Famiglia
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Famiglia

  1. 140 pagine
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Famiglia e Borghesia sono i due capitoli che compongono questo libro della Ginzburg scritto nel 1977, ora riproposto in una nuova edizione. Due storie di smarrimento e di crisi familiare in cui i personaggi che annodano e dipanano i loro destini sembrano trascinati da una casualità capricciosa che inventa incontri sorprendenti, amicizie scontrose, fragili amori, tenaci avversioni. Come avviene nelle sue pagine migliori, Natalia Ginzburg segue gli arabeschi di queste esistenze incrinate con uno stile distillato, in un sommesso ma implacabile controcanto che reinventa la musica banale e terribile della vita. Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa, con antologia critica e cronologia della vita e delle opere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
ISBN
9788858406953

Famiglia

Famiglia

Un uomo e una donna andarono, un pomeriggio, a vedere un film. Era domenica ed era estate. Con loro c’erano una ragazzetta quattordicenne e due bambini sui sette anni. L’uomo era alto, bello, nero di capelli e ricciuto, con il viso grande e bruno, la bocca grande e seria. Aveva occhiali neri e un vestito di tela azzurra molto spiegazzato. La donna era piccola, non bella, con un viso minuto e olivastro, i capelli neri attorcigliati in cima alla testa, il naso lungo e sottile, occhi verdi e sopracciglia folte, spalle spioventi e larghi fianchi. Aveva una gonna di jeans e una maglietta azzurra molto scolorita. Essi erano amici, conoscendosi da molti anni. Un tempo, in giovinezza, erano amanti e vivevano insieme. Ora invece erano solo amici. La ragazzetta era la figlia della donna, e aveva nome Angelica. Era alta, con capelli rosso-fuoco sparsi sulle spalle, una ciocca che le penzolava su un occhio, cosí che si vedeva un solo occhio, giallo-castano, ed era molto lentigginosa. Aveva una gonna a campana verde-erba e una camicetta di seta cruda. Il piú piccolo dei due bambini era il bambino dell’uomo. Aveva nome Piergiorgio, ma veniva chiamato Dodò. Era grasso, con capelli castani lisci e ravviati sulla fronte, occhi rotondi e timidi, e aveva un golf di lana di cammello annodato alla vita. L’altro bambino era magro e di carnagione bruna, con larghi denti bianchi che sporgevano sulle labbra. Aveva nome Daniele ed era il bambino d’una vicina di casa della donna, certa Isa Meli, quel giorno stanca e desiderosa di passare tutto il pomeriggio a dormire. Perché mai quel golf, disse Angelica, indicando il bambino grasso. Essa aveva una voce sottile, severa e giudiziosa. Era sommamente scontenta di uscire con la madre, la domenica pomeriggio, e con quei bambini, e il suo solo occhio era, fra le lentiggini, annoiato e severo. L’uomo le tolse via la ciocca dalla tempia. Per un secondo apparve il secondo occhio, poi la ciocca di nuovo lo nascose. Perché al cinema, disse l’uomo, quando c’è l’aria condizionata, può fare freddo come al Polo Nord.
Il film era a colori ed era intitolato Baratro. Dei miliardari in una villa molto bianca su una spiaggia solitaria, bevevano bibite, nuotavano, prendevano il sole, e si contendevano un patrimonio. L’uomo e la donna non seguivano la trama, e pensavano ciascuno ai casi propri. L’uomo pensava a una lettera che gli aveva scritto sua moglie il giorno prima, da Venezia, e che aveva nella tasca della giacca. Essa era a Venezia da piú d’un mese. Per la prima volta da quando era nato, Dodò non era stato portato in villeggiatura, ma semplicemente passava le mattinate a Fregene, e i pomeriggi in casa ad annoiarsi. L’uomo non amava piú sua moglie, ma era geloso di lei. Pensava che a Venezia doveva avere qualcuno. Esplorava col pensiero, come del resto faceva sovente nel corso della giornata, tutte le persone che c’erano là con lei, e questa costante esplorazione lo umiliava. In villeggiatura con Dodò, avrebbe forse potuto andarci lui, ma non ne aveva nessuna voglia, e adduceva con se stesso la scusa di dover portare a termine un libro che stava scrivendo, sui quartieri periferici nelle città moderne. La donna pensava ai propri genitori, con i quali usavano pranzare lei e Angelica la domenica, e con i quali essa litigava ogni domenica per motivi politici, essendo diventati i suoi genitori, negli ultimi tempi, molto reazionari. Daniele, il bambino magro, rideva, benché non ci fosse, in Baratro, niente da ridere. Ridendo si raggomitolava nella poltrona e scalciava scrollando forte Dodò, che gli era seduto accanto. Dodò rideva anche lui volgendo al padre gli occhi tondi e spaventati. L’aria condizionata doveva essere rotta, perché non si sentiva ronzare niente e faceva caldo come fuori. Il Polo Nord, disse Angelica. L’uomo disse che gli sembrava vi fosse, in un altro cinema non molto distante, con aria condizionata in genere ottima, un film di cartoni animati, piú bello per i bambini. La donna gli chiese perché non l’aveva detto prima. Egli disse che stava per dirlo, ma gli era parso che lei desiderasse tanto vedere Baratro. Lei disse che in verità i cartoni animati erano superiori alle sue forze. Poteva però, se volevano andare ai cartoni animati, aspettare fuori in un caffè. Angelica disse che erano matti, avevano pagato di biglietto cinquemila lire. Nelle poltrone dietro a loro qualcuno zittí. I miliardari andavano in motoscafo, solcando un mare azzurro e vorticoso e circondandosi di altissimi spruzzi. Poi morivano uno dopo l’altro, alcuni ammazzandosi vicendevolmente e altri divorati da uno squalo. Quando essi uscirono da quel cinema, era ancora pomeriggio. L’uomo si sentiva la testa tutta piena di mare, sabbia, bibite, squali e fiotti di sangue.
Andarono a sedersi in un caffè all’aperto, su una piccola piazza. Un cameriere propose la coppa Zingara, e Angelica e i due bambini dissero che gli andava bene. La donna e l’uomo presero due birre. La coppa Zingara era un alto bicchiere con una torre di panna montata, tre ciliege candite, dei pistacchi, un cialdone piantato dritto nel mezzo. Bevuta la birra, l’uomo si asciugò col fazzoletto le mascelle, la fronte e le mani. La donna gli chiese perché era tanto cupo. Egli disse che aveva avuto, dalla Ninetta, una brutta lettera. La Ninetta era sua moglie, la madre di Dodò. Brutta come, questa lettera, chiese la donna. Brutta, piena di piccole cattiverie. Alla donna, la Ninetta era sommamente odiosa. Entrambi pensarono alla Ninetta, ciascuno a modo proprio. L’uomo aveva davanti agli occhi la persona della Ninetta, alta e fragile, le sue spalle esili e leggermente curve, il lungo collo, la testa dalla morbida frangia nera, il viso d’un pallore latteo, il sorriso che essa offriva come si offre un oggetto di pregio. Egli non l’amava ma aveva quella frangia nera tutto il giorno davanti agli occhi, e trovava umiliante averla cosi davanti agli occhi e soffrirne, senza amore, con irritazione, con un cumulo di risentimenti di natura torva e miserabile. La donna trovava la Ninetta stupida come una pera. Strano che avesse scritto una lettera, non era mica nelle sue abitudini, preferiva sempre telefonare, disse l’uomo. Né al telefono, né in quella lettera, diceva quando contava di ritornare. Di Dodò si occupava una ragazza spagnola alla pari, bella e pessima, che usciva sempre avendo pasticci sia di soldi sia di uomini. C’era, per fortuna, Evelina. Evelina veniva ogni giorno, portava il bambino a Fregene, lo riportava e stava con lui tutto il pomeriggio. Cucinava la portinaia, perché la Ninetta, prima di partire per Venezia, aveva litigato con la cuoca e l’aveva licenziata. Secondo Evelina, la Ninetta aveva fatto bene, perché era sudicia quella cuoca. Non mi ricordo chi è Evelina, disse Angelica. Evelina era la madre della Ninetta, la nonna di Dodò. Sarei perso senza Evelina, disse l’uomo. Essa era, però, sempre cosí piena di paure. Se avesse visto adesso Dodò che mangiava la coppa Zingara, sarebbe svenuta. Era contro la panna montata. Contro i pistacchi. Contro le ciliege candite. Dappertutto vedeva i coloranti. Nella panna i coloranti non ci sono, disse Angelica. No, ma ci dev’essere qualcos’altro che non va, latte sporco, zucchero sporco. Non lo so, disse l’uomo. Evelina era, in verità, egli disse sottovoce, asfissiante. Portava il bambino a Fregene, ma non lo portava sulla spiaggia, e passavano le mattinate lei e Dodò nella villa di certi amici di lei, che avevano una piscina. Asfissiava con quella piscina, egli disse. L’acqua là era cosi chiara e pulita, secondo lei, che si poteva perfino bere. C’era là un cagnolino bianco, disse Dodò, piccolissimo, tanto bello. Si chiamava Fiocchino. Però nessun bambino per giocare con te, disse l’uomo. No, nessun bambino. Due volte era venuto il nipote del custode. No, tre volte. Però era andato via quasi subito. Dodò mangiava la coppa Zingara molto adagio. Daniele la sua l’aveva finita ed era entrato dentro il caffè a guardar giocare a calcetto. Vedrai che a mezzanotte saremo qui ancora, disse Angelica. Non abbiamo nessuna furia, disse l’uomo. Non ci corre dietro nessuno e qui seduti stiamo tanto bene. Ora è venuto anche il fresco. La donna carezzò i capelli a Dodò. Trasse fuori un pettine dalla sua borsa di paglia e prese a spartirgli sulla fronte i capelli fini, lisci e chiari. L’uomo le disse di smettere. Non c’era nessun bisogno di pettinarlo. Non gli piaceva con la scriminatura, lo preferiva senza, con la frangia come sua madre. Era invece molto piú necessario pettinare la ciocca di Angelica. Tolse di mano il pettine alla donna e pettinò quella ciocca. Angelica scostò il capo e gli diede uno schiaffo sulla mano. Carina, disse l’uomo. Esistevano in vendita, egli disse, mollette e fermagli, ottimi per tenere a posto i capelli. Li avevano perfino i tabaccai.
L’uomo si chiamava Carmine Donati e aveva quarant’anni. Era architetto. Come architetto, guadagnava bene, ma non aveva raggiunto nessuno degli obbiettivi che da giovane si era proposto. Il libro che ora scriveva, sui quartieri periferici nelle città, in qualche momento gli sembrava mediocre, in qualche momento nuovo e originale. La donna si chiamava Ivana Riviera e aveva trentasette anni. Viveva facendo traduzioni e cercava un impiego fisso, che però non trovava. Moltissimi anni prima, quando vivevano insieme ed erano amanti, discutevano in continuazione a proposito di tutto, e cercavano di trasformarsi a vicenda, lei volendo lui piú libero, lui trovando lei disordinata sia negli orari, sia nella casa, sia nelle idee. Usavano svegliarsi la notte e discutere, e ragionare dei loro difetti reciproci, e riflettere ad alta voce se dovevano sposarsi o no. Avevano un appartamento in via Casilina, piccolissimo, praticamente una sola stanza. C’era però anche una doccia e un minuscolo ingresso. Cucinavano nella stanza dove anche avevano il letto. C’era una grande terrazza, dove cercavano di coltivare fiori. Avevano un gufo, un coniglio, e un gatto. Al gatto avevano dato nome Fidèl. Una volta erano venuti a trovarli i genitori di lui, contadini abitanti a Vinchiaturo, piccolo paese nell’Abruzzo. Lei si era sforzata di essere gentile con loro. Le sembrava ben strano di vivere con un uomo che aveva una madre con il fazzoletto nero in testa, con i denti rotti e neri, quasi analfabeta. Le sembrava stranissimo. Quei due anziani contadini erano sgomenti e stravolti, per il grande disordine della casa, per il coniglio, per il gufo, per tutto. Conigli loro ne avevano tanti, ma gli davano l’erba, e invece a quel coniglio venivano servite ricche mele e broccoli cucinati apposta per lui. Non trovavano inoltre tollerabile l’idea che essi stessero insieme senza sposarsi, e non ne capivano il perché. I genitori di lei erano, in quel periodo, negli Stati Uniti, dove il padre di lei, matematico, era stato chiamato per svolgere un corso di lezioni in alcune università. Le scrivevano lettere diffidenti, perché temevano che quel Carmine Donati, che non conoscevano, fosse un poco di buono. Sapevano che era di origini povere, e questo non gli dispiaceva, ma l’idea che la madre di lui fosse quasi analfabeta gli sembrava troppo. Pensavano che lui si fosse messo con lei per calcolo, per raggiungere una nuova e piú alta condizione sociale. Però quando lei aveva scritto di essere incinta, scrissero che era necessario che si sposassero. Essi ebbero una bambina, che chiamarono Carmela, come la madre di lui. Decisero di sposarsi, ma aspettavano che venisse la primavera, per invitare gli amici, dare una gran festa sulla terrazza. Il coniglio morí, e il gufo lo regalarono via, perché la bambina ne aveva paura. Avevano sempre il gatto. Passò la primavera, e l’estate, e non si erano sposati, essendosi lui un poco innamorato d’una ragazza che incontravano sempre al ristorante, e che faceva fotografie. La bambina era iscritta all’anagrafe con il cognome materno, Riviera, e risultava di padre ignoto. Non discutevano piú, la notte, sia per non svegliare la bambina, sia perché adesso li annoiava moltissimo scambiarsi qualunque pensiero. Di giorno, si vedevano poco, perché lui lavorava molto in uno studio che divideva con altri, in via della Vite, e lei portava la bambina a casa dei propri genitori, i quali erano intanto ritornati dall’America, essendovi là da loro una terrazza ben migliore, fresca, circondata di alberi. La bambina morí a un anno e mezzo, di paralisi infantile. Dopo la morte della bambina, si erano lasciati. Lei mai aveva voluto rientrare nell’appartamento in via Casilina, nemmeno per riprendere i suoi vestiti da inverno, e a riprenderli ci aveva mandato il padre. Lui, Carmine, era rimasto in quell’appartamento ancora per qualche anno, con il gatto Fidèl e con una ragazza, non quella che faceva fotografie ma un’altra, un’attrice di teatro. Dopo il gatto Fidèl, scomparso sui tetti, aveva preso una grossa cagna, che però la notte si sdraiava sul letto e la ragazza questo non lo tollerava. Ivana, non sopportando piú i propri genitori, era andata in Inghilterra. Aveva frequentato una scuola di scultura, poi si era impiegata come interprete in un’agenzia di turismo, poi aveva lavorato come guardarobiera in una pensione per i ciechi. Aveva avuto la figlia Angelica con uno studente di glottologia ebreo, conosciuto a una festa, alto e secco e rosso di capelli. Non era innamorata, ma voleva un bambino. Egli aveva nome Joachim Halevy. Egli l’aveva portata a Bristol a conoscere la propria zia, mite e canuta insegnante di disegno in una scuola materna, ma non aveva mai saputo di essere padre, essendo finito, poco tempo dopo che si erano incontrati, in una clinica per malattie nervose. La zia era venuta da Bristol a Londra per vedere Angelica nell’ospedale dove era nata, e di nuovo era venuta da Bristol quando Ivana con Angelica partiva per l’Italia, le aveva accompagnate al treno e aveva regalato a Angelica, la quale aveva allora quattro mesi, un medaglione con un ritratto di Joachim bambino. La zia scriveva, ogni tanto, a Ivana, e mandava a Angelica tutti gli anni, per Natale, dei fiori di carta da ritagliare. Le notizie di Joachim erano cattive. Tornata a Roma, Ivana aveva preso in affitto un appartamento in via del Vantaggio. La aiutavano il padre e la madre, teneri con Angelica, amari con lei. Di Joachim, Ivana aveva un ricordo indistinto e angoscioso. A volte, ne incontrava dentro di sé i tratti, la magrezza, i calzoni di velluto a coste, l’andatura dinoccolata. Nel medaglione che a volte, di rado, le accadeva di guardare, era racchiuso il volto di un roseo lattante su uno sfondo azzurro-cielo. Egli la batteva. La loro relazione era durata soltanto poche settimane, ma all’ultimo lei si era chiusa a chiave nella stanza della sua pensione, finché amici comuni l’avevano avvertita che egli era stato portato in clinica. Ancora adesso, nella notte, essa si svegliava a volte in preda al terrore. Egli poteva fuggire da quella clinica, raggiungerla a Roma, insediarsi con lei e con la bambina in via del Vantaggio. Sapeva però che erano, le sue, paure insensate, perché Joachim, a quanto le scriveva la zia di lui, era senza piú volontà, né memoria, né voce, un cencio inerte in fondo a una corsia. Carmine, l’aveva ritrovato una sera, in casa di amici comuni. Egli l’aveva baciata sulle guance. Non si vedevano da dieci anni. Egli era stato per alcuni anni in America, con borse di studio, poi era tornato, e si era sposato. C’era là con lui la Ninetta, sua moglie, quella sera. Una ragazza alta, fragile, avvolta in uno scialle nero. Aveva un modo di muoversi languido e freddoloso, e si sedeva a terra sui cuscini giocherellando con le sue lunghe collane o con le frange del suo scialle, e sembrava invocare protezione con i larghi occhi fiduciosi e chiari. Offriva il suo sorriso come un gioiello prezioso. Carmine disse che dovevano andar via, la Ninetta doveva dare il latte a Dodò. Era, egli disse, una balia meravigliosa. Disse a Ivana che però facevano in tempo ad accompagnarla a casa. La accompagnarono a casa a piedi, perché via del Vantaggio era a pochi passi. Loro abitavano da tutt’altra parte, in via Barnaba Oriani. Egli non faceva che parlare del suo bambino Dodò, per tutta la strada, e Ivana si annoiava, è noioso sentir parlare di neonati quando non se ne hanno, lei aveva Angelica già grande, che andava a scuola. La Ninetta stava zitta, nella sua pelliccia, lo scialle ora avviluppato intorno al capo, e offriva il suo sorriso. Lei pensò che quando avevano la loro bambina, lui non se ne dava gran pensiero, la guardava appena. Si era dato da fare a prepararle la culla, quando stava per nascere, e la culla era carina, un cestino rivestito d’una stoffa a fiorellini rossi. Però poi alla bambina si era interessato assai poco. Egli era allora, forse, troppo giovane. Ivana li invitò a salire da lei un momento, ma essi dissero che dovevano rincasare, sia per il fatto della poppata, sia perché avevano ospiti, in quei giorni, i genitori di lui, venuti da Vinchiaturo per festeggiare il bambino, che aveva messo il primo dente. Il giorno dopo, egli le telefonò. Si scusò per non averle chiesto, la sera prima, niente di lei, aveva sempre parlato lui, e invece era ansioso di sapere se lei stava bene, se lavorava, se era contenta. Gli avevano detto che aveva una figlia. Questo gli aveva fatto molto piacere. Chiese se poteva venire a trovarla. Venne da solo. La Ninetta, egli le disse, aveva sentito per lei una grande simpatia, e gli aveva chiesto su di lei tante cose, la sera prima, mentre rincasavano, e voleva che lei venisse da loro a pranzo, che vedesse la loro casa, e il bambino. La Ninetta ora aveva un leggero mal di gola, ma presto, prestissimo, avrebbero combinato per questo pranzo. Forse era opportuno, egli disse, aspettare che partissero gli ospiti, cioè i suoi genitori. Le chiese se li ricordava. Lei li ricordava. Erano incantati del bambino, i suoi genitori, egli disse, e stavano ore e ore a guardarlo nel lettino, e ne commentavano e ammiravano gli occhi, le mani, i piedi. Un lettino aveva il bambino, essa chiese, non una culla. No, un lettino con la ringhiera, di legno verniciato di rosso, che si poteva smontare e diventava un recinto. Ci dormiva da quando era nato. Le culle non si usavano piú. I suoi genitori erano incantati anche della casa, e della Ninetta, la quale era con loro, egli disse, deliziosa. Essa notò quell’aggettivo, «deliziosa», era una parola che non gli apparteneva, che un tempo egli non avrebbe usato. Sua madre, egli disse, aveva insegnato alla Ninetta un mondo di cose: la pasta fatta in casa, le melanzane sott’olio. Ivana lo trovava diventato noioso. Delle melanzane sott’olio, e delle tenerezze che si scambiavano la Ninetta e la madre di lui, non gliene importava nulla. Glielo disse, qualche giorno dopo, al telefono, che lo trovava diventato noioso. Gli disse: «Me ne fotto delle melanzane sott’olio». Gli disse poi che non capiva perché quel bambino venisse chiamato Dodò, trovava odioso chiamare i bambini con vezzeggiativi e nomignoli, Dodò, Fufú, Pupú, che abitudine irritante, smorfiosa, odiosa. Lui si offese, e le disse che lei non era diventata noiosa perché noiosissima, lunatica e piena di fisime era sempre stata. Venne però, subito dopo, da lei. Portò un pollo arrosto, che aveva comprato in una rosticceria in via del Babuino. Angelica era già andata a letto, ma venne fatta alzare, e mangiò quel pollo con loro, al tavolo di cucina, nella sua camicia da notte di flanella rosa. Veramente avevano già cenato, Angelica e Ivana, ma esse usavano cenare solo con caffelatte e pane e burro. Egli prese l’abitudine di venire abbastanza spesso. Ivana lavorava alle sue traduzioni, lui a volte le cercava le parole nel vocabolario, e intanto giocava a scacchi con Angelica, o leggeva il giornale sul divano. Verso mezzanotte, telefonava alla Ninetta, e le diceva che rincasava tra poco. La Ninetta mandava a Ivana e a Angelica i suoi baci. Però egli ancora per un pezzo restava sdraiato là sul divano, a leggere, a fumare, a guardare fuori dalla finestra gli alberi del viale, il ponte, il fiume, i tetti illuminati dalla luna. Quando si trovavano soli, essi parlavano in genere della loro vita presente, della Ninetta, di Angelica, di Dodò. Assai di rado parlavano del tempo in cui vivevano insieme. Sembrava a entrambi un’epoca strana e remota, nella quale essi, chissà perché, avevano coltivato l’idea assurda di stare insieme, essendo cosí diversi, avendo nature contrastanti e inconciliabili. Ricordavano qualche volta, con affetto, il gatto Fidèl. Della loro bambina che era morta, non parlavano mai.
Vi fu infine il pranzo in via Barnaba Oriani, una cena, ma era passato molto tempo da quando Ivana e Carmine si erano ritrovati, quella sera, da quegli amici, e ormai Dodò aveva quasi tre anni. La Ninetta e Ivana non si vedevano quasi mai, una o due volte la Ninetta era venuta in via del Vantaggio, una o due volte erano usciti insieme la sera, Carmine, la Ninetta e Ivana. Un giorno la Ninetta telefonò a Ivana, pregandola di venire da lei, perché era sola in casa con Dodò che stava molto male, aveva la febbre a quaranta, e lei non trovava Carmine e non sapeva dove fosse, non trovava la propria madre, non trovava il pediatra, non trovava nemmeno una loro cara amica di casa, Ciaccia Oppi, la quale sui bambini sapeva tutto. Aveva, disse, una tremenda angoscia. Ivana prese un tassí e venne in via Barnaba Oriani, dove non era mai stata, però nel frattempo era venuto il pediatra, e anche era venuta l’amica Ciaccia Oppi, e alla Ninetta era totalmente passata l’angoscia, avendole detto il pediatra che si trattava di un semplice raffreddore. Poiché diluviava, e non si trovavano tassí, Ivana fu riaccompagnata in macchina da Ciaccia Oppi, e la macchina rimase imbottigliata nel traffico per piú di tre quarti d’ora, e Ivana dovette fare conversazione con quella Ciaccia Oppi, che le sembrava una cretina perfetta, e a un certo punto non avevano piú niente da dirsi, chiuse in quella macchina sotto una pioggia scrosciante, poi la macchina a causa della pioggia non si mosse piú e Ivana e Ciaccia Oppi dovettero spingerla per un tratto. La sera le telefonarono la Ninetta e Carmine, chiedendole scusa, sapevano da Ciaccia Oppi che aveva infine dovuto rincasare a piedi nella pioggia. La invitarono a cena per il giorno dopo. Ci sarebbe stata anche Ciaccia Oppi, alla quale essa aveva ispirato una forte simpatia. Ivana disse che lei la trovava forse gentile ma una cretina perfetta. La Ninetta disse che Ciaccia Oppi dava l’impressione di essere sciocca ma non lo era, aveva una profonda cultura, leggeva moltissimo e sapeva un mare di cose. C’erano dunque a quella cena Ciaccia Oppi e il marito di lei, specialista in malattie del ricambio, una coppia d’architetti, marito e moglie, e una sorellina piccola della Ninetta, fatta venire per intrattenere Angelica, la quale invece, all’ultimo momento, aveva detto che voleva rimanere a casa. A Ivana la casa di via Barnaba Oriani non piaceva affatto, e lo disse, avendo deciso da qualche tempo che lei non desiderava pronunciare nemmeno la piú infima fra le menzogne. C’erano tende rosse nel soggiorno, perché la Ninetta e Carmine tutti e due adoravano quel colore. Rosso era anche il divano e rossi i tappeti, rossa la tovaglia e rossa la giacchetta del cameriere che serviva in tavola. Disse Ivana che le sembrava di trovarsi nell’ultima scena del film Rosemary baby, quando non c’è piú nulla che non sia colore del sangue. Presso il divano c’era un lume di carta bianca pelosa, che sembrava, disse Ivana, un baco da seta. Presso il tavolo c’era un lume di carta bianca opaca, lungo lungo, che penzolava giú dal soffitto e che sembrava, disse Ivana, un preservativo. I due paragoni non furono apprezzati, nessuno sorrise, c’era solo il sorriso della Ninetta, immobile e radioso. Subito finita la cena la sorellina piccola andò via, e con lei il cameriere, essendo egli di proprietà della madre, che abitava al piano di sotto, e quando se ne furono andati Carmine disse che sperava che la parola «preservativo» non fosse stata da loro udita, e non venisse riferita al piano di sotto. Erano, al piano di sotto, molto guardinghi nelle parole che si potevano usare. Era molto guardinga, Evelina. Quando imprestava il cameriere faceva mille raccomandazioni, non affaticarlo, non viziarlo, non dargli da mangiare né troppo né troppo poco, non pronunciare in presenza sua né parole scanda...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Famiglia
  3. L’offerta di Domenico Scarpa
  4. Nota e ringraziamenti
  5. Nota al testo
  6. Famiglia
  7. Appendice
  8. Copyright