Mentre vi guardo
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Mentre vi guardo

La badessa del monastero di Viboldone racconta

  1. 128 pagine
  2. Italian
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La badessa del monastero di Viboldone racconta

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Una madre benedettina racconta l'esperienza del silenzio, la vita della comunità, le relazioni con le sorelle, la ricerca quotidiana di Dio. E parla di noi che viviamo fuori. L'arrivo al monastero in una mattina di nebbia nel 1964 sulla Seicento rossa del padre contrario all'idea che la figlia di 19 anni entrasse in convento. «C'era il Concilio Vaticano II, ma nel monastero eravamo ancora vestite come nel Medioevo». Madre Ignazia Angelini, badessa del monastero benedettino di Viboldone, Milano, racconta la clausura e gli incontri con noi che viviamo fuori: una ragazza sbandata che bussa alla porta, un grande manager che chiede conforto. Il viaggio nel monastero diventa una riflessione sul senso della vita e sull'oggi: sull'instabilità delle relazioni, sull'ambizione e la realizzazione di sé. Per imparare a ricominciare ogni giorno e avere un unico volto. «Non c'è un uomo che non possa avere la percezione dell'alterità e quindi capisca che la realizzazione di sé come persona dipende dalla relazione con altri».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858407721

Il monastero quotidiano

In lotta col tempo.
Oggi, in questi tempi di diffusa crisi delle strutture ecclesiali, di disaffezione giovanile, diventa sempre piú improbabile che molti monasteri, nati in momenti di sovrabbondanza di domanda religiosa, reggano l’impatto con la contemporaneità. Sopravvivranno quei monasteri che si metteranno in stato di radicale ricerca, che saranno disposti a ridursi a pochi, spinti dalla vocazione originaria di essere custodi di un patrimonio da traghettare in una nuova cultura, senza perdere il nucleo vitale.
Con l’arrivo di nuove culture e di nuovi popoli, ci troviamo in una situazione per certi versi analoga all’epoca che diede a Benedetto l’impulso per fondare i monasteri, impulso che di fatto lo portò a contribuire alla costruzione dell’Europa. Però non è ancora chiaro se oggi saremo in grado di maturare una presenza nella storia incisiva come ha potuto esprimerla Benedetto, soprattutto se ci ostiniamo a essere semplicemente custodi orgogliosi di un’antica tradizione. I monasteri delle donne vivono di piú nel sottobosco della cultura, mentre le comunità monastiche maschili sono per la maggior parte clericalizzate, hanno un livello culturale magari piú alto, ma spesso – almeno in Italia – non affrontano le sfide della subcultura che, secondo me, è il luogo dove si possono intuire i segnali della nuova cultura nascente.
Tra i monasteri femminili c’è un certo fermento di dialogo su questo fenomeno, ma siamo severamente guardate dalle congregazioni vaticane che hanno diritto giurisdizionale sui monasteri (canonicamente di «diritto pontificio»). Per poter continuare a esistere, i monasteri femminili hanno bisogno di non avere addosso lo sguardo indagatore dei signori di curia, ma di avere un po’ piú di spazio dialogico vitale nella Chiesa, di poter rimanere piú in reale interazione con le altre voci delle comunità credenti che cercano di leggere i tempi nell’ambito della vita ecclesiale. Altrimenti, se restano sequestrate nella clausura, confinate in un’immagine olografica prefissata, sia pure suggestiva, muoiono. Mi ha sempre fatto impressione il monastero di Clarisse a Fara Sabina, vicino a Roma, nei cui sotterranei sono esposte le mummie delle passate badesse, lí mummificate e in mostra: e questo monastero attira e viene visitato con l’obiettivo di poter vedere le mummie. Diventeranno questo i monasteri femminili?
C’è un dibattito molto acceso tra i monasteri femminili sulle forme della separazione dal mondo: la forma della clausura e l’area dei motivi canonicamente consentiti per uscire all’esterno. Ci sono monasteri che vedono molta audience, molti nuovi arrivi. Ma il messaggio che trasmettono, veicolato principalmente dalle doppie grate, non è esente da un pericoloso equivoco. È una forma, storicamente motivata, basata sull’ideologica esaltazione di una retorica dell’immolazione della donna a causa di Dio. Secondo me questo è un sequestro del carisma monastico femminile che lo mummifica. Insisto sul femminile sia perché le grate sono, a partire dal Medioevo, tipiche dei monasteri femminili, sia perché credo che, d’altra parte, la vera anima monastica abbia mantenuto di piú il suo senso originario proprio nell’ambito femminile, essendo i monaci, come dicevo, troppo clericalizzati e, quindi, troppo sbilanciati sul versante del ministero presbiterale.
Ma un ripensamento teologico-pratico della «clausura» monastica femminile sembra oggi impossibile per il sovrapporsi di polemiche e lotte di potere.
Noi non andiamo a cercare, non pubblicizziamo la nostra presenza, però siamo aperte all’accoglienza quando ci viene chiesta in forme coerenti ed entro il nostro modo di essere. Sono venuti quelli del FAI, il Fondo Ambiente Italiano, e volevano poi far conoscere la situazione di degrado di un luogo cosí importante come l’abbazia degli Umiliati che è nostra residenza. Ma, se devo proprio dirlo, temo questo genere di pubblicità, perché poi le persone ci percepirebbero come le custodi degli affreschi giotteschi e non per quello che effettivamente siamo. Per questo sconsiglio coloro che vogliono fondare una nuova comunità monastica di farlo vicino a opere d’arte. O, per lo meno, di vagliare attentamente le conseguenze. Penso con timore all’Expo del 2015, quando probabilmente finiremo schiacciate dai turisti che affluiranno all’abbazia. Ci sono monasteri che sulla bellezza del luogo, dei monumenti in cui sono insediati costruiscono un business, ed è la cosa che piú pavento. Pur di sopravvivere – ed oggi la sopravvivenza è tristemente legata al business – si snatura il senso della comunità monastica. Il monastero cristiano si regge sulla relazione, non è un luogo eccelso che possa alimentarsi della propria autorappresentazione. Si regge sulla relazione con ogni essere umano che cerca Dio, che cerca senza sapere chi o che cosa; sulla relazione con chi non crede, con chi vive la fede come lotta per stare lontano dal Dio che gli hanno propinato. Se invece le monache vengono percepite solo come coloro che «pregano per noi», allora la relazione è vanificata. Benedetto, non a caso, ogni volta che percepiva di cominciare a essere idolatrato, fuggiva da quel luogo e fondava altrove.
Vivere l’ordinario.
Pensiero diffuso è che Dio sia un Essere Superiore e che se uno sceglie, come si dice, di consacrare la vita a Dio è un pochino al di sopra degli altri, o fuori dalla realtà comune. Ma si tratta di un pensiero equivoco: un credente che sceglie la forma di vita evangelica è uno come tutti, ha solo preso sul serio ciò che è comune all’umano.
Per molte persone noi siamo coloro che hanno rifuggito la complessità della vita, si sono rifugiate al riparo. Quelle che sono scappate dal mondo. Mio padre stesso, quando gli dissi che avrei voluto entrare in monastero, si chiese cosa mi fosse successo, perché ai suoi occhi la mia vita fino ad allora era stata un po’ «spigliata», come dire, un po’ sopra le righe; quella scelta gli appariva un voltafaccia: entrare in convento ai suoi occhi risultava come cercare un rifugio.
Facilmente si ritiene che nel monastero non si sia coinvolte dalla complessità della storia. È diversa, invece, la valutazione rispetto ad altre scelte analoghe, per esempio quella delle missionarie, o di coloro che affrontano gli strazi del mondo contemporaneo immergendosi nei luoghi della sofferenza.
In realtà, entrare in monastero è immergersi consapevolmente nell’umano piú ordinario. Consapevolmente: cioè a partire da uno sguardo di fede sulla realtà, la fede di Gesú. La cultura contemporanea è satura delle piú varie versioni del mito dell’unicità, dell’eccezionalità: tutti dovrebbero emergere e distinguersi. Io credo, invece, che il bisogno di apparire come diversi dagli altri per sentirsi unici sia una vera e propria patologia che rivela come abbiamo perso il vero senso dell’unicità. Ma in monastero si impara cos’è l’unicità come – in fondo – lo sanno tutti: è il semplice fatto di avere quel volto, quegli occhi, quella voce, quella luce negli occhi, quel modo di atteggiarsi nella vita e quel modo di stare in relazione con gli altri, unico e inconfondibile. Non c’è bisogno di fare cose strane, o di mostrarsi superiori agli altri. È il tuo stesso nome che ti rende unico. Questa è la poesia della vita quotidiana. Nella nostra cultura, al contrario, facilmente l’eccentricità diventa superiorità. Credo che la comunicazione televisiva sia stata una delle principali maestre di questa aberrazione: il modo di apparire deve attirare l’attenzione e segnalare la propria unicità, ma a uno sguardo attento subito si rivela quale banalità viene cosí espressa.
Dal punto di vista antropologico, alla luce del vissuto in monastero, sono convinta che non la visione ma l’ascolto sia fondamentale per incontrare l’altro. L’uomo si rapporta all’altro soprattutto attraverso la parola che riesce ad esprimere, in un certo modo, il mistero della sua intenzione. Invece ci troviamo in una cultura in cui la parola, detta o scritta, è svilita immensamente. Le immagini producono effetti suggestivi, ma non costruiscono una situazione dialogica con l’interlocutore, che rimane invece «spettatore». Attraverso le immagini, la comunicazione si assesta dunque a un livello di suggestione: è comunicazione disimpegnata. Quando, raramente, mi avviene di parlare fuori dal monastero sento il disagio di appartenere a una cultura un po’ desueta, anche se io sostengo che basare la comunicazione sulla parola e sull’ascolto debba essere un valore per tutti; soprattutto sull’ascolto, perché prima di parlare con qualcuno devo ascoltarlo. Io non porto il mio patrimonio di cultura alla conoscenza degli altri, questo lo fanno i conferenzieri, una monaca non lo fa… Una monaca parla per testimoniare la vicinanza di Dio all’uomo, ma ella è anzitutto cercatrice di Dio nell’altro.
Purtroppo lo spazio vitale dei monasteri si va sempre piú restringendo. Lo dico a livello di cultura generale, ma anche di Chiesa. Se a Viboldone dovessimo essere attorniate, come sembrava dovesse a un certo momento accadere, da realtà che sfruttano la presenza di un’abbazia come un generico luogo di cultura, di fruizione estetica, di turismo spirituale, equivarrebbe a soffocare. Penso che le benedettine che vivono nel cuore di Milano abbiano dovuto cedere, per avere il diritto di esistere, a diventare un luogo di aggiornamento culturale, che è una riduzione e un rischio.
Per fortuna resta aperta la possibilità che, una volta interiorizzato l’archetipo monastico, il monastero assuma forme diverse, viva in modalità nuove, non piú necessariamente in un luogo fisico. Penso al monachesimo russo, per lunghi anni in diaspora. Ogni monastero ha la propria storia di devastazioni e rinascite: quelli che si sono protratti troppo nel tempo sono diventati un’istituzione integrata nel tessuto della vita civile e li guardo con un certo disagio, perché vengono sopraffatti dal peso simbolico dell’eredità che custodiscono e perdono in vivacità di apertura al nuovo della storia: stentano a essere luogo di scambi vitali, di relazioni. Diventano come dei musei, spesso frequentati per la maggior parte da consumatori di turismo spirituale.
Un luogo improbabile.
Il nostro monastero è collocato in un territorio improbabile, tutt’altro che ideale da un punto di vista climatico, tant’è che quando siamo arrivate nel 1941 in tempo di guerra – dico «siamo» ma in realtà io sarei nata tre anni piú tardi… – il cardinale di Milano Schuster, monaco benedettino anch’egli, era totalmente contrario all’idea che ci installassimo lí. Diceva che il monastero deve trovarsi in una posizione felice, bella, salubre. Noi, al contrario, a parte la bellezza dell’abbazia, eravamo circondate da marcite, umidità, nebbie e zanzare, traffico, inquinamento. Si tratta di un luogo improbabile dal punto di vista dell’ecosistema, anche perché posto in una zona socialmente depressa, popolosa, densa di immigrazione, segnata dalla grande mobilità dei residenti e apparentemente estranea a una presenza religiosa. Ma noi sostenevamo che i monasteri erano nati originariamente – il deserto egiziano, le caverne, le colonne… – in luoghi improbabili. Il primo monaco, Antonio eremita, si era infine insediato nei sepolcri, nei luoghi dove – a detta popolare – abitano i demoni.
Sta proprio qui la sfida: testimoniare la benedizione di Dio in luoghi maledetti. Intorno alla presenza del nostro monastero gli sguardi sono diversi: c’è chi pensa che noi dobbiamo esserci perché altrimenti dovrebbero «inventarci», perché il monastero è inteso come quel luogo in cui si converge per confrontare le domande piú inquietanti, per raccontare le proprie sofferenze, i propri pensieri. Si chiede di essere ospitati nell’umanità e nella preghiera delle monache, convinti che grazie alla loro intercessione le cose andranno meglio. Un luogo simbolico, quindi, senza un rapporto reale ma immaginario. Oppure, per altri, siamo il luogo in cui si restaurano i libri antichi, o dove si canta il gregoriano. O ancora siamo il luogo in cui si sente un’atmosfera di pace, qualcosa di «diverso», una componente spirituale della vita, e allora, forse, cominciamo ad avvicinarci…
Avvicinandoci, si comprende che siamo donne come le altre. Avviene quando è piú visibile, nel tessuto umano che costituisce la comunità, la presenza della fragilità, cioè di persone che hanno bisogno di aiuto per curare le monache piú anziane o per far fronte ai guai che ci capitano; insomma, quando si comprende che noi siamo per gli altri ma anche abbiamo bisogno degli altri, allora nasce un rapporto piú concreto, ci si incontra su un piano di realtà, si vede che nel monastero ci sono donne oggi piú che mai «arrischiate» nella loro possibilità di sopravvivenza. È proprio cosí che il rapporto con gli altri diventa piú vero: domandandosi insieme come fare a vivere di fede in un tempo e in un luogo segnati dalla precarietà, si dispone il vero luogo della preghiera.
Insomma: la relazione con gli altri è complessa, ci sono tanti e diversi sguardi su di noi. Abbiamo cercato di scoraggiare, sin dall’inizio, una certa curiosità e una futile retorica della separazione: per esempio escludendo da subito le grate, il massimo simbolo legato al monachesimo femminile («claustrale») che incanta la gente, la quale ci rimanda questo implicito messaggio: «State nascoste, cosí che noi possiamo immaginarvi», «Non fatevi vedere troppo da vicino, cosí che possiamo ammirarvi alla debita distanza».
Il progetto monastico è tutto il contrario, a mio parere. Altra è la distanza che si cerca. Sta nel tentativo di fare spazio all’alternativa del Vangelo, di custodire la consolazione delle Scritture, la qualità delle relazioni, come avviene tra donne che non si sono scelte, non si sono radunate grazie a una corrispondenza elettiva ma semplicemente per la passione per il Vangelo e maturate dalla forma di vita monastica. Non avrebbe senso una comunità cristiana basata su criteri elitari. Una comunità cristiana concreta è sensata se annuncia una qualità della vita che anche altri possano condividere o da cui possano scoprirsi riguardati in maniera feconda. La qualità cristiana di una comunità non si misura sulle buone prestazioni o sull’eccellenza che può vantare sugli altri. Nessuno salva il mondo, l’ha salvato solo Gesú ed è questo che dobbiamo annunciare con forza. Non lo salvano le monache, non lo salvano nemmeno i preti. Possono esserci delle supplenze, che la storia ci porta ad assumere, ma l’essere cristiano si gioca non sulle prestazioni eccellenti bensí sulla testimonianza di fede. Ciascuna comunità cristiana, di per sé stessa, non vale perché risolve i problemi che affronta, ma perché esprime in maniera significativa ed evangelicamente sensata una via, un modo, una strada di vita che può essere buona notizia anche per gli altri.
Accogliere nell’ascolto.
Sono veramente molte le persone che si rivolgono a noi, giorno e notte, perché capita di ricevere telefonate anche di notte. C’è una religiosità, a volte anche con accenti infantili o patologici, ma pur comunque sempre umana, che ritiene di aver bisogno delle monache. È un fenomeno in espansione in un’epoca segnata da tanta solitudine e decadenza. Noi, pur nei nostri limiti, dobbiamo e vogliamo dare ascolto a tutti. Certo raggiungiamo pochi, infinitamente meno di quelli che cercano aiuto. Oggi poi, attraverso le e-mail, le richieste si sono ulteriormente moltiplicate. Forse ancora esiste il pregiudizio secondo il quale noi viviamo chiuse qua dentro e non sappiamo nulla o quasi del mondo, ma il mondo si racconta continuamente al monastero. Credo che molti pensano che, essendo monache, possono raccontarci di tutto. In nome di che? Non perché siamo superiori o tecnicamente attrezzate, ma semplicemente perché siamo, insieme, cercatrici di Dio.
È difficile far capire che la separazione attuata dal monastero non è una separazione che distingue due mondi, due razze umane, due mentalità, ma è quella separazione che permette di concentrarsi sull’essenziale, e lo permette a tutti: a chi vi dimora e a chi vi è ospitato. È un modello di presenza nel quale la distanza, simbolica, consente di incontrarsi l’un l’altro. È un modello simbolico che si propone per essere acquisito come forma universale della relazione umana.
Tutti devono poter entrare in relazione con noi, anche se il nostro scopo non è essere conosciute ma esistere, semplicemente. Da questo punto di vista noi crediamo profondamente nell’intercessione, cioè in quel portare una realtà umana, altra dalla nostra, anzitutto nel cuore e, quindi, davanti a Dio, in quella memoria «esistenziale» che parte dall’Eucaristia: assumere il peso delle domande, della disperazione, del patimento, della speranza di una concreta realtà umana e gettarlo davanti a Dio. Intercedere significa che una realtà umana mi tocca profondamente, instaurare una reciproca appartenenza, e di conseguenza portarla davanti al Dio in cui si crede. Camminare tra Dio e questa realtà, inter–cedere, starci in mezzo. Questo è un modo di stare in relazione con altri. Noi dedichiamo il tempo agli uomini, non solo il tempo cronologico ma anche e soprattutto il tempo dell’anima. Le persone vengono da noi, ci scrivono, si tengono in relazione con noi in nome di un loro vissuto che ritengono di non riuscire a portare da soli; chiedono aiuto per dare senso a quel vissuto, per avere speranza. Penso a quella coppia sposata che venne a chiedere consiglio su come separarsi in pace, senza litigio, superando la rabbia del fallimento. Ho parlato con l’una e poi con l’altro, e poi con entrambi. Poi silenzio. Non li cercai, poiché l’intercessione è il luogo dell’altissima libertà. Li rividi tempo dopo, insieme, a messa. Lei si avvicinò e mi disse che era successo quel che non avrebbero mai sperato accadesse, mi disse che a Viboldone era successo un miracolo…
Sempre piú persone ci chiedono ospitalità, spesso per poter passare una o piú giornate nel nostro ritmo, in cui eventualmente è previsto di poter parlare con noi. Giornalisti, politici, scrittori… Magari a loro serve perché sempre piú i luoghi dell’umano mancano di quella condizione di silenzio e di ascolto che invece in un monastero è anzitutto perseguita e, in qualche modo, custodita. Qualche ospite mi ha detto: «Solo voi e qualche psicoanalista oggi offrite ancora una capacità di ascolto».
Credo che un certo decadimento della pratica della confessione, decadimento dovuto alla mancanza di preti ma anche a una scarsa preparazione sul senso della confessione, abbia incrementato il numero di persone che si rivolgono alle monache, in modo anche casuale e sfasato.
Vengono anche persone che si dichiarano atee ma vogliono comunque parlare con una monaca come se fossero alla ricerca di ragioni per persuadersi del contrario… O semplicemente vengono persone a chiedere soldi, o lavoro. Nella fatica – che poi diventa arte – di ospitare gli altri, ho trovato che Gesú è il Maestro e il Signore. Gesú è Maestro di relazione, tutto il resto della sua opera di comunicatore ne è una conseguenza. I primi trent’anni ha ascoltato: ci sono voluti trent’anni di gratuito, semplice ascolto dell’umano. Poi tre anni di vita pubblica, di annuncio per giungere al fraintendimento completo: consegnare la sua testimonianza a orecchie e cuori che solo il suo soffio potrà rendere recettivi.
Certo noi dobbiamo stare attenti alle strumentalizzazioni. Cerchiamo di mandare questo chiaro messaggio: il silenzio si scava attraverso una lotta e non è semplicemente garantito da un luogo. L’arte dei monaci è quella del silenzio perseguito attraverso la lotta contro i pensieri, contro ogni ragionamento e sentire menzogneri, per aprirsi allo Spirito di Dio che parla, ovunque e sempre, in ogni voce di vita. In questa arte, la potenza viva, efficace, tagliente della Parola di Dio è il primo motore, artefice di verità.
Argentina e altre storie.
La prima volta si presentò vent’anni fa. Capitò alla porta questa ragazza scarmigliata, irsuta. Chiese della madre superiora, e io scesi. Disse di non avere casa e che aveva bisogno di soldi. Le dissi che soldi non ne potevamo dare, ma eravamo pronte ad aiutarla. Inizialmente era ritrosa a dire di sé, poi si addolcí e capii che di una cosa aveva fame e sete: di essere ascoltata. Una storia triste, mai narrata ad alcuno.
Aveva lo sguardo velato. Viveva inizialmente nelle case popolari, a Milano, ma sua madre era morta da poco. Lei aveva assistito la madre – la persona per lei piú preziosa – all’ospedale di San Donato, fino alla morte. Ma poi non aveva avuto il coraggio di separarsi da lei, d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Mentre vi guardo
  3. Lo sguardo reciproco di Pierfilippo Pozzi
  4. Mentre vi guardo
  5. Premessa
  6. Il primo giorno
  7. Questioni comuni
  8. Il monastero quotidiano
  9. La soglia del mistero
  10. In cerca di te
  11. Elenco dei testi citati
  12. Il libro
  13. Gli autori
  14. Copyright