Dell'amore e del dolore delle donne
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Dell'amore e del dolore delle donne

  1. 152 pagine
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Dell'amore e del dolore delle donne

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In questo libro si parla di vita. Di momenti di amore vissuti con gioia, di momenti di dolore affrontati con coraggio e tenacia. Ma anche di scienza e fede, di corpo, piacere e cibo. E in particolare si parla tanto, profondamente, di madri e figli. Quelle che leggiamo sono storie di donne. Donne che con un sorriso, sopra i denti stretti, hanno lottato per se stesse e per ciò in cui credono, con la ferma volontà di prendere in mano la propria vita, di guardare sempre avanti, buttando il meno possibile.
Sono storie di amore e di libertà. Storie intense, spesso semplici e lievi nella loro immediatezza, a volte dure e tenaci. E a raccontarle, con cura e gratitudine, è un uomo - non un uomo qualsiasi, ma un medico, un ricercatore, un uomo di pensiero e pratica - che ha dedicato tutta la vita all'ascolto del mondo femminile e ha deciso di ripercorrere la propria storia, le battaglie etiche e scientifiche che lo hanno visto protagonista, attraverso le donne che ha incontrato, con le quali ha condiviso sentimenti, amicizie e lavoro.

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Informazioni

I numeri di Sophie

Estate 1940. Al Newnham College di Cambridge, tra gli studenti di chimica e fisica, c’è una ragazza inglese di vent’anni, figlia di un ricco banchiere di origine ebraica. Alle rimostranze del padre, che avrebbe desiderato per lei un’educazione piú tradizionalmente «femminile», piú adatta ai salotti della high society britannica e piú religiosa, la giovane risponde con una coraggiosa lettera: «Ovviamente, – scrive, – il mio metodo di pensiero e di ragionamento è influenzato dall’allenamento scientifico. Ma tu guardi alla scienza, o almeno ne parli, come se fosse una sorta di invenzione immorale da parte dell’uomo. Qualcosa di diverso dalla vita reale, che deve essere guardata con prudenza e tenuta separata dalla vita di tutti i giorni. Ma la scienza e la vita di tutti i giorni non possono e non debbono essere separati. Per me la scienza fornisce una parziale spiegazione della vita. Essa è sempre basata su fatti, esperienze ed esperimenti. Le tue teorie e quelle della gente che la pensa come te sono piú facili e piú gradevoli, ma secondo me non hanno alcun fondamento, se non quello di portare a uno stile di vita piú piacevole, e a una esagerata idea della nostra importanza. Dal mio punto di vista, tutto quello che è necessario per la fede è credere che, facendo del nostro meglio, arriveremo piú vicini al successo e che il successo delle nostre aspirazioni (il miglioramento della vita umana, presente e futura) valga la pena del nostro impegno».
La firma in calce alla lettera è quella di Rosalind Franklin.
Circa dieci anni dopo, Rosalind Franklin è una giovanissima ricercatrice al King’s College di Londra. Specializzata nella tecnica della fotografia a raggi x, nel 1952 scatta l’immagine che segnerà una svolta epocale negli studi di genetica: è il codice della vita, la struttura a doppia elica del Dna. Per una leggerezza di un collaboratore, due colleghi maschi, James Watson e Francis Crick, entrano in possesso della fotografia, e la usano per elaborare la descrizione del modello in un articolo pubblicato su «Nature» nel 1953. Sono loro, Watson e Crick, a vincere il premio Nobel nel 1962, e a vedere il proprio nome consegnato alla storia. La Storia non ricorda invece Rosalind Franklin e del suo nome non resta traccia. Per molti anni.
«La dark lady del Dna», cosí la definisce Watson, fu una donna scomoda e ribelle, e insieme caparbiamente determinata a non rinunciare al proprio ruolo e ai propri studi per colpa del maschilismo che imperava nel mondo scientifico. Fu un’ombra che uscí di scena silenziosamente; morí a 37 anni di cancro.
Bisognerà aspettare il 1968 perché Watson nella sua autobiografia The Double Helix, ricordi la collega «Rosy». Scrive Watson in una delle ultime pagine del volume: «poiché le mie impressioni sul suo conto dal punto di vista scientifico e personale furono all’inizio spesso sbagliate, voglio dire qui... che eravamo giunti ad apprezzare profondamente la sua onestà e la sua generosità, rendendoci conto troppo tardi delle lotte che una donna intelligente deve affrontare per essere accettata nel mondo scientifico… la sua ostilità derivava unicamente dalla sua giusta aspirazione a lavorare con gli altri su un piano di eguaglianza».
Capisco bene cosa intendesse con queste parole Watson, che io ho conosciuto a Londra negli anni Cinquanta, e comprendo il tentativo di giustificare, o almeno spiegare, il proprio ritardo: per lungo tempo la scienza è stata tradizionalmente il «luogo della mente maschile», e sessant’anni fa era molto difficile superare culturalmente quelle barriere tra i sessi che sembravano «naturali».
A dire il vero, la situazione oggi non è molto diversa. Appena qualche anno fa, l’allora rettore dell’università di Harvard, Lawrence Summers, ha rilasciato una dichiarazione sconcertante: le donne non sarebbero adatte alla ricerca scientifica perché, secondo lui, non possiedono in alcuni campi del sapere l’abilità innata che invece possiedono gli uomini, e ci sarebbero dunque ragioni biologiche che spiegherebbero il motivo di una scarsa propensione femminile verso la matematica e le altre scienze. Il dramma è che molti uomini continuano a pensarla cosí: le donne sarebbero, in due parole, «geneticamente inadatte» alla scienza, e quindi al progresso e all’applicazione del pensiero razionale. Summers ha inoltre aggiunto che la comprensione e l’acquisizione dei concetti legati alla scienza dipendono piú dai fattori genetici che da quelli culturali e ambientali. Insomma, non c’è speranza. Inutile che le donne si impegnino e studino: nelle scienze non arriveranno mai a raggiungere la sorprendente abilità «congenita» dell’uomo.
Io però non ci sto. Se posso arrivare – con un certo sforzo – a capire la difficoltà di esprimere, sessant’anni fa, un pensiero diverso dall’opinione comune, trovo comunque queste affermazioni, sia ieri che oggi, assolutamente non condivisibili. Continuando a mia volta con le argomentazioni scientifiche e logiche, potrei rispondere a certi colleghi che la cosiddetta «capacità innata» è tuttora un concetto scientificamente inspiegabile, e in ogni caso riguarda alcuni individui ritenuti per questo eccezionali: non si estende automaticamente a tutto il genere a cui quegli individui appartengono. Insomma: se è vero che la maggior parte di coloro che ricordiamo come «geni» sono maschi, questo non vuol dire che le donne non abbiano doti geniali.
Pensiamo ad esempio alla matematica, scienza esatta e razionale per definizione. Tutti ricordiamo i grandi pensatori come Archimede ed Euclide, ma c’era anche Ipazia, vissuta nel IV secolo in Egitto.
Ipazia, grande filosofa a capo della scuola neoplatonica di Alessandria e astronoma, fu anche una geniale matematica: scrisse un commentario all’Arithmetica di Diofanto (l’opera fondante dell’algebra) e sembra che abbia ideato fra l’altro il Corpus astronomico, una raccolta di tavole sui corpi celesti. Questa donna straordinaria, che forse Raffaello ritrasse nella Scuola di Atene, fu anche la prima martire pagana della scienza, una specie di «strega»: morí giovanissima – lapidata (secondo alcuni fatta a pezzi) da un gruppo di fanatici cristiani, gli stessi che distrussero la Biblioteca di Alessandria –, probabilmente su istigazione del vescovo Cirillo che la accusò di eresia. Dopo l’assassinio, i suoi allievi abbandonarono la città e Alessandria perse il suo ruolo di guida culturale: per la città fu l’inizio del declino.
Mi ha colpito il fatto che di recente il regista spagnolo Alejandro Amenábar abbia diretto un film su Ipazia e l’abbia intitolato Agorà. Mi sono domandato, perché non intitolarlo Ipazia, un nome intrigante anche per chi non conosce il personaggio? Poi ho capito, vedendo il film, che la storia di Amenábar non è solo la ricostruzione della figura di un’eroina del pensiero, ma è un atto di accusa contro l’intolleranza e il cieco integralismo che soffocano, anche nel sangue se necessario, lo spirito dell’agorà. Agorà che corrisponde, invece, alla democrazia nel senso piú autentico della parola greca: non solo potere del popolo, ma anche libertà del pensiero e della sua espressione.
È bellissima la descrizione che di Ipazia fa il filosofo pagano Damascio: «Tale era Ipazia, cosí articolata ed eloquente nel parlare come prudente e civile nei suoi atti. La città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti della città la invidiarono, cosa che successe anche ad Atene. Sebbene la filosofia stessa sia perita, il suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano potere nello Stato».
La scienza non è mai stata gradita ai potenti. Lo scienziato è visto con sospetto: è un libero pensatore, non ragiona sulla base delle ideologie e per di piú dissemina fra la gente sapere e coscienza, che del potere sono i nemici peggiori. Se poi lo scienziato è donna, il sospetto si trasforma in paura, e la paura in persecuzione. Viene allora da domandarsi se non ci sia un motivo tutt’altro che genetico dietro al fatto che le scienziate ricordate dalla storia siano poche, certamente meno numerose dei maschi. Del resto, possiamo ritrovare la stessa sproporzione nella pittura, nella scultura, nella musica, nella letteratura.
Mi preme innanzitutto ricordare che le donne non sono state ammesse nelle università europee fino al secolo scorso (Milena Marić, moglie di Einstein, è un esempio di questa discriminazione) e che la celebre Università di Princeton, negli Stati Uniti, fu aperta alle donne solo nel 1968, ma fino al 1995 non ebbe un solo full professor donna. Non c’è molto da stupirsi dunque se la storia dell’ingegno femminile è una galleria di volti e nomi pressoché sconosciuti fino all’èra moderna, che riuscirono a dare il proprio contributo alla scienza «malgrado il loro essere donna».
Quasi tutte queste donne hanno dovuto, in primo luogo, ingegnarsi per studiare, chi sui libri dei fratelli, chi su quelli dei mariti, chi pregando i padri facoltosi per avere un’istruzione, invece che una dote per il matrimonio; inoltre sono rimaste escluse dai circoli scientifici ufficiali, vale a dire da quello scambio di idee, solidamente in mano ai maschi, che è l’humus della scienza. Molte, a causa del loro amore per la scienza, hanno avuto vite infelici e solitarie. Alcune, invece, hanno goduto di una situazione privilegiata e solo in ragione di questa «diversità» riuscirono a imboccare la strada del sapere.
Vorrei fare qualche esempio, senza nessuna pretesa naturalmente di presentare una storiografia esauriente delle donne e la scienza, ma soltanto per salvare qualche nome prezioso dall’oblio in cui spesso è caduto. Sono consapevole che ne posso ricordare qui soltanto alcuni, ma mi piace farlo, e mi piacerebbe che li considerassimo dei testimoni.
Nell’XI secolo, nella colta Italia del Sud e nell’ambito della Scuola medica salernitana, fra le «Mulieres salernitanae» operò Trotula de Ruggiero, la piú famosa donna medico del Medioevo e la prima ginecologa della storia. La sua ricchezza e le origini nobili le permisero di accedere all’educazione medica di allora. I suoi trattati sulle malattie femminili, che contengono i principî fondamentali della prevenzione e dell’igiene, sono la base della ginecologia moderna. Tant’è che nel 1800 alcuni storici si opposero all’idea che una donna avesse potuto scrivere un’opera cosí importante e cancellarono la presenza di Trotula dalla storia della medicina. La sua esistenza fu poi recuperata, a fine secolo, dagli storici italiani.
Quasi contemporaneamente a Trotula, viveva in Germania Ildegarda di Bingen, una suora benedettina e santa per la Chiesa cattolica. La vita monastica, era in effetti per le donne del Medioevo «l’altra via», parallela a quella della nobiltà e della ricchezza, per poter studiare e accedere ai testi. Ildegarda fu un genio eclettico: scrittrice, musicista, cosmologa, medico, linguista, naturalista, filosofa, poetessa. Diede un contributo importante alle scienze naturali, scrivendo due manuali che raccoglievano lo scibile medico e botanico di allora. Dopo il Medioevo, la danese Sophie Brahe fu una grande matematica e astronoma, ma il suo contributo non fu mai riconosciuto alla pari di quello del fratello Tiho. Fu lui, infatti, a passare alla storia.
A metà del 1600 l’italiana Maria Cunitz fu definita la seconda Ipazia. Istruita dal padre, fu estremamente erudita e dotata di un’intelligenza poliedrica: parlava sei lingue, era poetessa, pittrice, musicista e aveva profonde conoscenze mediche, matematiche, storiche e soprattutto astronomiche. Scrisse Urania propitia, con l’obiettivo di semplificare le tavole di Keplero. A fine Seicento visse in Polonia un’altra grande astronoma, Elisabetha Koopman-Hevelius, che pubblicò il piú vasto catalogo stellare giunto sino a noi, nel quale sono annotate, con esattezza, le posizioni di quasi duemila stelle. Intanto, l’italiana Elena Cornaro Piscopia divenne famosa in tutta Europa per la sua erudizione, e nel 1678 fu la prima donna al mondo a conseguire una laurea.
Nel campo della matematica, all’inizio del 1700 visse a Bologna Laura Maria Caterina Bassi, che fu la prima docente universitaria donna d’Europa, ottenendo nel 1733 una cattedra in fisica all’Università di Bologna. Intanto, a Milano, un’altra grande matematica, Maria Gaetana Agnesi, scrive in latino un discorso in difesa del diritto delle ragazze all’educazione superiore. Tra il Settecento e l’Ottocento in Germania e in Francia iniziano finalmente a emergere figure femminili, non senza pagare un alto prezzo nella vita personale: Caroline Herschel fu probabilmente la prima donna a scoprire una cometa e oggi una stella periodica porta il suo nome. In riconoscimento del suo lavoro, nel 1835 fu la prima donna a essere ammessa come membro onorario nella Royal Astronomical Society. Nel 1838 divenne membro della Royal Irish Academy e in Germania il re di Prussia le conferí nel 1846 la Medaglia d’oro delle Scienze. A Parigi, Marie-Sophie Germain fu una grandissima matematica, ma soprattutto fu l’icona del movimento femminista per la sua battaglia contro i pregiudizi sociali e culturali, tanto che per diversi anni fu costretta a utilizzare uno pseudonimo maschile: M. Le Blanc. M. Le Blanc raggiunse con grande fatica il riconoscimento del suo genio, ma la sua vita fu una serie di esclusioni e ingiustizie, l’ultima delle quali davvero tragica. Quando l’Università di Göttingen volle riconoscerle la laurea honoris causae, Sophie non poté ritirarla perché morí poco tempo prima di tumore del seno. Il suo nome non figura tra i settanta nomi di illustri scienziati stampati sulla costruzione della Tour Eiffel, pur essendo ben nota agli ingegneri di allora. Oggi un cratere del pianeta Venere porta il suo nome e cosí a Parigi una scuola – l’École Sophie Germain – e una strada – la rue Germain. Alcuni numeri primi sono detti «numeri primi di Sophie Germain» ed esiste un teorema Lagrange-Germain. Ma tutto questo avvenne troppo tardi. Come per Rosalind Franklin il meritato riconoscimento arrivò solo dopo la sua morte prematura.
Quasi contemporanea di Sophie, nella prima metà dell’Ottocento, la figlia del poeta lord Byron, Augusta Ada Byron Lovelace, dà un grande contributo al progresso matematico. Ada avviò una corrispondenza con il nostro Luigi Federico Menabrea sugli sviluppi della «macchina analitica» e in un suo articolo, pubblicato nel 1843, descrisse questa macchina come uno strumento programmabile (prefigurando il concetto di intelligenza artificiale) e formulò quello che oggi viene unanimemente riconosciuto come il primo programma informatico della storia: un algoritmo per il calcolo dei numeri di Bernoulli. Il linguaggio di programmazione Ada, promosso dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, è stato cosí chiamato in suo onore.
Nel 1820 nasce a Firenze da famiglia inglese Florence Nightingale, l’infermiera britannica fondatrice del nursing moderno e la prima a proporre un’organizzazione degli ospedali da campo. Noi medici le dobbiamo tantissimo per aver gettato le basi della professione infermieristica, cuore degli ospedali moderni. A cavallo fra Ottocento e Novecento si distinguono la matematica russa Sof´ja Vasil´evna Kovalevskaja (Sonja Kowalewski), che fu anche scrittrice, e Nettie Marie Stevens, le cui ricerche sul comportamento dei cromosomi durante la divisione cellulare furono fondamentali per la genetica moderna e posero le basi teoriche e metodologiche su cui si fonderà nel 1910 il famoso laboratorio delle mosche drosofile, diretto da Thomas Hunt Morgan (premio Nobel nel 1933).
Arriviamo poi a Marie Curie, che, grazie al suo doppio Nobel (per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911) e alla scoperta della radioattività, finalmente tutto il mondo conosce. E poi la nostra Maria Montessori, conosciuta piú per il suo metodo educativo che per la sua attività scientifica, e le grandi contemporanee, mie colleghe e amiche, come Margherita Hack e Rita Levi Montalcini. Dopo Marie Curie, per altri Nobel alle donne bisogna andare piú avanti negli anni: la figlia di Marie, Irène Joliot-Curie (nel 1935 per la chimica), Maria Goeppert-Mayer (nel 1963 per la fisica), Dorothy Crowfoot Hodgkin (nel 1964 per la chimica), Anna Yodath (nel 2009 per la chimica), Elinor Ostrom (nel 2009 per l’economia); e per la medicina Gerty Cori-Radnitz nel 1947, Rosalyn Sussman Yalow nel 1977, Barbara McClintock nel 1983, Rita Levi-Montalcini nel 1986, Gertrude Elion nel 1988 e Christiane Nüsslein-Volhard nel 1995, Linda Buck nel 2004, Françoise Barré-Sinoussi nel 2008, Elizabeth Blackburn nel 2009.
Le scienziate famose che ho conosciuto di persona sono donne meravigliose. Per loro la scienza è un abito mentale: un modo di essere, di pensare e di interpretare il mondo. Con Margherita Hack condivido molte posizioni e molte battaglie contro le ideologie che soffocano la libertà della ricerca scientifica. Mi è rimasta impressa nella mente una sua frase: «L’astronomia ci ha insegnato che non siamo noi il centro dell’universo, come si è pensato a lungo e come qualcuno ci vuol far pensare anche oggi. Siamo solo un minuscolo pianeta attorno a una stella molto comune. Noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della materia degli astri». Ho incontrato di recente Margherita a Venezia, nell’isola di San Giorgio, dove è intervenuta a una delle Conferenze sul futuro della scienza organizzate ogni anno dalla mia fondazione. A questi incontri, che vertono sul rapporto tra scienza e società, accanto ai grandi studiosi e a diversi premi Nobel, ci sono anche molti giovani, studenti del liceo o dei primi anni di università.
Ricordo che quando Margherita finí la sua relazione scientifica sull’evoluzione del cosmo e delle stelle, fu letteralmente assediata dai ragazzi che volevano da lei opinioni dal vivo sulla scuola, sulla politica, sul futuro. È l’icona del pensiero libero e dell’anticonformismo, pensai di lei.
Altrettanto adorata dai ragazzi, ma con piú deferenza – forse per via dell’età e dell’aspetto regale da dama di altri tempi – è Rita Levi Montalcini. Anche Rita ha partecipato a una Conferenza di Venezia (sul tema Food and Water for Life) pochi anni fa, e quando arrivò sull’isola in motoscafo, con i suoi quasi cento anni, fu pressoché sollevata dalla barca verso il pontile dalle persone che si accalcavano sulla banchina per accoglierla. In effetti è cosí gracile e minuta che quando si muove sembra non spostare alcun peso. È una persona dolcissima, che attira la gente vicino a sé: impossibile vederla in disparte, e non solo per la presenza continua al suo fianco della fidatissima assistente, Pina Tripodi, ma perché le persone, soprattutto i piú giovani appunto, vogliono stringere le sue mani e avvicinarsi il piú possibile per dirle all’orecchio qualcosa di speciale.
Rita è sicuramente una delle donne piú amate del paese. La sua pacatezza, intelligenza e cultura le conferiscono una sorta di immunità che non è mai in discussione, neppure quando, a volte accanto a me, si è lanciata in battaglie impopolari, come quella a favore del dibattito sull’eutanasia. Noi due abbiamo molte attività in comune: ci scriviamo, ci leggiamo sui giornali, ci citiamo a vicenda, uniamo le nostre immagini e facciamo campagne insieme. Le due fondazioni hanno anche un progetto congiunto, in Africa, per vaccinare le giovani etiopi contro il virus dell’Hpv, la causa del tumore del collo dell’utero che ancora falcidia le donne in quella regione del mondo.
Se penso a figure come Rita Levi Montalcini, e a tante altre che ho citato, mi convinco sempre piú che se in alcuni campi, fra cui la scienza, le donne sono riuscite a emergere meno degli uomini (senza affrontare qui il problema che la storiografia è spesso maschilista), la ragione è sicuramente che sono meno libere. Il movimento femminista ha dato un forte contributo al raggiungimento delle pari opportunità in tutti i campi del pensiero, e di conseguenza anche nell’ambiente della ricerca scientifica, ma l’uguaglianza a cui faceva riferimento Watson quando parlava di Rosalind Franklin è ancora un traguardo lontano.
Il maschilismo nel mondo scientifico si esprime soprattutto nei tentativi sistematici di frenare la carriera delle donne. Anche le statistiche lo dimostrano e lo denunciano ogni anno: le donne si laureano di piú, prima e con voti piú alti degli uomini. In alcuni corsi di laurea scientifici piú della metà degli iscritti è donna. Poi al momento delle assunzioni nelle équipe di ricerca, la percentuale di neoassunte può anche avvicinarsi a quella dei colleghi maschi e addirittura superarla. Tuttavia basta il passaggio al secondo gradino di carriera perché le donne siano di nuovo superate dagli uomini, e piú si risale la scala gerarchica, piú il divario fra i sessi si fa ampio.
Il fenomeno è mondiale. Anche la prestigiosa rivista scientifica «Nature» nel 1999 ha pubblicato dati sconfortanti che dimostrano quanto poco le donne siano presenti nei luoghi dove si decidono gli sviluppi della ricerca scientifica e dove si decretano le linee di finanziamento. Eppure le donne sono brave, molto brave, in campo scientifico. E non solo perché sono piú «diligenti» nello studio. In particolare sono brave le nostre italiane. In occasione di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Copyright
  4. Dell'amore e del dolore delle donne
  5. Un singolarissimo sorriso
  6. Caccia alle streghe
  7. Perfetta armonia
  8. I numeri di Sophie
  9. E la vita sa di sale
  10. Madri
  11. Piacere da condividere
  12. Capaci di volere
  13. Il futuro è donna
  14. La mente è cosa incantata