei godimentiÂť, anchâesso, come il caffè, fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftĂ, e cagione di torbidi e di supplizi, che lo resero piĂş saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di latakiĂŠ dâAntiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della piĂş fina, di tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore, se il fumo non giungesse alla bocca purificato dallâacqua del narghilè, è chiuso in boccie di vetro come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli esteri e del Seraschierato; alle volte vi dĂ una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttĂ della chiacchera e del fumo.
Andando innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di pampini, e si riesce in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato da una lunga strada diritta e coperta, fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente, di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie. Entrando, si sente un odore dâaromi acutissimo, che quasi ributta indietro. Ă il bazar egiziano dove sono raccolte tutte le derrate dellâIndia, della Siria, dellâEgitto e dellâArrabia, che ridotte poi in essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno a colorar visetti e manine dâodalische, a profumar stanze e bagni e bocche e barbe e pietanze, a rinvigorire PasciĂ sfibrati, ad assopire spose infelici, a istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblĂo nella cittĂ sterminata. Fatti pochi passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante, e si fugge; ma la sensazione di quellâaria calda e grave, e di quei profumi inebbrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto allâaria libera, e rimane poi viva nella memoria come una delle piĂş intime e piĂş significanti impressioni dellâOriente.
Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine rumorose di calderai, a taverne turche, che riempiono la strada di puzzi nauseabondi, a mille botteguccie e nicchiette e buchi oscuri, dove si fabbrica e si vende una minutaglia infinita dâoggetti senza nome, e si arriva finalmente al Grande Bazar.
Ma assai prima dâarrivarci, sâè assaliti e bisogna difendersi.
A cento passi dalla gran porta dâentrata, sono appostati, come bravi, i sensali dei mercanti, e i sensali dei sensali, che alla prima occhiata vâhanno riconosciuto per forestiero, hanno capito che andate al bazar per la prima volta, e indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di rado sbagliano lingua nel dirigervi la parola.
Sâavvicinano col fez in mano e col sorriso sulle labbra e vâoffrono i loro servizi.
Allora segue quasi sempre un dialogo come questo.
â Non compro nulla â rispondete.
â Che importa, signore? Io non voglio che farle vedere il bazar.
â Non voglio vedere il bazar.
â Ma io lâaccompagno gratis.
â Non voglio essere accompagnato gratis.
â Ebbene, non lâaccompagnerò che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione che le sarĂ utile un altro giorno, quando verrĂ per comprare.
â Ma se non voglio neppur sentir discorrere di comprare!
â Parleremo dâaltro, signore. Ă a Costantinopoli da molto tempo? Ă soddisfatto del suo albergo? Ha ottenuto il permesso di visitare le moschee?
â Ma se vi dico che non voglio parlare, che voglio esser solo!
â Ebbene, la lascierò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi.
â Ma perchĂŠ mi volete seguitare?
â Per impedire che la truffino nelle botteghe.
â Ma se non entro nelle botteghe!
â Allora⌠per impedire che le diano noia per la strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato, o lasciarsi accompagnare.
Il grande bazar non ha nulla allâesterno che attiri lâocchio e faccia indovinare il di dentro. Ă un immenso edifizio di pietra, di stile bizantino, di forma irregolare, circondato dâalte mura grigie, e sormontato da centinaia di cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce allâinterno: lâentrata principale è una porta arcata, senza carattere architettonico; dai vicoli intorno non si sente nessun rumore; a quattro passi dalla porta si può credere ancora che dietro quei muri di fortezza non ci sia altro che solitudine e silenzio. Ma appena entrati, si rimane sbalorditi. Non si è dentro a un edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da vĂ´lte arcate e fiancheggiate da pilastri scolpiti e da colonne; in una vera cittĂ , colle sue moschee, colle sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue piazzette, rischiarata da una luce vaga come quella dâuna foresta fitta in cui non penetri un raggio di sole; e percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte metton capo in una strada principale, coperta da una volta ad archi di pietre bianche e nere, e decorata dâarabeschi, come una navata di moschea. In queste strade semioscure, in mezzo alla folla ondeggiante, passano carrozze, cammelli e cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è apostrofati a parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; lâarmeno, altrettanto furbo, ma dâapparenza piĂş modesta sollecita con maniere ossequiose; lâebreo sussurra le sue offerte nellâorecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur! Captan! Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie! Milord! â Ad ogni svolta, per le porte laterali, si vedono fughe dâarcate e di pilastri, lunghi corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di bazar, e per tutto botteghe, merci appese ai muri e alle volte, mercanti affaccendati, facchini carichi, gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo di crocchi rumorosi, un rimescolĂo di gente e di cose, da dare il capogiro.
La confusione, però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una caserma, e bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi, senza bisogno di guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la sua stradetta, il suo corridoio, la sua piazzuola. Sono cento piccoli bazar che mettono lâuno nellâaltro, come le sale di un vastissimo appartamento; ed ogni bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un teatro, nel quale si può veder tutto senza comprar nulla, prendere il caffè, godere il fresco, chiacchierare in dieci lingue e fare agli occhi colle piĂş belle donnine dellâOriente.
Si può prendere un bazar a caso e passarci una mezza giornata senzâaccorgersene: per esempio il bazar delle stoffe e dei vestiti. Ă un emporio di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il cervello e la borsa; e bisogna star in guardia, perchĂŠ il menomo capriccio può aver per conseguenza di farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dellâIndostan, di mussoline del Bengala, di scialli di Madras, di casimir dellâIndia e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di cuscini rabescati dâoro, di veli di seta rigati dâargento, di sciarpe di tocca a righe azzurre e incarnate, leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe dâogni forma e dâogni disegno, in cui il chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori piĂş ribelli alle combinazioni simpatiche, si avvicinano e sâintrecciano con un ardimento e unâarmonia da far rimanere a bocca aperta; di tappeti da tavola dâogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati dâarabeschi, di fiori, di versetti del Corano, di cifre imperiali, che si starebbe un giorno a contemplarli come le pareti dellâAlhambra. Qui si possono ammirare ad una ad una tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove dâun arem, dalle cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che coprono ogni cosa, fino alle camicie di seta, ai fazzoletti ricamati dâoro e alle cinture di raso a cui non può giungere altro sguardo dâuomo che quel del signore e dellâeunuco. Qui i caffettani di velluto rosso, contornati dâermellino e coperti di stelle; i bustini di raso giallo, i calzoncini di seta color di rosa, le sottovesti di damasco bianco tempestate di fiori dâoro, i veli di sposa scintillanti di pagliuole dâargento, i casacchini di terzopelo verde, orlati di piumino di cigno; le vesti greche, armene e circasse, di mille tagli capricciosi, sovraccariche dâornamenti, dure e splendenti come corazze; e in mezzo a tutti questi tesori, le stoffe prosaiche di Francia e dâInghilterra, dai colori sinistri, che ci fanno la figura della nota dâun sarto in mezzo alle pagine dâun poema. Nessuno che ami una donna, può passare in quel bazar senza considerare come una grande sventura di non essere millionario, e senza sentirsi per un momento divampare nellâanima il furore del saccheggio.
Per liberarsi da queste idee, non câè che a svoltare nel bazar delle pipe. Qui lâimmaginazione è ricondotta a desiderii piĂş tranquilli. Sono fasci di cibuk di gelsomino, di ciliegio, dâacero e di rosaio; bocchini dâambra gialla del mar Baltico, levigati e luccicanti come il cristallo, dâinnumerevoli gradazioni di colore e di trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe di Cesarea, colla cannetta fasciata di fili dâoro e di seta; borse da tabacco del Libano, a losanghe di varii colori, rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo di Boemia, dâacciaio e dâargento, di belle forme antiche, damaschinati, niellati, tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di dorature e dâanelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi, che allâavvicinarsi dâogni curioso si dilatano come occhi di civetta, e fanno morir sulle labbra la richiesta del prezzo a chiunque non sia almeno vizir o pasciĂ e non abbia dissanguato per qualche anno una provincia dellâAsia Minore. Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol dare un pegno di gratitudine al gran vizir arrendevole, o lâalto dignitario di Corte che, prendendo possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro, a spendere cinquanta mila lire in una rastrelliera di pipe; o lâambasciatore del Sultano che vuol portare al Monarca europeo un ricordo splendido di Stambul. Il turco modesto dĂ uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per consolarsi, la sentenza del Profeta: â Il fuoco dellâinferno tuonerĂ come il muggito del cammello nel ventre di colui che fuma in una pipa dâoro o dâargento.
Di qui si ricasca fra le tentazioni entrando nel bazar dei profumieri, che è uno dei piĂş schiettamente orientali e dei piĂş cari al Profeta, il quale diceva: ÂŤDonne, bambini e profumiÂť, per dire i suoi tre piĂş dolci piaceri. Qui si trovano le famose pastiglie del Serraglio che profumano i baci, le cassule di gomma odorosa che staccano dal mastico le forti fanciulle di Chio, per mandarla a rafforzar le gengive delle molli musulmane; le essenze squisite di bergamotto e di gelsomino, e quelle potentissime di rosa, chiuse in astucci di velluto ricamato dâoro, dâun prezzo da far rizzare i capelli; qui il collirio per le sopracciglia, lâantimonio per gli occhi, lâhennĂŠ per le unghie, i saponi che ammorbidiscono la cute delle belle siriane, le pillole che fanno cadere i peli dal volto delle maschie circasse, le acque di cedro e dâarancio, i sacchetti di muschio, lâolio di sandalo, lâambra grigia, lâaloĂŠ per profumare le chicchere e le pipe, una miriade di polveri, dâacque e di pomate, distinte con nomi fantastici e destinate ad usi indicibili, che rappresentano ciascuna un capriccio amoroso, un proposito di seduzione, un raffinamento di voluttĂ , e spandono tutte insieme una fragranza acuta e sensuale, che fa veder come in sogno dei grandi occhi languidi e delle manine carezzevoli, e sentire un suono sommesso di respiri e di baci.
Tutte queste fantasie svaniscono entrando nel bazar dei gioiellieri, che è una stradetta oscura e deserta, fiancheggiata da botteguccie dâaspetto meschino, in cui nessuno direbbe mai che sian nascosti, come ci sono, dei tesori favolosi. Le gioie sono chiuse in cofani di legno di quercia, cerchiati e corazzati di ferro, e posti sul davanti delle botteghe, sotto gli occhi dei mercanti: vecchi turchi o vecchi ebrei, dalle lunghe barbe e dallo sguardo acuto, che par che penetri nelle tasche e trapassi i portamonete. Qualcuno sta ritto dinanzi alla sua tana, e quando gli passate accanto, prima vi ficca gli occhi negli occhi, poi con un rapido movimento vi mette sotto il viso un diamante di Golconda o uno zaffiro dâOrmus o un rubino di Giamscid, che al menomo vostro cenno negativo, ritira colla medesima rapiditĂ con cui lâha porto. Altri girano a passi lenti, vi fermano in mezzo alla strada e, dopo aver rivolto intorno uno sguardo sospettoso, tirano fuor del seno un cencio sucido, e lo spiegano, e vi fanno vedere un bel topazio del Brasile o una bella turchina di Macedonia, guardandovi collâocchio di demoni tentatori. Altri non fanno che darvi unâocchiata scrutatrice, e non giudicandovi una faccia da pietre preziose, non si degnano di offrirvi nulla. Nessuno poi fa lâatto dâaprire il cofanetto, se anche aveste la faccia dâun santo o lâaria dâun Creso. Le collane dâopale, i fiori e le stelle di smeraldo, le mezzelune e i diademi contornati di perle dâOfir, i mucchietti abbarbaglianti di acque-di-mare, di crisoberilli, dâavventurine, di agate, di granate, di lapislazzuli, rimangono inesorabilmente nascosti agli occhi dei curiosi senza quattrini, e specialmente a quelli dâuno scrittore italiano. Tuttâal piĂş egli può arrischiarsi a domandare il prezzo di qualche tespĂ, o coroncina dâambra, di sandalo o di corallo, da far scorrere tra le dita, come i turchi, per ingannare il tempo negli intervalli dei suoi lavori forzati.
Per divertirsi bisogna entrare nelle botteghe dei franchi, mercanti di stoffe, dove câè merce per tutte le borse. Appena entrati, si ha intorno un cerchio di gente che non si capisce di dove sia sbucata. Non è mai possibile lâaver che fare con un solo. Tra il mercante, i soci del mercante, i sensali, i manutengoli e i tirapiedi, son sempre una mezza dozzina. Se non vâaccoppa uno, vâimpicca lâaltro: non câè modo di scansare una brutta fine. E non si può dire con che arte, con che pazienza, con che ostinazione, con che diabolici raggiri fanno comprare quello che vogliono. Domandano dâogni cosa un subisso: offrite il terzo: lasciano cader le braccia in segno di profondo scoraggiamento, o si battono la fronte in atto disperato, e non rispondono; oppure si espandono in un torrente di parole appassionate per toccarvi il cuore. Siete un uomo crudele, volete costringerli a chiuder bottega, volete ridurli alla miseria, non avete compassione dei loro figliuoli, non capiscono che cosa possano avervi fatto di male per trattarli in quella maniera. Mentre vi dicono il prezzo dâun oggetto, un sensale dâuna bottega vicina vi susurra nellâorecchio: â Non comprate, vi truffano â. Voi credete che sia sincero, e invece è dâaccordo col mercante; vi dice che vi truffano collo scialle, per guadagnare la vostra fiducia, e farvi rompere il collo un minuto dopo, consigliandovi di comprare il tappeto. Mentre esaminate la stoffa, essi si parlano a gesti, a occhiate, a colpi di gomito, a mezze parole. Se sapete il greco, parlano turco; se sapete il turco, parlano armeno; se sapete lâarmeno, parlano spagnuolo; ma in qualche modo sâintendono e ve lâaccoccano. Se poi tenete duro, vâinsaponano; vi dicono che parlate bene la loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non dimenticheranno mai piĂş la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese, nel quale sono stati molto tempo, perchĂŠ sono stati da per tutto; vi fanno il caffè, vi offrono dâaccompagnarvi alla dogana quando partirete, per impedire che vi facciano dei soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i vostri compagni di viaggio, se ne avete; mettono sottosopra tutta la bottega, e non vi fanno punto il viso arcigno se ve nâandate senza comprare: se non è quel giorno, sarĂ un altro; al bazar ci dovete tornare, i loro cani da caccia vi riconosceranno; se non cadrete nelle loro mani, cadrete in quelle dâun loro socio; se non vi peleranno come mercanti, vi scorticheranno come sensali; se non vi aggiusteranno in bottega, vi serviranno la messa alla dogana; il colpo non può fallire. A che popolo appartengono costoro? Non si capisce. A furia di parlar lingue diverse, han perduto il loro accento primitivo; a forza di far la commedia, hanno alterati i tratti fisionomici della loro razza; son di che paese si vuole, fanno il mestiere che si desidera, sono interpreti, guide, mercanti, usurai; e sopra ogni cosa, artisti insuperabili nellâarte di scroccare lâuniverso.
I mercanti musulmani offrono un campo dâosservazioni affatto diverso. Fra loro si ritrovano ancora quei vecchi turchi, ormai rari per le vie di Costantinopoli, che sono come la personificazione del tempo dei Maometti e dei Baiazet, i resti viventi del vecchio edifizio ottomano, châebbe il primo crollo dalle riforme di Mahmut, e che di giorno in giorno, pietra per pietra, rovina e si trasforma. Bisogna venire nel Gran Bazar e ficcare lo sguardo in fondo alle botteguccie piĂş oscure delle stradette piĂş appartate, per ritrovare i vecchi turbanti enormi dei tempi di Solimano, dalla forma di cupole di moschee; le faccie impassibili, gli occhi di vetro, i nasi adunchi, le lunghe barbe bianche, gli antichi caffettani aranciati e purpurei, i grandi calzoni a mille pieghe stretti intorno alla vita dalle sciarpe smisurate, gli atteggiamenti alteri e tristi dellâantico popolo dominatore, i visi istupiditi dallâoppio o illuminati dal sentimento dâuna fede ardente. Essi son lĂ in fondo alle loro nicchie, colle braccia e colle gambe incrociate, immobili e gravi come idoli, e aspettano, senzâaprir bocca, i compratori predestinati. Se le cose vanno bene, mormorano: â Mach AllĂ ! (Sia lodato Iddio!) â; se vanno male: â Olsun! (CosĂ sia) â, e chinano la testa rassegnati. Alcuni leggono il Corano, altri fanno scorrere fra le dita le pallettine del tespĂ, mormorando sbadatamente i cento epiteti dâAllĂ ; altri che han fatto buoni affari, bevono il loro narghilè, per dirla collâespressione turca, girando intorno lentamente uno sguardo voluttuoso e pieno di sonno; altri stanno curvi, cogli occhi socchiusi e colla fronte corrugata come occupati da un profondo pensiero. A che cosa pensano? Forse ai loro figliuoli morti sotto le mura di Sebastopoli o alle loro carovane disperse o alle loro voluttĂ perdute o ai giardini eterni, promessi dal Profeta, dove allâombra delle palme e dei granati, sposeranno le vergini dagli occhi neri, che nĂŠ uomo nĂŠ genio non ha mai profanate. Tutti hanno qualchecosa di bizzarro, tutti sono pittoreschi; ogni bottega è la cornice dâun quadro pieno di colori e di pensiero, che fa balenare alla mente la storia intera dâuna vita avventurosa e fantastica. Questâuomo secco e abbronzato, dai lineamenti arditi, è un arabo che ha guidato egli stesso dal fondo della sua patria lontana i suoi cammelli carichi di gemme e dâalabastro, e sâè sentito piĂş volte fischiare agli orecchi le palle dei ladroni del deserto. Questâaltro dal turbante giallo e dallâaspetto signorile, ha attraversato a cavallo le solitudini della Siria, portando le sete di Tiro e di Sidone. Questo nero col capo ravvolto in un vecchio scialle di Persia, colla fronte rigata di cicatrici che gli fecero i negromanti per salvarlo dalla morte, che tiene il viso alto, come se guardasse ancora le teste dei colossi di Tebe e le cime delle Piramidi, è venuto dalla Nubia. Questo bel moro dalla faccia pallida e dagli occhi neri, ravvolto in una cappa bianchissima, ha portato i suoi caic e i suoi tappeti dalle ultime falde occidentali della catena dellâAtlante. Que...