Costantinopoli (Einaudi)
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Costantinopoli (Einaudi)

Introduzione di Umberto Eco. A cura di Luca Scarlini

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Costantinopoli (Einaudi)

Introduzione di Umberto Eco. A cura di Luca Scarlini

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Nel 1875 Edmondo De Amicis, allora corrispondente letterario dell'Illustrazione italiana, raccontando il suo viaggio a Costantinopoli fece rivivere la capitale dell'impero ottomano al tramonto. Sultani, eunuchi, concubine, il Topkapi e Santa Sofia, il Gran Bazar e il Corno d' Oro, il ponte di Galata e la moschea di Solimano: i perduti incanti della Città Incomparabile. Il libro, poco noto in Italia, è molto ammirato da chi conosce a fondo la storia di Istanbul. Lo scrittore Jason Goodwin considera De Amicis la sua scoperta piú felice... Il libro su Costantinopoli, tradotto in inglese per la prima volta, è un perfetto tour de force vittoriano. C'è dentro tutto. Questa edizione propone una scelta dell'ampio reportage, arricchita da un apparato illustrativo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408544
Categoria
Viaggi

Il Gran Bazar

Image
Strada a Pera; in fondo la punta del Serraglio.
Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno d’Oro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, d’andar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella città nascosta, oscura, piena di meraviglie, di tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-Osmanié e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar.
Partiamo dalla piazza della moschea Sultana Validè.
Qui forse si vorrebbe fermare piú d’un lettore goloso per dare un’occhiata al Balik-Bazar, mercato dei pesci, famoso fin dai tempi di quel vecchio Andronico Paleologo, il quale, com’è noto, dal solo prodotto della pesca lungo le mura della città ricavava di che far fronte alle spese culinarie di tutta la sua corte. La pesca, infatti, è ancora abbondantissima a Costantinopoli, e il Balik-Bazar, nei suoi bei giorni, potrebbe offrire all’autore del Ventre de Paris il soggetto d’una descrizione pomposa e appetitosa come le grandi mense dei vecchi quadri olandesi. I venditori son quasi tutti turchi, e stanno schierati intorno alla piazza, coi pesci ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o sopra lunghe tavole, intorno a cui si disputano lo spazio una folla di compratori e un esercito di cani. Là si ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte piú grosse di quelle dei nostri mari; le ostriche dell’isola di Marmara, che i Greci e gli Armeni soli sanno cuocere a punto sulla brace; le palamite e i tonni che son salati quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a salare dai Marsigliesi; le sardelle di cui Costantinopoli provvede l’Arcipelago; gli ulufer, i pesci piú saporiti del Bosforo, che si pigliano al lume della luna; gli scombri del Mar Nero, che fanno sette invasioni successive nelle acque della città, levando uno strepito che si sente dalle ville delle due rive; isdaurid colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk, pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari, inseguiti dai delfini e dai falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui strappano la preda dal becco i piombini. Cuochi di pascià, vecchi buongustai musulmani, schiave e giovani di taverna, s’avvicinano alle tavole, guardano i pesci in atto meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra appesa a uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa d’un nemico; a mezzogiorno la piazza è sgombra, e i rivenditori son già sparsi per i caffè vicini, dove stanno fino al cader del sole, sognando ad occhi aperti, colle spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.
Per andare al Gran Bazar, s’infila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto stretta che le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi per un buon tratto in mezzo a due file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco «la quarta colonna della tenda della voluttà» dopo il caffè, l’oppio ed il vino, o «il quarto sofà dei godimenti», anch’esso, come il caffè, fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftí, e cagione di torbidi e di supplizi, che lo resero piú saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di latakié d’Antiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della piú fina, di tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore, se il fumo non giungesse alla bocca purificato dall’acqua del narghilè, è chiuso in boccie di vetro come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli esteri e del Seraschierato; alle volte vi dà una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttà della chiacchera e del fumo.
Andando innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di pampini, e si riesce in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato da una lunga strada diritta e coperta, fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente, di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie. Entrando, si sente un odore d’aromi acutissimo, che quasi ributta indietro. È il bazar egiziano dove sono raccolte tutte le derrate dell’India, della Siria, dell’Egitto e dell’Arrabia, che ridotte poi in essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno a colorar visetti e manine d’odalische, a profumar stanze e bagni e bocche e barbe e pietanze, a rinvigorire Pascià sfibrati, ad assopire spose infelici, a istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblío nella città sterminata. Fatti pochi passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante, e si fugge; ma la sensazione di quell’aria calda e grave, e di quei profumi inebbrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto all’aria libera, e rimane poi viva nella memoria come una delle piú intime e piú significanti impressioni dell’Oriente.
Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine rumorose di calderai, a taverne turche, che riempiono la strada di puzzi nauseabondi, a mille botteguccie e nicchiette e buchi oscuri, dove si fabbrica e si vende una minutaglia infinita d’oggetti senza nome, e si arriva finalmente al Grande Bazar.
Ma assai prima d’arrivarci, s’è assaliti e bisogna difendersi.
A cento passi dalla gran porta d’entrata, sono appostati, come bravi, i sensali dei mercanti, e i sensali dei sensali, che alla prima occhiata v’hanno riconosciuto per forestiero, hanno capito che andate al bazar per la prima volta, e indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di rado sbagliano lingua nel dirigervi la parola.
S’avvicinano col fez in mano e col sorriso sulle labbra e v’offrono i loro servizi.
Allora segue quasi sempre un dialogo come questo.
– Non compro nulla – rispondete.
– Che importa, signore? Io non voglio che farle vedere il bazar.
– Non voglio vedere il bazar.
– Ma io l’accompagno gratis.
– Non voglio essere accompagnato gratis.
– Ebbene, non l’accompagnerò che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione che le sarà utile un altro giorno, quando verrà per comprare.
– Ma se non voglio neppur sentir discorrere di comprare!
– Parleremo d’altro, signore. È a Costantinopoli da molto tempo? È soddisfatto del suo albergo? Ha ottenuto il permesso di visitare le moschee?
– Ma se vi dico che non voglio parlare, che voglio esser solo!
– Ebbene, la lascierò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi.
– Ma perché mi volete seguitare?
– Per impedire che la truffino nelle botteghe.
– Ma se non entro nelle botteghe!
– Allora… per impedire che le diano noia per la strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato, o lasciarsi accompagnare.
Il grande bazar non ha nulla all’esterno che attiri l’occhio e faccia indovinare il di dentro. È un immenso edifizio di pietra, di stile bizantino, di forma irregolare, circondato d’alte mura grigie, e sormontato da centinaia di cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce all’interno: l’entrata principale è una porta arcata, senza carattere architettonico; dai vicoli intorno non si sente nessun rumore; a quattro passi dalla porta si può credere ancora che dietro quei muri di fortezza non ci sia altro che solitudine e silenzio. Ma appena entrati, si rimane sbalorditi. Non si è dentro a un edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da vôlte arcate e fiancheggiate da pilastri scolpiti e da colonne; in una vera città, colle sue moschee, colle sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue piazzette, rischiarata da una luce vaga come quella d’una foresta fitta in cui non penetri un raggio di sole; e percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte metton capo in una strada principale, coperta da una volta ad archi di pietre bianche e nere, e decorata d’arabeschi, come una navata di moschea. In queste strade semioscure, in mezzo alla folla ondeggiante, passano carrozze, cammelli e cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è apostrofati a parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; l’armeno, altrettanto furbo, ma d’apparenza piú modesta sollecita con maniere ossequiose; l’ebreo sussurra le sue offerte nell’orecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur! Captan! Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie! Milord! – Ad ogni svolta, per le porte laterali, si vedono fughe d’arcate e di pilastri, lunghi corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di bazar, e per tutto botteghe, merci appese ai muri e alle volte, mercanti affaccendati, facchini carichi, gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo di crocchi rumorosi, un rimescolío di gente e di cose, da dare il capogiro.
La confusione, però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una caserma, e bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi, senza bisogno di guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la sua stradetta, il suo corridoio, la sua piazzuola. Sono cento piccoli bazar che mettono l’uno nell’altro, come le sale di un vastissimo appartamento; ed ogni bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un teatro, nel quale si può veder tutto senza comprar nulla, prendere il caffè, godere il fresco, chiacchierare in dieci lingue e fare agli occhi colle piú belle donnine dell’Oriente.
Si può prendere un bazar a caso e passarci una mezza giornata senz’accorgersene: per esempio il bazar delle stoffe e dei vestiti. È un emporio di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il cervello e la borsa; e bisogna star in guardia, perché il menomo capriccio può aver per conseguenza di farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dell’Indostan, di mussoline del Bengala, di scialli di Madras, di casimir dell’India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di cuscini rabescati d’oro, di veli di seta rigati d’argento, di sciarpe di tocca a righe azzurre e incarnate, leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe d’ogni forma e d’ogni disegno, in cui il chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori piú ribelli alle combinazioni simpatiche, si avvicinano e s’intrecciano con un ardimento e un’armonia da far rimanere a bocca aperta; di tappeti da tavola d’ogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati d’arabeschi, di fiori, di versetti del Corano, di cifre imperiali, che si starebbe un giorno a contemplarli come le pareti dell’Alhambra. Qui si possono ammirare ad una ad una tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove d’un arem, dalle cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che coprono ogni cosa, fino alle camicie di seta, ai fazzoletti ricamati d’oro e alle cinture di raso a cui non può giungere altro sguardo d’uomo che quel del signore e dell’eunuco. Qui i caffettani di velluto rosso, contornati d’ermellino e coperti di stelle; i bustini di raso giallo, i calzoncini di seta color di rosa, le sottovesti di damasco bianco tempestate di fiori d’oro, i veli di sposa scintillanti di pagliuole d’argento, i casacchini di terzopelo verde, orlati di piumino di cigno; le vesti greche, armene e circasse, di mille tagli capricciosi, sovraccariche d’ornamenti, dure e splendenti come corazze; e in mezzo a tutti questi tesori, le stoffe prosaiche di Francia e d’Inghilterra, dai colori sinistri, che ci fanno la figura della nota d’un sarto in mezzo alle pagine d’un poema. Nessuno che ami una donna, può passare in quel bazar senza considerare come una grande sventura di non essere millionario, e senza sentirsi per un momento divampare nell’anima il furore del saccheggio.
Per liberarsi da queste idee, non c’è che a svoltare nel bazar delle pipe. Qui l’immaginazione è ricondotta a desiderii piú tranquilli. Sono fasci di cibuk di gelsomino, di ciliegio, d’acero e di rosaio; bocchini d’ambra gialla del mar Baltico, levigati e luccicanti come il cristallo, d’innumerevoli gradazioni di colore e di trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe di Cesarea, colla cannetta fasciata di fili d’oro e di seta; borse da tabacco del Libano, a losanghe di varii colori, rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo di Boemia, d’acciaio e d’argento, di belle forme antiche, damaschinati, niellati, tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di dorature e d’anelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi, che all’avvicinarsi d’ogni curioso si dilatano come occhi di civetta, e fanno morir sulle labbra la richiesta del prezzo a chiunque non sia almeno vizir o pascià e non abbia dissanguato per qualche anno una provincia dell’Asia Minore. Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol dare un pegno di gratitudine al gran vizir arrendevole, o l’alto dignitario di Corte che, prendendo possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro, a spendere cinquanta mila lire in una rastrelliera di pipe; o l’ambasciatore del Sultano che vuol portare al Monarca europeo un ricordo splendido di Stambul. Il turco modesto dà uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per consolarsi, la sentenza del Profeta: – Il fuoco dell’inferno tuonerà come il muggito del cammello nel ventre di colui che fuma in una pipa d’oro o d’argento.
Di qui si ricasca fra le tentazioni entrando nel bazar dei profumieri, che è uno dei piú schiettamente orientali e dei piú cari al Profeta, il quale diceva: «Donne, bambini e profumi», per dire i suoi tre piú dolci piaceri. Qui si trovano le famose pastiglie del Serraglio che profumano i baci, le cassule di gomma odorosa che staccano dal mastico le forti fanciulle di Chio, per mandarla a rafforzar le gengive delle molli musulmane; le essenze squisite di bergamotto e di gelsomino, e quelle potentissime di rosa, chiuse in astucci di velluto ricamato d’oro, d’un prezzo da far rizzare i capelli; qui il collirio per le sopracciglia, l’antimonio per gli occhi, l’henné per le unghie, i saponi che ammorbidiscono la cute delle belle siriane, le pillole che fanno cadere i peli dal volto delle maschie circasse, le acque di cedro e d’arancio, i sacchetti di muschio, l’olio di sandalo, l’ambra grigia, l’aloé per profumare le chicchere e le pipe, una miriade di polveri, d’acque e di pomate, distinte con nomi fantastici e destinate ad usi indicibili, che rappresentano ciascuna un capriccio amoroso, un proposito di seduzione, un raffinamento di voluttà, e spandono tutte insieme una fragranza acuta e sensuale, che fa veder come in sogno dei grandi occhi languidi e delle manine carezzevoli, e sentire un suono sommesso di respiri e di baci.
Tutte queste fantasie svaniscono entrando nel bazar dei gioiellieri, che è una stradetta oscura e deserta, fiancheggiata da botteguccie d’aspetto meschino, in cui nessuno direbbe mai che sian nascosti, come ci sono, dei tesori favolosi. Le gioie sono chiuse in cofani di legno di quercia, cerchiati e corazzati di ferro, e posti sul davanti delle botteghe, sotto gli occhi dei mercanti: vecchi turchi o vecchi ebrei, dalle lunghe barbe e dallo sguardo acuto, che par che penetri nelle tasche e trapassi i portamonete. Qualcuno sta ritto dinanzi alla sua tana, e quando gli passate accanto, prima vi ficca gli occhi negli occhi, poi con un rapido movimento vi mette sotto il viso un diamante di Golconda o uno zaffiro d’Ormus o un rubino di Giamscid, che al menomo vostro cenno negativo, ritira colla medesima rapidità con cui l’ha porto. Altri girano a passi lenti, vi fermano in mezzo alla strada e, dopo aver rivolto intorno uno sguardo sospettoso, tirano fuor del seno un cencio sucido, e lo spiegano, e vi fanno vedere un bel topazio del Brasile o una bella turchina di Macedonia, guardandovi coll’occhio di demoni tentatori. Altri non fanno che darvi un’occhiata scrutatrice, e non giudicandovi una faccia da pietre preziose, non si degnano di offrirvi nulla. Nessuno poi fa l’atto d’aprire il cofanetto, se anche aveste la faccia d’un santo o l’aria d’un Creso. Le collane d’opale, i fiori e le stelle di smeraldo, le mezzelune e i diademi contornati di perle d’Ofir, i mucchietti abbarbaglianti di acque-di-mare, di crisoberilli, d’avventurine, di agate, di granate, di lapislazzuli, rimangono inesorabilmente nascosti agli occhi dei curiosi senza quattrini, e specialmente a quelli d’uno scrittore italiano. Tutt’al piú egli può arrischiarsi a domandare il prezzo di qualche tespí, o coroncina d’ambra, di sandalo o di corallo, da far scorrere tra le dita, come i turchi, per ingannare il tempo negli intervalli dei suoi lavori forzati.
Per divertirsi bisogna entrare nelle botteghe dei franchi, mercanti di stoffe, dove c’è merce per tutte le borse. Appena entrati, si ha intorno un cerchio di gente che non si capisce di dove sia sbucata. Non è mai possibile l’aver che fare con un solo. Tra il mercante, i soci del mercante, i sensali, i manutengoli e i tirapiedi, son sempre una mezza dozzina. Se non v’accoppa uno, v’impicca l’altro: non c’è modo di scansare una brutta fine. E non si può dire con che arte, con che pazienza, con che ostinazione, con che diabolici raggiri fanno comprare quello che vogliono. Domandano d’ogni cosa un subisso: offrite il terzo: lasciano cader le braccia in segno di profondo scoraggiamento, o si battono la fronte in atto disperato, e non rispondono; oppure si espandono in un torrente di parole appassionate per toccarvi il cuore. Siete un uomo crudele, volete costringerli a chiuder bottega, volete ridurli alla miseria, non avete compassione dei loro figliuoli, non capiscono che cosa possano avervi fatto di male per trattarli in quella maniera. Mentre vi dicono il prezzo d’un oggetto, un sensale d’una bottega vicina vi susurra nell’orecchio: – Non comprate, vi truffano –. Voi credete che sia sincero, e invece è d’accordo col mercante; vi dice che vi truffano collo scialle, per guadagnare la vostra fiducia, e farvi rompere il collo un minuto dopo, consigliandovi di comprare il tappeto. Mentre esaminate la stoffa, essi si parlano a gesti, a occhiate, a colpi di gomito, a mezze parole. Se sapete il greco, parlano turco; se sapete il turco, parlano armeno; se sapete l’armeno, parlano spagnuolo; ma in qualche modo s’intendono e ve l’accoccano. Se poi tenete duro, v’insaponano; vi dicono che parlate bene la loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non dimenticheranno mai piú la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese, nel quale sono stati molto tempo, perché sono stati da per tutto; vi fanno il caffè, vi offrono d’accompagnarvi alla dogana quando partirete, per impedire che vi facciano dei soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i vostri compagni di viaggio, se ne avete; mettono sottosopra tutta la bottega, e non vi fanno punto il viso arcigno se ve n’andate senza comprare: se non è quel giorno, sarà un altro; al bazar ci dovete tornare, i loro cani da caccia vi riconosceranno; se non cadrete nelle loro mani, cadrete in quelle d’un loro socio; se non vi peleranno come mercanti, vi scorticheranno come sensali; se non vi aggiusteranno in bottega, vi serviranno la messa alla dogana; il colpo non può fallire. A che popolo appartengono costoro? Non si capisce. A furia di parlar lingue diverse, han perduto il loro accento primitivo; a forza di far la commedia, hanno alterati i tratti fisionomici della loro razza; son di che paese si vuole, fanno il mestiere che si desidera, sono interpreti, guide, mercanti, usurai; e sopra ogni cosa, artisti insuperabili nell’arte di scroccare l’universo.
I mercanti musulmani offrono un campo d’osservazioni affatto diverso. Fra loro si ritrovano ancora quei vecchi turchi, ormai rari per le vie di Costantinopoli, che sono come la personificazione del tempo dei Maometti e dei Baiazet, i resti viventi del vecchio edifizio ottomano, ch’ebbe il primo crollo dalle riforme di Mahmut, e che di giorno in giorno, pietra per pietra, rovina e si trasforma. Bisogna venire nel Gran Bazar e ficcare lo sguardo in fondo alle botteguccie piú oscure delle stradette piú appartate, per ritrovare i vecchi turbanti enormi dei tempi di Solimano, dalla forma di cupole di moschee; le faccie impassibili, gli occhi di vetro, i nasi adunchi, le lunghe barbe bianche, gli antichi caffettani aranciati e purpurei, i grandi calzoni a mille pieghe stretti intorno alla vita dalle sciarpe smisurate, gli atteggiamenti alteri e tristi dell’antico popolo dominatore, i visi istupiditi dall’oppio o illuminati dal sentimento d’una fede ardente. Essi son là in fondo alle loro nicchie, colle braccia e colle gambe incrociate, immobili e gravi come idoli, e aspettano, senz’aprir bocca, i compratori predestinati. Se le cose vanno bene, mormorano: – Mach Allà! (Sia lodato Iddio!) –; se vanno male: – Olsun! (Cosí sia) –, e chinano la testa rassegnati. Alcuni leggono il Corano, altri fanno scorrere fra le dita le pallettine del tespí, mormorando sbadatamente i cento epiteti d’Allà; altri che han fatto buoni affari, bevono il loro narghilè, per dirla coll’espressione turca, girando intorno lentamente uno sguardo voluttuoso e pieno di sonno; altri stanno curvi, cogli occhi socchiusi e colla fronte corrugata come occupati da un profondo pensiero. A che cosa pensano? Forse ai loro figliuoli morti sotto le mura di Sebastopoli o alle loro carovane disperse o alle loro voluttà perdute o ai giardini eterni, promessi dal Profeta, dove all’ombra delle palme e dei granati, sposeranno le vergini dagli occhi neri, che né uomo né genio non ha mai profanate. Tutti hanno qualchecosa di bizzarro, tutti sono pittoreschi; ogni bottega è la cornice d’un quadro pieno di colori e di pensiero, che fa balenare alla mente la storia intera d’una vita avventurosa e fantastica. Quest’uomo secco e abbronzato, dai lineamenti arditi, è un arabo che ha guidato egli stesso dal fondo della sua patria lontana i suoi cammelli carichi di gemme e d’alabastro, e s’è sentito piú volte fischiare agli orecchi le palle dei ladroni del deserto. Quest’altro dal turbante giallo e dall’aspetto signorile, ha attraversato a cavallo le solitudini della Siria, portando le sete di Tiro e di Sidone. Questo nero col capo ravvolto in un vecchio scialle di Persia, colla fronte rigata di cicatrici che gli fecero i negromanti per salvarlo dalla morte, che tiene il viso alto, come se guardasse ancora le teste dei colossi di Tebe e le cime delle Piramidi, è venuto dalla Nubia. Questo bel moro dalla faccia pallida e dagli occhi neri, ravvolto in una cappa bianchissima, ha portato i suoi caic e i suoi tappeti dalle ultime falde occidentali della catena dell’Atlante. Que...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Costantinopoli
  3. Istanbul, Una e Trina di Umberto Eco
  4. Costantinopoli: un viaggio per libri e per mare di Luca Scarlini
  5. Bibliografia essenziale
  6. Costantinopoli
  7. L’arrivo
  8. Cinque ore dopo
  9. Il ponte
  10. Gran Bazar
  11. Santa Sofia
  12. Le Turche
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright