La piccola Dorrit
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La piccola Dorrit

  1. 1,072 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Amy, la devota figlia del vecchio William Dorrit, si prende cura del padre rinchiuso da molti anni per debiti nella prigione londinese di Marshalsea. La piccola Dorrit è segretamente innamorata del giovane amico di famiglia Arthur Clennam, ma un'improvvisa eredità cambierà completamente le cose... In questo romanzo, scritto tra il 1855 e il 1857, il grande scrittore inglese concepí un potente apologo su povertà e ricchezza, scagliandosi come mai prima contro la società vittoriana e il ceto medio che la rappresentava.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408193

Libro primo

Povertà

Capitolo primo

Sole e ombra

Un giorno, trent’anni fa, Marsiglia ardeva sotto il sole. Un sole fiammeggiante, un torrido giorno d’agosto, allora come oggi e come sempre sarà, non era cosa rara nel sud della Francia. In città e nei dintorni, tutto pareva fissare il cielo ardente, che a sua volta ricambiava quella fissità dello sguardo, al punto che quel fissare era diventato un’abitudine universale. I forestieri erano paralizzati dallo sguardo fisso delle case bianche, dallo sguardo fisso dei muri bianchi, dallo sguardo fisso delle vie bianche, dallo sguardo fisso degli stradoni polverosi, delle colline inaridite, della vegetazione bruciata. Le uniche a non condividere questa abitudine di fissare in modo abbagliante erano le viti ricurve sotto il peso dei grappoli. Ma anch’esse, di tanto in tanto, si concedevano una strizzatina d’occhio, quando un soffio d’aria infuocata ne agitava appena le foglie illanguidite.
Non un alito di vento increspava l’acqua sudicia del porto o il bel mare lontano. La linea di demarcazione fra il nero e l’azzurro indicava il punto che il mare non sorpassava, ma anch’esso giaceva tranquillo come lo stagno ripugnante col quale non si mescolava mai. Le barche prive di tende scottavano; le navi all’àncora si coprivano di vesciche; da mesi e mesi le pietre del molo non si freddavano né di giorno né di notte. Indiani, russi, cinesi, spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, genovesi, napoletani, veneziani, greci, turchi, tutti i discendenti dei costruttori della Torre di Babele convenuti a Marsiglia per i loro commerci cercavano l’ombra, rifugiandosi in ogni angolo che permettesse loro di sfuggire alla vista del mare troppo intensamente azzurro e del cielo ardente come porpora, adorno di un’immensa fiammeggiante gemma di fuoco.
Quello sguardo fisso universale faceva dolere gli occhi. Solo verso la linea lontana della costa italiana s’innalzava qualche nuvoletta di bruma prodotta dall’evaporazione del mare; l’intensità dello sguardo non si attenuava in nessun altro punto. In distanza, le strade soffocate dalla polvere fissavano dai fianchi della collina, fissavano dagli avvallamenti, fissavano dalla pianura interminabile. I pergolati di viti polverose che rivestivano le casette lungo la strada, e i filari monotoni di alberi inariditi che non offrivano piú ombra, languivano sotto lo sguardo fisso del cielo e della terra. Languivano i cavalli con le loro campanelle sonnolente, trascinando lunghe file di carri che si dirigevano quasi strisciando verso l’interno; languivano i carrettieri sdraiati quando, caso raro, erano desti; languivano i contadini esausti nei campi. Tutto ciò che viveva o vegetava era oppresso da quello sguardo, eccetto le lucertole che s’inseguivano veloci sulle muraglie di pietra grezza e le cicale che continuavano a frinire con un suono caldo e secco come quello delle raganelle. Persino la polvere riarsa era diventata bruna e qualcosa tremolava nell’atmosfera, come se l’aria stessa respirasse affannosamente.
Persiane, imposte, tende e tendoni, tutto era ermeticamente chiuso per difendersi da quello sguardo, cui bastava una fessura o il buco d’una serratura per precipitarvisi come una freccia incandescente; soltanto le chiese gli sfuggivano. Ma uscire dalla penombra dei pilastri e delle navate confusamente sparse di lampade tremolanti, popolate come in un’atmosfera di sogno da brutte ombre antiche piamente sonnecchianti, sputacchianti o questuanti, era come tuffarsi in un fiume di fuoco e nuotare disperatamente, per salvare la vita, verso il piú vicino cantuccio d’ombra.
Cosí, mentre la gente riposava oziando, distesa ovunque si offrisse un poco d’ombra, con qualche lieve mormorio di voci, qualche abbaiare di cani, qualche rintocco stonato di campana di tanto in tanto, o il rullo di un tamburo dispettoso, Marsiglia, quel giorno, come si avvertiva all’odore, abbrustoliva sotto il sole.
Quel giorno stesso due uomini si trovavano nella cella d’una prigione infame, cosí ripugnante che perfino lo sguardo invadente chiudeva le palpebre, lasciando loro solo pochi scarti di luce riflessa. Oltre agli uomini, c’erano una pancaccia nodosa e sbilenca fissata alla parete, una rozza scacchiera intagliata col coltello e delle pedine fatte di vecchi bottoni o di ossa tolte dalla minestra, un gioco di domino, due stuoie e due o tre bottiglie di vino vuote. La cella non conteneva altro, a eccezione dei topi e d’altri invisibili insetti nocivi, e dei due uomini, esseri altrettanto nocivi.
La cella riceveva quella poca luce da un’inferriata posta a difesa d’una specie di finestrone – che dava sulle scale oscure – attraverso il quale si poteva sorvegliare l’interno. Sotto l’inferriata, a un metro circa dal pavimento, su una larga pietra murata a guisa di davanzale, uno dei due uomini giaceva a metà sdraiato, con le ginocchia sollevate, i piedi e le spalle appoggiati alle due estremità dell’apertura. Le sbarre distavano una dall’altra tanto da permettergli di passarvi il braccio fino al gomito, lasciandolo spenzolare negligentemente per stare piú comodo.
Il tanfo della prigione gravava su ogni cosa. L’aria imprigionata, la luce imprigionata, l’umidità imprigionata, gli uomini imprigionati, tutto era degradato dalla reclusione. I prigionieri erano pallidi e sparuti come il ferro coperto di ruggine, la pietra viscida, il legno putrido, l’aria viziata e la luce opaca. Come un pozzo, come un sotterraneo o come una tomba, la prigione ignorava lo splendore della luce esterna, e avrebbe conservato la sua atmosfera infetta anche in un’isola delle spezie in mezzo all’Oceano Indiano.
L’uomo disteso sul davanzale aveva perfino freddo. Con un movimento impaziente delle spalle si avvolse meglio nel mantello e brontolò:
– Al diavolo questo brigante di sole che non splende mai qui dentro!
Aspettava che gli portassero da mangiare, e osservava le scale, guardando di traverso fra le sbarre, con l’espressione d’una belva in attesa del pasto. Ma i suoi occhi, troppo vicini uno all’altro, non erano disposti nobilmente come quelli del leone; occhi acuti piú che lucenti, armi appuntite che si rivelavano su una superficie minima, non profondi né mutevoli, luccicavano, si aprivano e si chiudevano meccanicamente. Un orologiaio ne avrebbe fabbricato un paio migliore. Il naso aquilino, bello nel suo genere, era però collocato troppo in alto fra gli occhi troppo vicini. Per il resto, alto e robusto di persona, l’uomo aveva labbra sottili, a giudicare da quanto ne lasciavano scorgere i baffi, e una massa di capelli aridi, arruffati, di colore indefinibile ma striati di rosso. La mano con cui si sosteneva alla grata, col dorso solcato da graffi profondi appena rimarginati, era straordinariamente piccola e grassa e, senza la sporcizia della prigione, sarebbe apparsa anche straordinariamente bianca.
L’altro prigioniero, sdraiato sul pavimento di pietra, indossava una ruvida giacca marrone.
– Alzati, porco! – brontolò il primo. – Non dormire quando io ho fame.
– È lo stesso, padrone, – rispose il porco in tono sottomesso e non senza un certo umorismo. – Io posso svegliarmi o addormentarmi a volontà. È lo stesso.
Cosí dicendo si alzò, si scrollò, si grattò, per mezzo delle maniche si legò mollemente attorno al collo la giacca, che gli serviva al tempo stesso da coperta, e tornò a sedere sul pavimento sbadigliando, la schiena appoggiata alla parete di fronte alla grata.
– Che ore sono? – borbottò l’uomo del davanzale.
– Suoneranno le campane di mezzogiorno fra… una quarantina di minuti –. Durante la breve pausa si era guardato attorno come per cercare indicazioni.
– Sei un orologio. Come fai a indovinare le ore?
– Non so. Riesco sempre a indovinare sia l’ora sia il luogo dove mi trovo. M’hanno portato qui di notte dopo avermi tirato fuori da una nave, ma so bene dove mi trovo. Guardate! Questo è il porto di Marsiglia –. Inginocchiato sul pavimento, tracciò la pianta con l’indice scuro. – Qui c’è Tolone, dove sono le galere, e qui la Spagna. Là c’è Algeri: alla nostra sinistra Nizza: si percorre la Costa Azzurra e si arriva a Genova. Molo e porto di Genova; quarantena. Qui c’è la città coi suoi giardini a terrazze pieni di fiori scarlatti di belladonna. Ecco Portofino… poi Livorno, poi Civitavecchia e poi… ah, per Napoli non c’è piú posto, ma fa lo stesso: Napoli sta qui, – concluse essendo arrivato alla parete. Rimase in ginocchio e guardò il compagno di cella con uno sguardo assai vivace per uno rinchiuso in prigione. Era un ometto abbronzato dal sole, agile sebbene piuttosto tozzo, e portava gli orecchini. I denti bianchi illuminavano la grottesca faccia bruna, i capelli nerissimi gli cadevano a ciocche intorno alla gola abbronzata. Indossava una lacera camicia rossa aperta sul petto bruno, ampi pantaloni alla marinara, un paio di scarpe decenti: in testa portava un berretto rosso, e girata attorno alla cintura una fascia pure rossa nella quale teneva infilato un coltello.
– Guardate come so ritornare da Napoli! Guardate, padrone! Civitavecchia, Livorno, Portofino, Genova, la Costa Azzurra… Nizza lí dentro… Marsiglia… e qui voi e io. Dove metto il pollice sono le stanze del carceriere con le sue chiavi, e qui dov’è il mio polso tengono chiuso nella sua scatola il rasoio nazionale… la ghigliottina.
L’altro sputò e si raschiò la gola.
Subito dopo s’udí anche una serratura raschiarsi la gola e una porta sbatté. Qualcuno cominciò a salire lentamente le scale, e al rumore dei passi si univa il cicaleccio d’una vocina infantile; apparve il carceriere portando in braccio la sua figlioletta di tre o quattro anni e un cesto.
– Come va il mondo quest’oggi, signori? Vedete, la mia piccina è venuta a fare il giro con me per dare un’occhiata agli uccellini del suo papà. Be’, guarda gli uccellini allora, amor mio, guarda gli uccellini!
Reggendo la bambina contro l’inferriata, anche lui diede un’occhiata agli uccellini, specialmente a quello piú piccolo, della cui attività pareva si fidasse poco.
– Signor Giovanbattista, – disse, – vi ho portato il pane –. (Parlavano francese, ma l’ometto era italiano). – Se potessi consigliarvi di non giocare…
– Perché non lo raccomandate anche al padrone? – domandò Giovanbattista mostrando i denti in un bel sorriso.
– Oh, il padrone vince, – replicò il carceriere, guardando l’altro prigioniero con poca simpatia, – e voi perdete. È ben diverso. A voi toccano pane nero e birra acida, lui invece mangia salsicce di Lione, vitello in gelatina, pane bianco, stracchino, e beve vino buono. Guarda gli uccellini, amore!
– Poveri uccellini! – fece la bambina.
Appoggiato alla grata, il grazioso visetto pieno di divina compassione sembrava quello d’un angelo. Giovanbattista si alzò avvicinandosi all’inferriata come per un’attrazione. L’altro uccellino non si mosse, ma diede un’occhiata impaziente al paniere.
– Sta’ ferma, – disse il carceriere mettendo la figlioletta sull’orlo esterno della grata. – Ora darai da mangiare agli uccellini. Questa pagnotta è per il signor Giovanbattista. Per farla passare nella gabbia bisogna romperla. Ecco, l’uccellino addomesticato ti bacerà la manina. Questa salsiccia nella foglia di vite è per il signor Rigaud. Anche questo vitello in gelatina e questi tre panini bianchi sono per il signor Rigaud. E ancora questo formaggio e questo vino e il tabacco, tutto per il signor Rigaud. Che uccellino fortunato!
La bimba fece passare le cose a una a una, mettendole nella mano liscia, morbida e ben fatta di Rigaud con un certo timore che talora la spingeva a ritrarsi d’improvviso, guardandolo con la fronte aggrottata e con un’espressione mista di paura e di collera. Invece, porgendo i pezzi di pane scuro alle mani nodose, ruvide e abbronzate di Giovanbattista, che in tutte le dieci dita non aveva unghie abbastanza per formarne una del signor Rigaud, dimostrò la piú assoluta fiducia e, quando egli le baciò la manina, gliela passò amorevolmente sul viso. Il signor Rigaud, indifferente a quella diversità di trattamento, cercava d’ingraziarsi il padre ridendo e facendo cenni di testa alla bambina ogni volta che questa gli porgeva qualche cosa: e quand’ebbe finito di disporre convenientemente intorno a sé, sul davanzale dov’era sdraiato, tutte le sue cose, si mise a mangiare con appetito.
Quando il signor Rigaud rideva, il suo viso, interessante senza essere straordinario, si trasformava: i baffi risalivano verso il naso e il naso scendeva verso i baffi dandogli un aspetto crudele e sinistro.
– Ecco fatto, – disse il carceriere, rovesciando il cesto per farne cadere le briciole. – Ho speso tutto il denaro che avevo ricevuto: questo è il conto, e l’affare è concluso. Signor Rigaud, come vi avevo fatto prevedere ieri, il Presidente avrà il piacere della vostra compagnia oggi all’una.
– Per interrogarmi, eh? – domandò Rigaud, fermandosi col coltello in mano e la bocca piena.
– Avete detto bene. Per interrogarvi.
– E per me non ci sono novità? – domandò Giovanbattista, che aveva cominciato allegramente a masticare il suo pane.
Il carceriere scrollò le spalle.
– Madonna! Dovrò restar qui tutta la vita, padre mio?
– E che ne so? – fece il carceriere voltandosi verso lui con vivacità meridionale, gesticolando con le mani e con tutte le dita, quasi minacciasse di farlo a pezzi. – Amico, come potrei dirvi quanto tempo dovrete restare qui? Che posso saperne, Giovanbattista Cavalletto? Ch’io possa morire! Eppure qui ci sono prigionieri che non hanno la vostra dannata fretta di venire interrogati!
Cosí dicendo lanciò un’occhiata obliqua al signor Rigaud: ma questi si era rimesso a mangiare, sebbene con minor appetito.
Adieu, uccellini miei! – fece il carceriere riprendendo in braccio la piccina e insegnandole a ripetere le parole.
Adieu, uccellini miei! – ripeté la graziosa bambina.
Il carceriere s’avviò portandola in braccio, e cantando una canzone:
Di tutti i cavalieri del re è il fiore,
compagno della Majolaine?
Di tutti i cavalieri del re è il fiore,
e sempre allegro e gaio!
Lei si voltò a guardare, da sopra le spalle del padre, col suo visino innocente e luminoso, mentre Giovanbattista, da dietro le sbarre, riprendeva il canto come un’eco, ritmico e intonato sebbene con voce un po’ rauca:
Di tutti i cavalieri del re è il fiore,
compagno della Majolaine?
Di tutti i cavalieri del re è il fiore,
e sempre allegro e gaio!
Il carceriere dovette fermarsi in fondo alla scala perché la bambina voleva ascoltare la fine della canzone e ripetere il ritornello. Poi la testa della bimba sparí; sparí anche quella del carceriere: ma la vocina si udí finché la porta fu chiusa con fracasso.
Rigaud, trovandosi fra i piedi Giovanbattista che ascoltava l’ultima eco (perfino l’eco in quella prigione sembrava diffondersi stancamente!), lo spinse con un piede per rammentargli di tornare nel suo angolo scuro. L’ometto andò a sedersi sul pavimento con la disinvoltura di uno che vi è abituato, e mettendosi davanti tre pezzi di pane e addentandone un quarto cominciò a divorarli, quasi che farli sparire fosse un gioco.
Forse diede un’occhiata nostalgica alla salsiccia di Lione e al vitello in gelatina, ma quei cibi poco durarono a fargli venire l’acquolina in bocca; nonostante il Presidente e il Tribunale, Rigaud li fece sparire alla svelta, si leccò le dita e le pulí con la foglia di vite. Poi, tra un sorso e l’altro, si mise a contemplare il compagno, e i suoi baffi salirono e il naso discese.
– Com’è il pane?
– Un po’ asciutto, ma ho qui il companatico, – rispose Giovanbattista alzando il coltello.
– Quale companatico?
– Posso tagliare il p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La piccola Dorrit
  3. Londra è una prigione di Carlo Pagetti
  4. Approfondimenti
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Bibliografia
  7. La piccola Dorrit
  8. Prefazione
  9. Libro primo - Povertà
  10. Libro secondo - Ricchezza
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright