Non deve accadere
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Non deve accadere

  1. 432 pagine
  2. Italian
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Non deve accadere

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Informazioni sul libro

Johanne Vik, che sa ricavare da casi separati il profilo di un assassino, e Yngvar Stubø, il detective impulsivo e geniale, si sono sposati e vivono con una bambina neonata e l'altra figlia di Vik. Ma Vik sente che la tranquillità è apparente. E ha sempre piú paura. Perché sa che nei delitti senza movente che stanno sconvolgendo la Norvegia c'è l'impronta di qualcosa che lei stessa ha fatto di tutto per dimenticare.
E che il misterioso assassino seriale ha un obiettivo molto preciso in mente. Qualcosa che non deve assolutamente accadere.
Il romanzo che conferma il talento di una superba esploratrice della psiche umana, amata da milioni di lettori nel mondo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409374

XI.

Line Skytter entrò nello studio ansimando. Le pantofole le stavano grandi. L’accappatoio doveva essere stato acquistato per qualcun altro. Anche se arrotolate diverse volte, le maniche erano ancora troppo lunghe.
– Va bene che sei la mia migliore amica, – disse sedendosi sul letto degli ospiti, – ma spero che non prenderai l’abitudine di venire ogni sabato mattina alle sette e mezzo per farti prestare il mio pc. Fra l’altro, dov’è Kristiane? Non doveva stare da voi oggi?
– L’ho lasciata dai vicini, – mormorò Johanne. – Da Leonard.
Di fianco alla tastiera c’era un taccuino consunto. Sebbene avesse sempre saputo dove cercarlo, erano anni che non lo apriva. Tredici anni, pensò. Da allora aveva cambiato casa tre volte. E altrettante volte aveva ritrovato quel taccuino in una scatola da scarpe insieme con altri piccoli tesori: un anello d’ottone di quando da bambina, a cinque anni, si era fidanzata con il ragazzo piú carino del vicinato. Il braccialetto di plastica che Kristiane aveva avuto al polso dopo la nascita. Figlia di Johanne Vik. Una lettera d’amore di Isak. Il cammeo marrone della nonna materna.
Il taccuino.
Tre volte aveva deciso di buttarlo via. Ogni volta aveva cambiato idea. Il taccuino giallo con il dorso a spirale e un minuscolo cuore sulla penultima pagina avrebbe continuato a essere con lei. Un giorno aveva scritto una W al centro del cuoricino. Puerile. Ma ero una bambina, pensò. Una bambina di ventitre anni.
– Che stai cercando? – chiese Line.
– È meglio che tu non lo sappia. Comunque grazie per avermi lasciata venire di nuovo. Il nostro pc è un disastro. Zeppo di virus e lento come una lumaca.
– È un piacere. Non ci vediamo quasi piú.
– Ho avuto una bambina un mese fa, Line! E prima del parto me ne sono andata in giro per sedici settimane con un prolasso e problemi di insonnia.
– Tu li hai sempre avuti, problemi di insonnia, – disse Line. – Perché non resti da me, oggi? Quando hai finito possiamo andare in città. Facciamo un po’ di shopping. Andiamo al bar. Ormai è proibito fumare praticamente ovunque, non ci saranno problemi per Ragnhild.
Si volse. La carrozzina era sotto il davanzale della finestra.
– E tanto a quell’età lí dormono sempre.
– Non proprio, – disse Johanne. – Comunque, grazie per l’invito, ma dopo devo tornare a casa.
– Dov’è Yngvar? Come vanno le cose tra voi? È sempre pazzo di Ragnhild? Scommetto che…
Johanne fece un profondo sospiro e fissò Line da sopra gli occhiali.
– Ti sono assolutamente grata per l’ospitalità, – disse con enfasi. – Ma se decido di disturbare un’amica senza figli, festaiola e nottambula il sabato mattina presto, lo faccio perché mi sto occupando di qualcosa di importante. Dici che posso lavorare in pace per qualche ora? Quando ho finito chiacchieriamo quanto vuoi.
– Per carità, – disse Line alzandosi. – Dio mio, sei…
– Line!
– Okay. Metto su il caffè. Se ne vuoi, dimmelo.
La porta si chiuse sbattendo leggermente. Johanne si girò verso la carrozzina. Nessun movimento. Nessun rumore. Tirò un sospiro di sollievo.
Anche se ormai è passato un mese dal parto, continuo ad aver bisogno di starmene in santa pace, pensava ogni volta che Line le telefonava, sua sorella la seccava o Yngvar suggeriva cautamente che sarebbe stato simpatico ricevere qualche visita. Una cenetta, magari, o un caffè la domenica pomeriggio? Una volta fatta la domanda e notato il leggero movimento delle spalle di Johanne, lasciava perdere. Cambiava discorso. Lei non ci pensava piú. Finché il telefono non ricominciava a squillare e qualcuno chiedeva di venire a vedere Ragnhild, di venire a salutare tutti.
Doveva tornare ad avere notti normali.
Doveva dormire.
Le sue dita scorrevano sulla tastiera.
www.fbi.gov
Un semplice clic e si immerse nella storia. Soprattutto perché non sapeva bene quello che voleva. Sotto la bandiera a stelle e strisce, John Edgar Hoover era descritto come un leader abile e democratico e, sul piano politico, come un modello di neutralità che aveva fatto scuola per quasi mezzo secolo. Persino ora, nel Duemila, a oltre trent’anni dalla sua morte, quel pervertito veniva patriotticamente celebrato come il visionario ispiratore responsabile del moderno Fbi, il corpo di polizia piú potente del mondo.
Johanne sorrise, e dovette soffocare una risata.
Entusiasmo. Fiducia in se stessi. L’indomita, contagiosa superiorità americana. Johanne era giovane, innamorata e stava per diventare una di loro.
Il taccuino rimaneva chiuso.
Cliccò sul link «The Academy». Guardando l’immagine di quell’edificio immerso in un parco dove le foglie degli alberi avevano magnifici colori autunnali, provò una fitta allo stomaco. Non voleva ricordare Quantico e la Virginia. Si rifiutava di rivedere Warren davanti a lei mentre entrava nell’aula con passo sicuro, non voleva pensare alla folta frangia di capelli grigi che gli cadeva sugli occhi quando si chinava sui suoi allievi, spesso su di lei, citando Longfellow e ammiccando mentre declamava l’ultimo verso. Johanne lo udí ridere, quella risata sonora e contagiosa, una risata cosí americana.
Il taccuino rimaneva chiuso.
Aprirlo, con tutti gli indirizzi pericolosi che conteneva, avrebbe significato tornare indietro nel tempo. Per tredici anni aveva incapsulato i mesi a Washington, le settimane a Quantico, le notti con Warren, i picnic a base di vino e bagni nudi nel fiume, persino l’avvenimento catastrofico e innominabile che, alla fine, aveva rovinato tutto e che l’aveva quasi distrutta.
Non voleva.
Sollevò il taccuino giallo. Era privo di odore. Passò la punta della lingua sulla spirale. Metallo freddo, acido.
L’immagine dell’Accademia prendeva metà schermo.
L’auditorio, la cappella. Hogans Alley. Giornate impegnative, birra la sera, cene con gli amici. Warren sempre in ritardo, con la testa fra le nuvole mentre beveva la sua pinta a lunghi sorsi. Lasciavano gli altri separatamente, prima lui, pochi minuti dopo lei. Come se nessuno sapesse.
Il taccuino sarebbe rimasto chiuso. Aprirlo non era necessario.
Non era necessario perché Johanne ricordava.
Adesso sapeva che cosa stava cercando da quando Yngvar era tornato a casa la sera del ventun gennaio, esattamente un mese prima, e le aveva raccontato del cadavere con la lingua recisa a Lørenskog. Quella storia le era rimasta nella mente, in modo vago e confuso, come una ragnatela in una soffitta buia. L’aveva angustiata alla morte di Vibeke Heinerback e spaventata quando Vegard Krogh era stato ritrovato trentasei ore prima, morto, con una stilografica di marca profondamente conficcata in un occhio.
E adesso questo.
Uno sguardo di sfuggita in quello spazio segreto e dimenticato era sufficiente.
Ragnhild iniziò a piangere. Johanne mise il taccuino nella borsa, chiuse rapidamente le pagine che aveva visitato su internet, si disconnesse, si infilò la giacca e si alzò.
– Buon Dio, – disse Line, che intanto si era vestita. – Vai già via?
– Grazie mille per l’aiuto, – disse Johanne dandole un bacio sulla guancia. – Devo proprio scappare. Ragnhild ha fame.
– Ma puoi…
La porta si chiuse.
– Buon Dio, – mormorò Line Skytter e tornò nel soggiorno.
Non aveva mai visto la sua amica cosí eccitata.
La calma, gentile, prevedibile Johanne.
La noiosa Johanne Vik.
Mats Bohus era rimasto in clinica un mese esatto. Le cifre gli piacevano. I numeri non creavano mai problemi. Le date si susseguivano ordinatamente e non c’era niente da discutere. Era arrivato quattro settimane e tre giorni prima. Erano le sette meno cinque di mattina quando si era finalmente trovato davanti all’ingresso. Era andato a zonzo per Oslo tutta la notte. Un gatto lo aveva seguito nell’ultimo tratto di percorso, a partire da Bislett, dove lui si era fermato per alcuni minuti con lo sguardo fisso sulla propria finestra. Non c’era niente lassú, se non il buio completo. Ovviamente non c’era nessuno in quell’appartamento; lui viveva da solo. Poi aveva udito il gatto miagolare e si era girato. Odiava i gatti.
Era ovvio che sarebbero arrivati.
Non leggeva i giornali.
Non da quando le cose si erano messe come si erano messe. La neve non sembrava voler smettere di cadere. Di notte, quando gli altri dormivano, rimaneva seduto a osservare i fiocchi volteggiare nel cielo scuro. In verità non erano bianchi. Erano piú vicini al grigio, o a un blu luminescente. Di tanto in tanto qualcuno veniva a dargli un’occhiata. Gli dicevano che la neve aveva smesso di cadere. Loro non potevano vederla.
– Mats Bohus, – disse l’uomo grande e grosso. – Questo è il tuo avvocato. Kristoffer Nilsen. Il dottor Bonheur lo conosci. Il mio collega si chiama Sigmund Berli. Hai bisogno di qualcosa?
– Sí, – rispose Mats Bohus. – Ho bisogno di molte cose.
– Volevo dire un caffè o qualcosa del genere. Un tè?
– No, grazie.
– Dell’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non deve accadere
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. X
  14. XI
  15. XII
  16. XIII
  17. XIV
  18. XV
  19. XVI
  20. XVII
  21. Giovedí, 4 giugno 200
  22. Epilogo
  23. Il libro
  24. L’autrice
  25. Della stessa autrice
  26. Copyright