Io vi maledico
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Io vi maledico

  1. 192 pagine
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Io vi maledico

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Informazioni sul libro

Viaggio alle radici della rabbia. Le voci di chi non ha voce, gli sguardi e le parole di un Paese che cambia. Storie vere dell'Italia fragile. «Io vi maledico» c'è scritto sulla lapide di marmo che un operaio dell'Ilva di Taranto ha voluto mettere per strada, sotto casa sua. E «Io vi maledico», dice la figlia dell'imprenditore che si è ucciso strozzato dall'usura bancaria. Sono due delle storie che compongono il ritratto corale di un Paese disorientato, in cui rabbia e frustrazione possono trasformarsi in malattia sociale o in vento di cambiamento. C'è il ragazzo sardo che voleva partecipare a X Factor, non l'hanno preso ed è tornato in miniera. C'è Michele, 4 anni, che ha fatto il test per misurare la rabbia e doveva prendere delle medicine, ma sua madre ha deciso di no. La fatica dei genitori, la sazietà disillusa dei figli. Emanuela che ha scritto due volte a Marchionne e che sa - glielo ha spiegato suo padre - cosa significa «comportarsi da uomo». C'è Milagros che racconta che gli indignados sono orfani delle carte di credito e figli degli sfratti. C'è la rabbia degli adolescenti, cui i professori non sanno dare risposte. Ci sono cinque donne sindaco del Sud, dove le teste di maiale non son maschere da indossare alle feste. E c'è Atesia, dove le donne del call center rispondono la notte ai maniaci per non perdere 80 centesimi lordi. Un ritratto scritto con parole dure come la pietra. O come la verità. Unico antidoto alla rabbia di chi è stanco di non essere ascoltato.

Domande frequenti

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Informazioni

Ragazzi, bambini, la generazione fragile

3.
Adhd

Dove Michele, 4 anni, ha fatto il test per misurare la rabbia e doveva prendere delle medicine ma sua madre ha deciso di no.
La mia amica Paola – madre di Michele, 4 anni – è stata chiamata dalla maestra. Il bambino picchia i compagni, è aggressivo e sempre nervoso, non riesce a stare seduto fermo, anche quando è in piedi balla da una gamba all’altra. Non segue la lezione, non riesce ad ascoltare una storia piú di due minuti. La psicologa della scuola pensa che possa avere un disturbo di iperattività, o difetto di attenzione. Suggerisce di fare il test Adhd, sigla che chiunque abbia oggi un figlio bambino ha sentito nominare almeno una volta: Attention deficit hyperactivity disorder, classificato come malattia. In America pare che ne soffrano la maggioranza dei ragazzini fra 7 e 9 anni, ma i sintomi si presentano molto prima. Già a 3 anni i pediatri piú scrupolosi sottopongono i bambini al test in modo massiccio. Paola va dal pediatra. Il test è un semplice questionario di venti domande, che compila. Il bambino non riesce a prestare attenzione ai particolari e si mostra distratto? Sí. Il bambino commette errori di disattenzione nei compiti e nei giochi? Sí. Sembra talvolta non ascoltare quando gli si parla direttamente? Sí. Domanda 10: muove mani e piedi, si dimena sulla sedia? Sí. 11: lascia il proprio posto a sedere in classe quando ci si aspetta che resti seduto? Effettivamente. Domanda 16: il bambino risponde alle domande prima che siano completate? A volte, quando gli va di rispondere. Domanda 17: ha difficoltà ad attendere il proprio turno nel gioco? Sí, anche se non è sempre chiaro quale sia «il proprio turno», in fondo è un gioco. 19: non rispetta gli oggetti e gli spazi altrui? Sí, anche se l’idea di «spazio altrui» a 4 anni forse non è molto precisa. Paola ha risposto sí a tutte e venti le domande, ha impiegato cinque minuti. Il pediatra guarda il questionario e poi guarda lei come a dire: signora, lo vede da sola. Di seguito le spiega che la terapia farmacologica a base di atomoxetina è estremamente efficace e sarebbe indicata per un bambino dell’età di Michele, al contrario del Ritalin (a base di metilfenidato) che essendo un farmaco cosiddetto «stimolante» agisce sul livello di dopamina e può generare dipendenza. Inoltre non si conoscono ancora a sufficienza gli effetti a lungo periodo di questo tipo di farmaci, lui – il pediatra – si sentirebbe di sconsigliarlo in età prescolare.
Paola, che ha studiato Conservazione dei beni culturali ed è specializzata in mosaici, è sopraffatta da un senso di angoscia. I nomi di principi attivi con la x la mettono a disagio, inoltre non è sicurissima di sapere davvero cosa sia la dopamina. Prova a dire che la nascita delle gemelle, che hanno ora dieci mesi, potrebbe forse aver influito sul nervosismo di Michele. Che le bambine piangono in continuazione e lei e suo marito sono in un gorgo di cacche coliche rigurgiti influenze, che quando finisce una comincia l’altra e che le piccole non hanno ancora ben capito la differenza tra il giorno e la notte, per cui alle quattro del mattino capita che vogliano giocare. Che in effetti da quando sono nate Irene e Gemma di Michele, che ormai è grande, si occupa soprattutto la nonna e che magari questo lo fa sentire abbandonato. Poi si corregge: grande, insomma, intendo dire grande rispetto alle bambine. Comunque mi pare soprattutto che Michele sia piuttosto arrabbiato con noi, ecco, che ci rimproveri in qualche modo di avergli inflitto le sorelle, che per giunta – per quanto stiano quasi sempre in camera con noi, e mio marito è contrarissimo per via dell’intimità ma come si fa la notte quando piangono? – ecco insomma le bimbe hanno occupato piú della metà della sua stanza, col fasciatoio i lettini e tutto il resto.
Il pediatra la ascolta con pazienza un po’ tesa, si sentono i pianti dei bambini in sala d’attesa, è già passata mezz’ora di visita e forse – pensa Paola – ha fretta. Le dice che senz’altro le condizioni ambientali influiscono, e certo la nascita di due sorelle è un evento traumatico. Tuttavia, vede signora, una cosa sono le cause del disturbo, un’altra i sintomi, una terza la diagnosi. Qui il test parla chiaro: i sintomi indicano una diagnosi, e secondo il protocollo la terapia è questa. Se poi lei crede di poter incidere sui fattori ambientali, per esempio andando a vivere in una casa piú grande dove i suoi figli abbiano una camera a testa, lasciando il lavoro almeno per un periodo per occuparsi a tempo pieno di loro e non affidare Michele alla nonna, concedere loro attenzione esclusiva facendo delle attività individuali con ciascuno separatamente – una vacanza da sola con Michele, per esempio, potrebbe ricreare un’intimità tra voi e tranquillizzarlo. Infine, glielo raccomando, se potesse dotarsi di una persona che viva in casa e possa alzarsi la notte al vostro posto in modo che lei e suo marito siate riposati al risveglio e pronti ad affrontare la giornata: ecco, senz’altro tutto questo sarebbe utile. Non scarti, tuttavia, la possibilità di una terapia farmacologica: ha tempi contenuti e risultati efficaci. Ci pensi, ne parli a casa, mi faccia sapere.
Paola mi chiede, al telefono, se io pensi che sia stato un errore fare le gemelle. Non che sapesse prima che sarebbero state gemelle, certo. Voleva un fratello per Michele, che non crescesse figlio unico. Poi sono venute le bambine, che poteva fare. Si sente in colpa perché non ha soldi per prendere una casa piú grande, in quella dove vive la stanza per una persona fissa non c’è, se lasciasse il lavoro per dedicarsi ai figli precipiterebbero nell’indigenza. «Tu hai idea di cosa costino tre bambini piccoli? Lo sai che tutto il mio stipendio, tutto, se ne va nella spesa al super? Cosa gli do da mangiare se smetto di lavorare?» Ma il punto su cui le si incrina la voce di pianto è la faccenda dell’attenzione esclusiva. «Lo so, ha ragione il medico. Già sbaglio con le gemelle a chiamarle gemelle. Dovrei chiamarle sempre coi loro nomi, una per una. E dovrei fare giochi separati, farle sentire uniche, mettermi in ascolto della loro personalità e non imbacuccarle insieme nel passeggino doppio in quella mezz’ora di passeggiata ai giardinetti, che poi lo sai quanto mi dànno sui nervi i giardinetti con tutte le mamme carine e gentili. E con Michele, dovrei fare i disegni e leggergli dei libri, magari fare le torte insieme a lui. Ecco, una torta. Ma io non le so fare le torte. Ce l’hai una ricetta facile facile, che magari provo? Perché guarda, a me quella cosa dell’atomoxetina o come si chiama mi mette proprio l’ansia. Non ci capisco nulla, ma secondo me è un calmante. E io a Michele non glielo voglio dare un calmante perché Michele è solo incazzato nero e sai cosa penso? Penso che ha ragione».

4.
Professori

Dove si parla di dismemoría, scarpe con lo stretch, casse di pesce ai mercati generali, paradenti per il rugby. E poi di «figli saturi», della scomparsa di ordine e obbedienza, di Meredith Haaf che ha 29 anni e dice cosa significa cliccare «mi piace» e «nascondi» su Facebook. Con una filastrocca finale.
A ridosso degli scrutini di fine anno Sara viene convocata dalla coordinatrice di classe di suo figlio Davide, 15 anni. È la prof di Italiano e Storia: una persona di vedute molto ampie, colta senza presunzione e di gran cuore. Vuole bene a Davide, evidentemente. Lo aiuta, lo segue, è indulgente senza smettere di essere esigente. Anche lui ne ha rispetto. Bene, dunque. Un buon insegnante a questa età è una grande fortuna. La prof accoglie Sara in sala professori col sorriso e le dice che Davide, purtroppo, potrebbe essere rimandato in Storia. È quasi sicuro, dal momento che alle interrogazioni alla cattedra nell’ultimo pentamestre (sí, non ci sono piú i trimestri di una volta) ha fatto sempre scena muta. La prof pensa che il ragazzo abbia studiato, ci ha parlato e lui glielo ha giurato: ma, le ha anche detto, quando viene chiamato a rispondere improvvisamente sente come un blocco, non ricorda piú niente, è incredibile, è una cosa difficilissima da spiegare ma si paralizza e dalla sua bocca non esce una parola. La prof dice che potrebbe trattarsi di dismemoría. Ha seguito un seminario di recente. È un disturbo piú diffuso di quanto non si creda. Un difetto della memoria tampone, quella a breve termine: uno studia anche tantissimo, impara a mente persino, ma appena dopo un giorno non è in grado di ricordare niente. Sara non ne ha mai sentito parlare. Conosceva la dislessia, disturbo serissimo e in tempi recenti epidemico – per via dei miglioramenti diagnostici, certo – la disgrafia, che una volta si confondeva con la brutta calligrafia ma oggi sappiamo invece che è una fuga tangenziale della mente che impedisce di riprodurre correttamente i segni grafici, spesso associata alla disprassia, anche questa la conosce, disturbo della coordinazione e del movimento che impedisce per esempio di allacciarsi correttamente le stringhe delle scarpe da cui l’uso massiccio, in commercio, delle scarpe con lo stretch. Fare i fiocchi alle stringhe è una cosa novecentesca, obiettivamente inutile, non si vede perché accanirsi visto che esiste lo stretch. La dismemoría però non l’aveva mai sentita nominare. Siccome ha sviluppato purtroppo un certo cinismo visualizza immediatamente i volti di alcuni campioni olimpici di dismemoría, tutti attualmente al governo, ma non si lascia distrarre e ascolta. La prof dice che è quasi sicura che Davide soffra di questo grave disturbo. Ricorda perfettamente nozioni remote, dice, ma non quelle recenti. Perciò suggerisce di fargli fare un test clinico. Perché, aggiunge, se avessimo una diagnosi di dismemoría certificata, lei capisce signora, in sede di consiglio dei docenti non ci sarebbe nessuna discussione: il ragazzo sarebbe promosso a giugno, come è giusto che sia date le sue qualità.
Mentre torna a casa Sara pensa che Davide non ha studiato Storia. Mai. Non ha proprio aperto il libro. E pensa anche, però, che è stato capace di convincere la professoressa di essere vittima di una menomazione che non poteva conoscere, ma che per sua massima fortuna invece esiste ed è addirittura catalogata e nota. Chissà cosa deve averle detto. Questi ragazzi hanno imparato dall’asilo l’imperativo categorico del tempo: esibirsi, dimostrare carattere, rifuggire l’anonimato, sedurre, piacere. Raccontare balle, detto in soldoni, ma raccontarle bene. Se lo rimandano a settembre è giusto. Studia tutta l’estate e poi vedrai se non risponde alle domande sul Concilio di Trento. Appena torna, mi sente.
Anche il prof di Greco ha le sue rimostranze. Dice che questi ragazzi sono «saturi». Che non hanno motivazione al successo scolastico. Dice che sono sovraccarichi di stimoli, e che non hanno «ansia di riscatto sociale». Dice proprio cosí. Poi racconta che lui è cresciuto in Calabria da genitori poverissimi, e che non potendosi comprare i libri ha studiato tutta la vita in biblioteca. Che per lui il greco era una religione, vedeva quella strada come la via per la liberazione dal bisogno. Che certo, se uno ha centomila libri a casa in biblioteca non ci va. E che però finisce per non dare nessuna importanza ai libri, cosí. «Se voi scaricaste le casse ai mercati generali i vostri figli sarebbero piú bravi a scuola», dice. La madre immagina di andare a scaricare le casse ai mercati generali per favorire lo studio di Davide. Indugia nella fantasia, non le dispiace. Immagina la fatica, la luce e l’odore del pesce la mattina all’alba. Pensa a Davide in biblioteca, ansioso di un destino diverso. Rabbioso, dunque bravo a scuola. Pensa che il prof di Greco ha ragione, in un certo senso. Ma pensa anche che noi non abbiamo colpa di essere quello che siamo, che è andata cosí, non ci hanno regalato niente. Accidenti se non ci hanno regalato. Pensa che se domattina comunicasse la sua decisione di licenziarsi e di andare a lavorare ai mercati generali non è detto che automaticamente Davide imparerebbe a tradurre Senofonte. Non è reversibile, il processo. Per fortuna o purtroppo.
Cambio quadro. A due generazioni di distanza c’è mio figlio Bernardo, 9 anni. (Digressione: ho imparato di recente che le generazioni oggi si misurano da quanti anni avevi quanto è uscito l’iPhone sul mercato. Se ne avevi 10, 14 o 18 è enormemente diverso. Avevi un account di posta elettronica prima o dopo i dieci anni? A che età eri su Myspace? Hai cominciato a comprare cliccando accetta su PayPal senza bisogno della password, perché quella di famiglia era già memorizzata? Hai saputo naturalmente, senza sapere perché, cosa sia un browser o hai avuto bisogno che te lo spiegassero e nonostante le spiegazioni non hai ancora davvero capito? Possono passare sei mesi, fra una generazione e un’altra, se l’unità di misura è questa). Dunque, Bernardo. Il piccolo di casa. Quello che a 3 anni diceva «quitta» per dire vattene, perché sul computer il comando quit significa «esci». Chiamano gli allenatori della squadra di rugby. Gente solida, pratica. Sono gli allenatori della Under 9, da anni praticamente dei baby-sitter: prendono i bambini e li portano in trasferta, eroici, anche per tre giorni. Li amiamo. Piuttosto preoccupati, direi meglio seri, ci informano che da qualche anno hanno notato che quando arrivano alla pre-agonistica, a 14 anni, i ragazzi sono molli. Demotivati. Non competitivi. Sono bravi, per carità. Giocano bene. Ma non sono incazzati. Non combattono per vincere. Non gliene frega niente del risultato. Vanno lí, si divertono, si placcano un po’, poi basta. Allora per evitare che succeda questo anche ai nostri – ché se uno fa sport l’idea di vincere una gara non è poi cosí balzana, diciamo che dovrebbe far parte dell’orizzonte di scenari possibili – consigliano, gli allenatori, di smettere di preparare noi le borse. L’ideale sarebbe che i ragazzi se le facessero da soli, mettendoci dentro tutto quello che gli serve e se se lo dimenticano pazienza. Tipo: se si dimenticano il paradenti e quel giorno si rompono un dente vedrete che nella vita il paradenti non se lo dimenticheranno piú. Questo è sicuro, ma il terrore dei genitori all’idea di un figlio col dente rotto è ugualmente palpabile. Un dente rotto è per sempre. Significa protesi, dentista, controlli periodici, sorriso difettoso. Gli allenatori capiscono, non vivono mica fuori dal mondo. Va bene, dicono: il paradenti potete metterglielo voi in borsa. Però dovreste evitare di entrare negli spogliatoi a fargli la doccia e asciugargli i capelli, una mano al phon e l’altra a scompigliare l’attaccatura sulla nuca. Dovreste evitare di ricomprargli i pantaloncini ogni volta che li dimenticano in trasferta, che sennò non c’è motivo per cui dovrebbero ricordarsene. Insomma dovreste lasciarli fare, cosí che si sentano un po’ responsabili delle loro cose, delle conseguenze delle loro azioni, cosí che capiscano che devono impegnarsi per ottenere un risultato. Pensate di potercela fare? Silenzio. Segue, per e-mail, pomeridiano e serale dibattito.
Mi viene in mente Aprile, il film di Nanni Moretti. In particolare la sequenza tragica su «com’è il verso delle balene?» Il bambino despota che telefona al genitore ogni momento, perché gli è stato detto questo è il mio numero chiama quando vuoi, e difatti il bambino chiama: continuamente. Il genitore gli lascia il numero e lo sollecita a chiamare «ogni volta che ne senti il bisogno» perché si sente in colpa per l’assenza, il bambino fa domande inessenziali – dove sei, quando torni – chiama semplicemente per ricordare al genitore che non è lí con lui in quel momento, che non gli sta leggendo una favola, non sta giocando alle Winx o ai Pokémon. Chiama per disturbare, lo so che detto cosí è brutto e dà fastidio ma è questo che fa: chiama per ricordare al genitore che qualunque altra cosa stia facendo – lavorare, leggere, studiare, fare l’amore, mettere a punto un telescopio, discutere un contratto collettivo – niente può essere piú importante che dedicarsi al proprio figlio, fargli sentire che ha la priorità su tutto il resto, niente ha piú importanza di fronte al suo bisogno.
Ma è un bisogno? È giusto assecondare ogni frazione di capriccio? È utile alla crescita, allo sviluppo, all’armonia di una personalità equilibrata?
Non lo so, davvero non lo so. Gli allenatori di rugby ci dicono che l’ideale sarebbe che i bambini fossero lasciati un po’ da soli con le loro decisioni, coi loro errori e con le loro mancanze perché non c’è niente di piú istruttivo dell’errore, questo ciascuno lo sa. I genitori hanno paura degli errori dei figli, delle loro debolezze, perché pensano di poterli e di doverli prevenire, evitare, correggere in radice. Perché si sentono in colpa, in definitiva. I bambini crescono saturi, come dice il prof di Greco, privi di bisogni essenziali e di desideri profondi. Non tutti, certo. Esistono bimbi che non hanno niente, basta allontanarsi un poco dall’orizzonte della sazietà illuminata della borghesia progressista occidentale per vederlo. Però è anche vero che questo è il modello dominante. Perfino in Africa le pubblicità dei pannolini hanno come protagonisti una coppia di genitori giovani, relativamente chiari di pelle, sorridenti e dediti al loro unico figlio immortalato nella foto. Persino in Africa, dove i bambini sono neri, ne nascono dodici per famiglia e i pannolini, quelli usa e getta delle multinazionali, non li usa nessuno.
Il pericolo del «si stava meglio quando si stava peggio» è in agguato, lo so. Ma davvero non è questo il punto: è che nell’arco di pochi anni qualcosa di definitivo è successo e sarebbe meglio capire cosa. Io me lo ricordo quando i nonni ci dicevano che non si doveva parlare se non interrogati, che non si dovevano contraddire le persone adulte («anche se uno sbaglia tu non lo devi correggere in pubblico», mi raccomandava mia nonna. Non devi mettere nessuno in imbarazzo). Mi ricordo di quando ai bambini si chiedeva principalmente di tenere in ordine le loro cose, di essere puliti e obbedienti. Non era moltissimo tempo fa, diciamo quarant’anni. Leggo, nello studio di Miriam Gebhardt sulla paura che suscitano i bambini tiranni, che dal 1966 al ’77 l’obiettivo educativo «obbedienza» è passato dal numero uno della classifica al numero quattordici. L’obiettivo «ordine» dal quarto posto al ventiduesimo. Pensa dal ’77 a oggi. Certo, una volta nascevano otto figli in media per famiglia, ne sopravvivevano la metà. Oggi ne nasce uno-barra-due ed è già un lusso, quando accade. Una specie di miracolo. Perciò i bambini non fanno chiasso ma un meraviglioso suono, una musica. Sono invitati a esprimersi liberamente, a dipingere le pareti di casa a saltare nudi sui letti a interrompere quando vogliono coi loro magnifici nonsense improvvisamente dotati di un senso filosofico definitivo, sono sollecitati a esibirsi ed esprimersi, a cantare e ballare sebbene con esiti tragici eppure sempre applauditi, soprattutto sono invitati a parlare: a dire tutto quello che gli passa per la mente, per l’estasi di genitori disposti a incorniciare le loro massime. Io mi ricordo di quando i miei nonni si davano del ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Io vi maledico
  4. Prologo La rabbia debole
  5. Andata e ritorno
  6. Ragazzi, bambini, la generazione fragile
  7. Intermezzo
  8. Parole al vento
  9. Pigs
  10. Grandi speranze
  11. Arrangiarsi
  12. Politica al buio
  13. Epilogo
  14. Consigli di lettura
  15. Copyright