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La macchina della teologia politica e il posto del pensiero

  1. 240 pagine
  2. Italian
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La macchina della teologia politica e il posto del pensiero

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La tendenza del Due a farsi Uno attraverso la subordinazione di una parte al dominio dell'altra. Tutte le categorie filosofiche e politiche che adoperiamo, a partire da quella, romana e cristiana, di persona, riproducono ancora questo dispositivo escludente. Perciò il congedo dalla teologia politica - in cui risiede il compito della filosofia contemporanea - passa per una radicale conversione del nostro lessico concettuale. Solo quando avremo restituito al pensiero il suo "posto" - relativo non al singolo individuo ma all'intera specie umana - potremo sfuggire alla macchina che da troppo tempo imprigiona le nostre vite.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408988

Capitolo terzo

Il posto del pensiero

1. L’inconcepibilità – prima ancora della irricevibilità – della sfida ai presupposti della teologia politica è testimoniata dal destino del primo testo in cui essa è portata in forma dirompente. È difficile trovare, infatti, all’interno della tradizione filosofica, un’opera tanto attaccata, travisata e letteralmente bandita quanto il Gran Commento di Averroè – è di esso che parlo – al De anima di Aristotele. Già il fatto che non se ne abbia, a differenza di altri scritti del filosofo arabo, una traduzione moderna completa è indicativo di una difficoltà non solo epigrafica – pure tutt’altro che irrilevante. Smarrito, a eccezione di qualche frammento, nell’originale e trasmessoci solo nella inaffidabile versione latina di Michele Scoto, il Gran Commento è stato condotto dall’autore non sul testo greco di Aristotele ma su una sua traduzione araba anch’essa poi andata perduta1. Ma agli infortuni di ordine filologico vanno aggiunte ostruzioni, non meno gravi, di tipo politico e anche, propriamente, filosofico. Intanto l’esilio dell’autore – con il rogo pubblico delle sue opere – durato fino all’anno precedente la morte, a riprova di una sostanziale incompatibilità con la cultura islamica, restatagli sempre in larga misura indifferente2. Lo scontro piú duro, però, è avvenuto con quella tradizione occidentale che, dopo averlo esaltato per due decenni come il restauratore dell’autentica parola di Aristotele, ne ha poi fatto oggetto della piú violenta campagna denigratoria. Con la vistosa eccezione di Dante – che, nella Commedia, lo colloca nel Limbo insieme ai grandi spiriti (Inferno IV.144) – e di pochi altri di cui parleremo piú avanti, il suo rifiuto è espresso in una forma talmente brutale da lasciar immaginare che intorno al testo, e al nome stesso, di Averroè si giocasse una partita non soltanto filosofica ma precisamente teologico-politica. Se nel 1270 la Chiesa, a opera dell’arcivescovo di Parigi Étienne Tempier, sollecitato dallo stesso papa Giovanni XXI, mette all’indice 13, poi portate addirittura a 219, proposizioni averroiste, – in quella forma attribuibili piuttosto a Sigieri di Brabante e a Boezio di Dacia, – l’opposizione degli intellettuali si presenta compatta nell’opera di denigrazione. Definito «maledictus» da Duns Scoto, «cane arrabbiato latrante contro la fede cattolica» da Petrarca e «sozzo ubriacone analfabeta» da Lorenzo Valla, Averroè è vituperato come nemico di ogni legge, secondo un’accusa fatta propria dall’intero platonismo fiorentino e trasmessa alla filosofia moderna lungo una linea che arriva almeno a Leibniz3.
Proprio quest’ultimo, soprattutto nelle sue Considérations sur la doctrine d’un Esprit universel unique, fornisce una serie di indicazioni sulla reale natura della posta in gioco. Certo, essa riguarda in primo luogo la duplice negazione della immortalità dell’anima individuale e della creazione divina del mondo. Ma queste tesi – destabilizzanti nei confronti della teologia islamica non meno che di quella cristiana – costituiscono l’esito inevitabile di una teoria anche piú radicale, quale quella dell’unità separata e impersonale dell’intelletto. Piú che la cosiddetta dottrina della «doppia verità» – mai predicata in quanto tale da Averroè, impegnato piuttosto a disarticolare l’ambito della fede, necessaria alla conservazione dell’ordine sociale, da quello della ragione – a essere rifiutata in blocco è la collocazione dell’intelletto «materiale» fuori dai confini dell’individuo con le conseguenze dissolventi che ne derivano sul suo statuto di soggetto personale. Che proprio tale fosse il reale obiettivo dell’attacco al filosofo arabo era, d’altra parte, apertamente dichiarato da Leibniz, allorché paventava gli effetti che la tesi averroistica avrebbe avuto sul composto di anima e corpo espressivo della categoria teologico-politica di persona: «Quando arriva a sostenere – scrive Leibniz di Averroè – che questo Spirito universale è lo spirito unico, e che non vi sono anime e spiriti particolari o almeno che queste anime particolari cessano di sussistere, credo che si oltrepassino i confini della ragione»4. Non sorprende che allorché Renan, dopo un lungo oblio, riaprirà il dossier Averroè, torni a battere, con un astio non inferiore, sulla medesima questione: «Certo, se vi è stata al mondo una assurdità rivoltante, è l’unità delle anime, come si è finto d’intenderla, e, se mai Averroè avesse mai potuto sostenere alla lettera una simile dottrina, l’averroismo meriterebbe di figurare negli annali della demenza e non in quelli della filosofia»5.
Per intenderne i termini effettivi, bisogna richiamare nei suoi tratti essenziali una teoria, quale appunto quella averroistica dell’intelletto materiale, resa complessa sia dall’ermeneutica del testo aristotelico sia dal confronto critico che l’autore apre, al suo interno, con altri commentatori – arabi, come Avicenna e Avempace, e greci, come Temistio e Alessandro di Afrodisia. Benché Averroè faccia riferimento a cinque tipi di intelletto – «agente», «materiale», «acquisito», «in habitu» e «speculativo» – ciò che conta è soprattutto il rapporto tra i primi due, derivando gli altri dalla forma assunta da esso. Entrambi sono separati, ma mentre l’intelletto agente ha la funzione di attualizzare le forme intelligibili nell’intelletto materiale, questo va inteso come una pura potenzialità, priva in sé di qualsiasi natura che non sia quella della semplice ricettività: «Dopo aver mostrato che l’intelletto materiale non ha alcuna delle forme materiali – l’autore si riferisce a Aristotele – cominciò a definirlo dicendo che non ha altra natura se non la possibilità di ricevere le forme intelligibili materiali»6. La formulazione metaforica adoperata da Averroè per descrivere la relazione prodotta tra i due intelletti dall’attualizzazione degli intelligibili è quella della luce del sole e dell’aria. Come quest’ultima, l’intelletto materiale è il medio trasparente attraverso cui la luce solare rende visibili gli oggetti: «Se la luce – spiega Averroè – fa sí che il colore in potenza divenga colore in atto, sí da poter muovere il corpo diafano, parimenti l’intelletto agente fa passare in atto le intenzioni intelligibili in potenza affinché l’intelletto materiale le riceva»7. Piú che una tavoletta vuota su cui si inscrivano le conoscenze – come lo definisce Alessandro – l’intelletto materiale è la possibilità stessa della loro visibilità, lo specchio che le rende, di volta in volta, percettibili. Non una soggettività distaccata e trascendente ma ciò che oggi chiameremmo una competenza, cui ognuno può accedere, pur senza poterla mai fare propria8.
I problemi che a questo punto si pongono, cui l’autore dedica larga parte della propria trattazione, sono fondamentalmente due. Il primo riguarda la natura degli intelligibili, dichiarati generabili e corruttibili, pur se prodotti dall’intelletto agente e ricevuti da quello materiale, entrambi invece eterni. L’altro concerne il rapporto tra la molteplicità degli individui umani e l’unità, separata e impersonale, dell’intelletto attraverso il quale essi pensano o, meglio, si fanno occasione di pensiero. La soluzione che l’autore avanza è che gli intelligibili sono unici in rapporto all’intelletto che li riceve e molteplici in rapporto alle facoltà individuali che li pongono in essere, incorruttibili dal punto di vista dell’intelletto materiale e corruttibili relativamente a ogni singolo individuo. Il punto di giunzione tra l’unità separata dell’intelletto e la pluralità degli uomini è costituito dalla loro capacità immaginativa, che collega la realtà, transeunte e corporea, di questi alla qualità, eterna e incorporea, di quello. In tale quadro il ruolo dell’immaginazione risulta fondamentale9. La ragione ne ha bisogno perché soltanto attraverso i suoi fantasmi la pura trasparenza dell’intelletto può divenire pensiero di qualcosa. L’immaginazione è, insomma, quell’attitudine che, situata all’apice dell’esperienza umana, le consente di attingere la sfera, separata, della conoscenza, ricongiungendola a essa. In questo caso il principio di separazione – che pure colloca l’intelletto materiale fuori dal corpo del singolo individuo – non produce un effetto escludente ma, competendo a tutti, è ciò che mette in rapporto sensibile e intelligibile, potenza e atto, proprio e comune. In tal modo quella immortalità, che è negata dal punto di vista dell’anima individuale, può essere attinta dal lato, impersonale, della specie. Quando l’intelletto materiale si congiungerà con quello agente, dissolvendosi in esso, allora anche il genere umano diverrà, nel suo insieme, eterno. Ma fin d’ora, anche in vita, il singolo può partecipare di una sorta di immortalità, costituita dall’attività speculativa, in cui consiste la nostra disposizione piú alta: «Una volta spiegato che la condizione di felicità appartiene per necessità all’uomo non per il fatto di morire ma piuttosto a causa dell’attributo e forma che lo rendono immortale, qual è il modo per conseguirla? La strada per raggiungere l’Intelletto è lo studio e la speculazione»10.
Se questi, condensati al massimo grado, sono i termini dell’interpretazione aristotelica di Averroè, cosa spaventa i suoi critici al punto da spingerli a negarla prima ancora di averla discussa? A essere in discussione non è tanto la sua fedeltà – certo dubbia sul piano letterale – al testo aristotelico, quanto l’orizzonte filosofico in cui la sua esegesi si inscrive, avvertito come nettamente incompatibile con la macchina teologico-politica governata dalla categoria di persona. Un passo del trattato De unitate intellectus contra Averroistas (III.82) di Tommaso è assolutamente chiaro a riguardo.
Se perciò – egli sostiene – l’intelletto non è proprio del singolo uomo e non fa una sola cosa con questo ma s’unisce a esso solo per mezzo dei fantasmi, oppure solo come motore, la volontà non sarà propria di quest’uomo singolo ma soltanto dell’intelletto separato. E cosí il singolo non sarà piú padrone dei propri atti e nessuna sua azione potrà essere lodabile o biasimabile: il che significa sradicare i principî della filosofia morale ed è contrario alla vita umana (altrimenti a niente varrebbe il consigliarci e il promulgare leggi)11.
Il testo di Tommaso ha il pregio di concentrare in un unico giro di frasi l’intera catena di conseguenze negative che la tradizione teologico-politica ricava dalla teoria averroista dell’intelletto separato. Non è esagerato sostenere che, assunta nel suo senso piú radicale, tale teoria spezza il rapporto di implicazione tra etica e diritto imperniato sul dispositivo della persona. Ciò che, in essa, viene meno non è solo l’inerenza dell’intelletto al composto metafisico di anima e corpo, su cui si basa sia la tradizione cristiana sia la sua secolarizzazione moderna, ma anche quel meccanismo di appropriazione di ciascuno nei confronti di se stesso che lo rende padrone dei propri pensieri e dei propri atti.
A essere in questione, in prima istanza, è la relazione tra intelletto e volontà come si configura nella discussione scolastica. Se Tommaso, all’interno di essa, assume una posizione mediana, collegandoli in maniera biunivoca, la tradizione agostiniana tende ad accentuare il primato della volontà, inaugurando una strada percorsa a fondo da Duns Scoto sul versante cristiano e da al-Ġazālī e Avicenna su quello islamico. In un quadro concettuale dominato dal principio di contingenza – e dunque di forte prevalenza della categoria di possibilità su quella di necessità – il mondo appare creato, e poi guidato, dalla libera decisione di un Dio onnipotente, che esercita una sovranità assoluta sull’uomo, intervenendo in ogni momento della sua vita. All’estremo opposto di questo paradigma, al contempo personalista e decisionista, Averroè sostiene il netto primato di un intelletto impersonale che colloca Dio in una posizione esterna, e sostanzialmente ininfluente, rispetto alle vicende umane, da lui conosciute solo dal lato dell’universale, e non anche da quello del particolare. Essendo causa formale, ma non efficiente, del mondo, egli non ne ha il governo, come accade invece nel paradigma teologico-politico. Nemmeno la creazione risponde a un atto arbitrario della volontà divina – intervenuto in un certo momento in base a una insindacabile decisione. Se cosí fosse stato, d’altra parte, vorrebbe dire che Dio, attraverso di essa, sarebbe passato da uno stato iniziale di imperfezione a uno di perfezione – il che è incongruo con la sua onnipotenza, dal momento che ogni cosa possibile, da parte di Dio, è fin dall’inizio già in atto. Egli, piú che Persona, è l’insieme delle condizioni intellettuali che consentono la vita del tutto.
Tale regime di impersonalità non riguarda soltanto Dio – tendente di fatto a coincidere con l’ordine naturale e dunque oggetto,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Due
  3. Introduzione
  4. I. La macchinazione
  5. II. Il dispositivo della persona
  6. III. Il posto del pensiero
  7. Elenco dei nomi
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright