Ho sposato un comunista
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Ho sposato un comunista

  1. 320 pagine
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Ho sposato un comunista

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Negli anni Cinquanta Iron Rinn, attore radiofonico e attivista sindacale, sposa Eve Frame, una bella e ricca ex diva del cinema muto. Lui è di estrazione proletaria, lei ha pretese snobistiche, e il matrimonio è destinato a fallire. Cosí, quando Eve rivela a un giornale che suo marito è una spia dell'Unione Sovietica, il dramma privato diventa scandalo nazionale. Una storia di crudeltà, umiliazione, tradimento e vendetta. Un altro indimenticabile capitolo del grande affresco di Philip Roth sulla storia degli Stati Uniti.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
ISBN
9788858407028
Philip Roth

Ho sposato un comunista

Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi

Ho sposato un comunista

Molti canti ho sentito nella mia terra natía,
Canti di gioia e di dolore.
Ma uno mi s’è inciso profondamente nella memoria
Ed è il canto del comune lavoratore.
Su, alzate quella mazza,
Oh, issa!
Tirate piú forte tutti insieme,
Oh, issa!
Dubinuška, canto popolare russo.
Eseguito e registrato, in russo, dal Coro
e dalla Banda dell’Armata Rossa.

1.

Il fratello maggiore di Ira Ringold, Murray, fu il mio primo insegnante d’inglese al liceo, e se legai con Ira fu grazie a lui. Nel 1946 Murray si era appena congedato dall’esercito, dove aveva prestato servizio nella Diciassettesima divisione aerotrasportata durante la battaglia delle Ardenne; nel marzo del 1945 aveva partecipato al famoso «salto del Reno» che segnò il principio della fine della guerra in Europa. Era, a quei tempi, un tipo calvo esuberante e duro, non alto come Ira, ma atletico e asciutto, sempre proteso sopra le nostre teste in uno stato di perenne vigilanza. Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. Aveva un particolare talento per vivacizzare le interrogazioni, per creare un forte incanto narrativo anche quando si limitava ad analizzare e a esaminare ad alta voce, nel suo modo incisivo, ciò che leggevamo e scrivevamo.
Insieme ai muscoli e all’evidente intelligenza, il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era piú importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. O forse no. Forse il professor Ringold sapeva benissimo che quello che i ragazzi come me avevano bisogno d’imparare non era solo come esprimersi con precisione e acquisire una piú penetrante capacità di reazione alle parole, ma come essere vivaci senza essere stupidi, come non essere troppo ben dissimulati o troppo ben educati, come cominciare a liberare l’esuberanza virile dalla rettitudine istituzionale che intimidiva soprattutto i ragazzi svegli.
Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante liceale come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che – diversamente dagli insegnanti di sesso femminile – avrebbe potuto scegliere di fare qualunque altra cosa o quasi, e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione.
Non che l’impronta lasciata sulla mia idea della libertà dall’audacia del suo stile professionale fosse evidente allora; nessun ragazzo la pensava cosí, né sulla scuola, né sui professori, né sul proprio conto. L’esempio di Murray, tuttavia, doveva avere nutrito una voglia incipiente d’indipendenza sociale, e io glielo dissi allorché, nel luglio 1997, per la prima volta da quando mi ero diplomato nel 1950, lo incontrai, già novantenne, ma per tutti gli altri versi sempre uguale all’insegnante di un tempo; oggi come allora, per lui il dovere realisticamente consisteva, senza autoparodie né melodrammi, nell’impersonare davanti agli studenti il motto dell’indipendente: «Non me ne importa un cavolo»; e nell’insegnare ai suoi ragazzi che per trasgredire non occorre essere Al Capone: basta pensare. – Nella società umana, – ci insegnava il professor Ringold, – la trasgressione piú grande di tutte è pensare. – Il pen-sie-ro cri-ti-co, – diceva il professor Ringold, battendo le nocche sul piano delle cattedra per sottolineare ogni sillaba: – ecco l’estrema trasgressione –. Dissi a Murray che sentire queste cose tanto tempo prima da un tipo virile come lui – vederle dimostrate da lui – mi aveva dato l’idea piú precisa che potesse mai venirmi di cosa significava diventare grandi, anche se, da quel ragazzo provinciale, privilegiato e d’animo nobile che ero, da quel ragazzo che tanto desiderava diventare razionale, importante e libero, dovevo averla capita solo a metà.
Murray, a sua volta, mi disse tutto ciò che, da ragazzo, non sapevo e non avrei potuto sapere della vita privata di suo fratello, una grave disgrazia dai risvolti farseschi sulla quale ogni tanto si sorprendeva a rimuginare anche se Ira era morto da piú di trent’anni. – Migliaia e migliaia di americani distrutti in quegli anni, vittime della politica, vittime della storia, a causa delle proprie convinzioni, – disse Murray. – Ma non ricordo nessuno massacrato come Ira. Lo scontro non avvenne sul grande campo di battaglia americano che avrebbe scelto lui per la propria distruzione. Forse, a dispetto dell’ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale. Non si può criticare la vita perché qualche volta non le riesce di banalizzare la gente. Devi toglierti il cappello davanti a lei e alle tecniche di cui dispone per privare un uomo del suo significato e svuotarlo totalmente del suo orgoglio.
Murray mi disse anche, quando glielo chiesi, in che modo era stato privato lui del suo significato. Conoscevo la storia a grandi linee, ma pochi dei suoi particolari, perché ero andato sotto le armi – e per anni non avevo piú rimesso piede a Newark – subito dopo essermi laureato, al college, nel 1954, mentre le traversie politiche di Murray non erano iniziate fino al maggio del ’55. Cominciammo con la storia di Murray, e fu solo alla fine del pomeriggio, quando gli chiesi se voleva restare a cena, che lui parve sentire, all’unisono con me, che i nostri rapporti erano passati su un piano piú intimo, e che non sarebbe stata una scorrettezza se Murray avesse continuato a parlare apertamente di suo fratello.
Vicino a dove vivo, nella parte occidentale del New England, un piccolo college di nome Athena organizza una serie di corsi estivi per anziani della durata di una settimana, e Murray a novant’anni si era iscritto, come studente, a quello pomposamente intitolato Shakespeare alla fine del Millennio. Ecco come l’avevo incontrato, in città, la domenica del suo arrivo (non avendolo riconosciuto, fui fortunato che mi riconoscesse lui), e come arrivammo a passare le nostre sei serate insieme. Ecco come, questa volta, il passato si ripresentò, nei panni di un uomo vecchissimo la cui dote principale consisteva nel non dedicare alle proprie disgrazie un pensiero in piú di quanto le disgrazie meritassero, e che ancora non riusciva a perder tempo parlando di cose poco serie. Una palpabile ostinazione conferiva alla sua personalità una scabra pienezza, e questo malgrado la radicale potatura alla quale il tempo aveva sottoposto il suo fisico atletico. Guardando Murray mentre parlava in quel suo modo familiare, aperto e scrupoloso, pensai: eccola, la vita umana. Ecco cosa significa durare.
Nel ’55, quasi quattro anni dopo che Ira era stato messo sulla lista nera ed espulso dalla radio perché comunista, Murray era stato sollevato dall’incarico d’insegnante dal Board of Education per essersi rifiutato di collaborare con la Commissione per le Attività Antiamericane quando era passata da Newark per quattro giorni di udienze. Fu reintegrato, ma solo dopo una battaglia legale durata sei anni che finí con una decisione 5-4 della Corte suprema dello stato, reintegrato con gli stipendi arretrati, meno i soldi che aveva guadagnato come piazzista di aspirapolvere per mantenere la famiglia in quei sei anni.
– Quando non sai che altro fare, – disse Murray con un sorriso, – vendi aspirapolvere. Porta a porta. Marca Kirby. Rovesci un portacenere stracolmo sulla moquette e ci passi l’aspirapolvere. Passi l’aspirapolvere in tutta la casa. È cosí che si vende questa roba. Ho passato l’aspirapolvere in una buona metà delle case del New Jersey, ai miei tempi. Guarda, avevo un mucchio di amici, Nathan. Mia moglie aveva bisogno di cure mediche continue e costose, e avevamo una figlia, ma gli affari andavano piuttosto bene e ho venduto un’infinità di aspirapolvere. E malgrado i suoi problemi con la scoliosi, Doris riprese a lavorare. Tornò al laboratorio dell’ospedale. Faceva le analisi del sangue. Alla fine lo mandava avanti lei, il laboratorio. A quei tempi non c’era una separazione tra la parte tecnica e le arti della medicina, e Doris faceva di tutto: prelievi di sangue, vetrini. Molto paziente, molto meticolosa al microscopio. Preparata. Attenta. Precisa. Competente. Tornava dal Beth Israel, che era proprio davanti a casa nostra, dall’altra parte della strada, e preparava la cena senza neanche togliersi il camice. La nostra era l’unica famiglia che io abbia mai conosciuto dove l’insalata di contorno veniva servita in una beuta. La beuta Erlenmeyer. Mescolavamo il caffè con la pipetta. Tutta la nostra cristalleria era del laboratorio. Quando non avevamo il becco di un quattrino, era Doris che faceva quadrare il bilancio. Cosí, insieme, ce l’abbiamo fatta.
– E se la presero con te perché Ira era tuo fratello? – chiesi. – Questa è sempre stata la mia idea.
– Non lo posso dire con certezza. Ira la pensava cosí. Forse se la presero con me perché non mi ero mai comportato come doveva comportarsi un insegnante. Forse se la sarebbero presa con me anche senza Ira. Io sono sempre stato un agitatore, Nathan. Mettevo troppo zelo nel difendere la dignità della mia professione. Forse era questo che li rodeva, piú di ogni altra cosa. Le umiliazioni che dovevi subire quando ho cominciato a fare l’insegnante! Non ci crederesti. Essere trattati come bambini. Qualunque cosa ti dicessero i superiori, era legge. Legge indiscussa. Sarai qui a quest’ora, firmerai puntualmente il registro. Passerai tante ore a scuola. E sarai chiamato per lavori pomeridiani e serali, anche se questo non rientrava nel contratto. Stupide regolette d’ogni genere. Ti sentivi screditato.
– Mi misi a organizzare il nostro sindacato. Finii rapidamente a capo della commissione, ebbi un posto nel consiglio esecutivo. Non avevo peli sulla lingua, anche se a volte, lo ammetto, ero un po’ troppo loquace. Credevo di avere sempre le soluzioni giuste. Ma quello che m’interessava era che gli insegnanti fossero rispettati, che fossero rispettati e che ottenessero i giusti emolumenti per le loro prestazioni, e cosí via. Gli insegnanti avevano problemi con la paga, le condizioni di lavoro, l’assistenza…
– Il provveditore non mi vedeva di buon occhio. Mi ero dato da fare per impedire la sua promozione al provveditorato. Io sostenevo un altro, e quello perse. Cosí, dato che non facevo mistero della mia opposizione a quel figlio di puttana, lui aveva per me un odio viscerale, e nel ’55 fui licenziato in tronco e convocato al Federal Building, per una seduta della Commissione per le Attività Antiamericane. Come testimone. Il presidente era un deputato, un certo Walter. Lo accompagnavano altri due membri della commissione. Erano in tre, venuti da Washington col loro avvocato. Indagavano sull’influenza comunista in ogni angolo della città di Newark, ma indagavano soprattutto su quella che chiamavano «l’infiltrazione del partito» nel mondo del lavoro e dell’istruzione. C’era stata un’ondata di queste udienze in tutto il paese: Detroit, Chicago… Sapevamo che la cosa era imminente. Che era inevitabile. Noi insegnanti ci sbrigarono in un giorno, l’ultimo giorno, un giovedí di maggio.
– Testimoniai per cinque minuti. «Lei è in questo momento o è mai stato…?» Mi rifiutai di rispondere. Be’, perché?, mi chiesero. Non ha niente da nascondere. Perché non dice tutta la verità? Noi vogliamo delle semplici informazioni. Siamo qui solo per questo. Noi legiferiamo. Non siamo un organo punitivo. E cosí via. Ma le mie idee politiche non erano affari loro, se avevo letto bene gli emendamenti alla Costituzione che garantiscono i diritti civili, e fu quello che dissi: «Non sono affari vostri».
– Qualche giorno prima, la stessa settimana, se l’erano presa con gli United Electrical Workers, il vecchio sindacato di Ira a Chicago. Lunedí sera, mille iscritti all’Ue vennero da New York, su una ventina di pullman a noleggio, a picchettare il Robert Treat Hotel, dove stavano i membri della commissione. Lo «Star-Ledger» descrisse l’arrivo dei picchetti come «un’invasione di forze ostili all’inchiesta parlamentare». Non una legittima dimostrazione come garantito dai diritti elencati nella Costituzione, ma un’invasione, come quella di Hitler in Polonia e Cecoslovacchia. Uno dei parlamentari della commissione fece notare alla stampa – senz’ombra d’imbarazzo per l’antiamericanismo che trapelava dalla sua osservazione – che un sacco di dimostranti cantavano in spagnolo, chiaro segno, per lui, che non conoscevano il significato degli striscioni che portavano, che erano ignoranti «zimbelli» del Partito comunista. Lo rincuorava il fatto che fossero stati sorvegliati dalla «squadra sovversivi» della polizia di Newark. Dopo che il convoglio di pullman ebbe attraversato la contea di Hudson per tornare a New York, un pezzo grosso della polizia della regione disse ai giornali: «Se avessi saputo che erano dei rossi, li avrei messi tutti al fresco, dal primo all’ultimo». Questa era l’aria che si respirava, e questi i commenti apparsi sulla stampa, quando, giovedí, venne l’ora del mio interrogatorio e fui il primo a essere chiamato.
– Verso la fine dei miei cinque minuti, davanti al mio rifiuto di collaborare, il presidente si dichiarò deluso dal fatto che un uomo del mio livello e della mia educazione fosse tanto restio a contribuire alla sicurezza di questo paese dicendo alla commissione ciò che essa voleva sapere. Accettai quell’osservazione in silenzio. L’unica frase ostile che mi sfuggí fu quando uno di quei bastardi pose fine all’interrogatorio dicendomi: «Signore, mi permetto di porre in dubbio la sua lealtà». «E io mi permetto di dubitare della sua», risposi. E il presidente mi disse che se avessi continuato a «ingiuriare» i membri della commissione, mi avrebbe fatto espellere. «Noi non siamo tenuti a stare qui, – mi disse, – a sentire le sue ciance e a incassare le sue ingiurie». «Neanch’io, – dissi, – devo stare qui seduto a sentire le sue ingiurie, signor presidente». Non si andò oltre. Il mio avvocato mi sussurrò di piantarla, e quella fu la fine della mia testimonianza. Venni congedato.
– Ma mentre mi alzavo dalla sedia uno dei deputati mi gridò, per spingermi, immagino, a commettere un oltraggio: «Come può, lei, accettare di essere pagato con i soldi dei contribuenti quando dal suo esecrabile giuramento comunista è tenuto a insegnare la linea sovietica? Come può, in nome di Dio, essere una persona indipendente e insegnare ciò che dettano i comunisti? Perché non lascia il partito e non cambia strada? La prego: torni all’American way of life!»
– Ma io non abboccai, non gli dissi che quello che insegnavo non aveva nulla a che fare con dettami relativi ad alcunché di diverso dalla composizione e dalla letteratura, anche se, in definitiva, qualunque cosa dicessi o non dicessi sembrava non avere la minima importanza: quella sera, nell’ultima edizione con i risultati sportivi, la mia faccia era sulla prima pagina del «Newark News», sopra la didascalia Il recalcitrante testimone dell’indagine sui rossi e la frase Non vogliamo sentire le sue ciance, dice la CAA all’insegnante di Newark.
– Ora, uno dei membri della commissione era un parlamentare dello stato di New York, Bryden Grant. Ti ricordi dei Grant, Bryden e Katrina? Non esiste americano che non si ricordi di loro. Be’, i Ringold furono i Rosenberg dei Grant. Questo giovanottello dell’alta società, questo perfido zero, ha quasi distrutto la nostra famiglia. E sai perché? Perché una sera Grant e sua moglie parteciparono a una festa che Ira e Eve davano nella loro casa dell’Undicesima Strada Ovest, e Ira attaccò Grant come solo Ira poteva attaccare qualcuno. Grant era amico di Wernher von Braun, o cosí credeva mio fratello, che gli fece una scenata. Grant era – lo si capiva al volo – uno di quei rammolliti altoborghesi che lo facevano rabbrividire. La moglie scriveva quei romanzi popolari divorati dalle signore e Grant, in quel momento, era ancora un columnist del «Journal-American». Per Ira, Grant era l’incarnazione del piú smaccato privilegio. Non riusciva a sopportarlo. Ogni gesto di Grant lo nauseava, e la sua politica… Oh, quella l’aborriva.
– Be’, ci fu una terribile scenata, con Ira che gridava e offendeva Grant, e fino alla fine dei suoi giorni mio fratello ha sempre sostenuto che quella sera ebbe inizio la vendetta di Grant contro di noi. Ira aveva un modo di presentarsi senza maschera. Come tu lo vedi cosí è, e non nasconde nulla, non accampa scuse. Questo era il suo magnetismo, per te; ma è anche ciò che lo rendeva odioso ai suoi nemici. E Grant era uno dei suoi nemici. L’alterco durò meno di tre minuti, ma, secondo Ira, tre minuti che decisero la sua sorte, e la mia. Mio fratello aveva umiliato un discendente di Ulysses S. Grant, un uomo di Harvard e uno dei dipendenti di William Randolph Hearst, per non parlare del marito dell’autrice di Eloisa e Abelardo, il piú grosso bestseller del 1938, e della Passione di Galileo, il piú grosso bestseller del 1942: e noi avevamo chiuso. Eravamo finiti: insultando pubblicamente Bryden Grant, Ira aveva contestato non soltanto le impeccabili credenziali del marito, ma anche l’inestinguibile bisogno della moglie di essere nel giusto.
– Ora, io non sono certo che questo spieghi tutto: ma non perché nell’uso del potere Grant fosse meno temerario del resto della banda di Nixon. Prima di andare al Congresso teneva quella rubrica sul «Journal-American», una rubrica mondana trisettimanale su Broadway e Hollywood, con dentro un pizzico di vilipendio all’Eleanor Roosevelt. Fu cosí che iniziò la carriera di Grant nella pubblica amministrazione. Fu questo a qualificarlo cosí bene per un posto nella Commissione per le Attività Antiamericane. Era un giornalista mondano prima che questo diventasse il grosso business che è oggi. Ci fu dentro dall’inizio, nel momento dei grandi pionieri. C’era Cholly Knickerbocker, e Winchell e Ed Sullivan, e Earl Wilson. C’era Damon Runyon, c’era Bob Considine, c’era Hedda Hopper: e Bryden Grant era lo snob del gruppo, non il teppista di strada, non il ladruncolo, non l’informatore gola profonda che frequentava Sardi o il Brown Derby o la palestra di Stillman, ma il sangue blu della marmaglia che frequentava il Racquet Club.
– Grant iniziò con una rubrica che si chiamava «Me l’ha detto Grant» e, se ti ricordi, arrivò quasi a diventare il capo dello staff della Casa Bianca nixoniana. L’onorevole Grant era uno dei grandi favoriti di Nixon. Fece parte, come Nixon, della Commissione per le Attività Ant...

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