Potremmo collegare questo capitolo al precedente in modo aneddotico, alludendo all’opinione di Hannah Arendt sulla coppia di cui ci siamo appena occupati. La vigilia di Natale del 1964 Mary McCarthy, infastidita dai problemi cui era andata incontro in Francia quando voleva pubblicare un articolo critico su Sartre, scrive all’amica riferendole l’episodio, e questa reagisce con malcelata irritazione: «Ho appena finito di leggere Les mots e mi ha cosí disgustata che ero quasi tentata di recensire questo pezzo pieno di bugie sommamente complicate. […] Sartre […] dice delle “verità” apparentemente oltraggiose con grandi dimostrazioni di sincerità, al fine di meglio nascondere ciò che è veramente accaduto»1. E, dopo aver alluso con durezza alla sua dubbia partecipazione alla Resistenza, se la prende con l’altro componente della coppia, in termini non molto lontani da quelli proposti poco prima: «Leggerò Les confessions di Simone, per il loro valore di pettegolezzo, ma anche perché questo genere di malafede acquista un certo fascino»2.
Non è il caso di attenuare l’importanza del tono volendo leggervi una qualche reazione a caldo: Arendt la pensava in questo modo da tempo. William Phillips, direttore della «Partisan Review», ha riferito un aneddoto che ha vissuto personalmente, e che si rivela molto pertinente. Dopo un incontro con Simone de Beauvoir, nel 1947, aveva rivelato ad Arendt quanto fosse sorpreso dall’«infinità di stupidaggini» che la scrittrice riusciva a dire sugli Stati Uniti. La replica dell’interlocutrice fu disarmante: «Tu non vuoi capire, William, che non è molto sveglia. Invece di discutere con lei dovresti corteggiarla»3.
Indubbiamente a questo rifiuto contribuiscono in parti uguali l’ambito personale, quello dottrinale e quello politico. Arendt fu sempre sensibile al pensiero esistenzialista (lesse con entusiasmo La nausea durante il suo soggiorno a Parigi, negli anni Trenta, e iniziò un rapporto di amicizia personale con il suo autore), ne seguí il percorso e ne considerò valide le proposte (quella di Kierkegaard fu tra le letture piú decisive della sua giovinezza), e questa sensibilità la rese rispettosa verso le idee della coppia che abbiamo analizzato. Ma Arendt sembra innervosita da qualcosa d’altro, che riguarda l’uso pubblico che i due fanno tanto della filosofia quanto del loro rapporto amoroso. Solo in questo modo si può comprendere la durezza con cui si riferisce a loro:
Per settimane ho letto La forza delle cose di Simone de Beauvoir come [una] specie di sonnifero. È uno dei libri piú bizzarri che ho letto negli ultimi anni. Strano che nessuno lo abbia ancora fatto a pezzi. Per quanto mi sia antipatico, sembra che Sartre debba scontare tutti i suoi peccati con questo tipo di croce4.
I due hanno il potere, sono loro a comandare: questo li rende estremamente antipatici agli occhi di Arendt. Ma il fatto di avere una ragione fondata non impedisce alla nostra autrice di provare un fondo di pietà nei confronti della pensatrice francese: «L’unica circostanza attenuante, “nel caso contro di lei” è il suo amore incrollabile per lui, molto commovente davvero»5. Forse perché nell’idea arendtiana dell’amore – sebbene neanche lei abbia dedicato un’enorme quantità di pagine all’argomento – c’è qualcosa che le permetteva, seppure in modo fugace, di capirli, e che a noi fornisce una chiave di lettura da proiettare retrospettivamente sul modo in cui Sartre e de Beauvoir hanno vissuto la loro strana passione.
Avventure esistenziali.
Johanna (Hannah) Arendt nasce a Linden, nei pressi di Hannover, il 14 ottobre 1906, in una famiglia di commercianti ebrei di origine russa che tre anni dopo si trasferisce a Könisberg, la città natale di Kant. Anche se i genitori, Paul Arendt e Martha Cohn, hanno una posizione agiata (lui è ingegnere e lavora presso un’impresa di forniture elettriche), non si può dire che fossero ricchi. Il bisnonno materno, emigrato dalla Lituania mezzo secolo prima, aveva messo su una compagnia d’importazione di tè russo che, con il passare del tempo, era divenuta il commercio piú florido della città, ma la crisi economica causata dalla Prima guerra mondiale aveva messo in relativa difficoltà la famiglia.
La condizione ebraica di Arendt costituirà un elemento chiave nella sua biografia. Non sembra possa essere argomento di discussione (lei stessa aveva rivelato a Gershom Scholem: «Ho sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei dati indiscutibili della mia vita, che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare»6), in particolare se inscriviamo il dato nel contesto della situazione europea di quegli anni, i momenti storici che la nostra autrice dovrà vivere e i difficili episodi personali in cui sarà coinvolta. Ciò non impedisce di riconoscere che i suoi rapporti con il mondo ebraico furono sempre complessi, di una complessità in qualche modo ereditata.
Intendiamo dire che l’appartenenza peculiare di Arendt al mondo in questione derivava, in larga misura, dalla famiglia. Il nonno era stato presidente della comunità ebraica liberale e manifestava una serie di reticenze critiche riguardo i sionisti. In gioventú i genitori di Hannah erano stati socialisti attivi – nonostante il divieto – e probabilmente è in questi termini, piú di ribellione consapevole e di rivendicazione della dignità di cittadini che di specifica simpatia per il mondo ebraico, che si devono intendere alcuni atteggiamenti dell’autrice, secondo quanto ha riferito lei stessa: «[mia madre] era evidentemente ebrea, e non mi avrebbe mai fatto battezzare. Ritengo che mi avrebbe dato un paio di schiaffi, se avesse saputo che avevo ripudiato l’ebraismo. Ma ciò, per cosí dire, non è mai stato in discussione, e quindi il problema non si è mai posto»7.
In effetti i principî che le inculca la madre (il padre muore prematuramente, vittima di una sifilide contratta in gioventú, nel 1913, quando Hannah aveva solo sette anni) sembrano legati a una visione progressista della vita («la questione dell’ebraismo non ha avuto mai alcun ruolo per lei», sappiamo dalla figlia), in cui non esistono né sottomissione né intimidazione («mia madre partiva sempre da questo punto di vista: non bisogna abbassare la testa! Bisogna sempre difendersi!»)8. Non bisogna dimenticare che Martha, oltre ad aver simpatizzato, come il marito, per le idee socialiste, aveva condiviso con lui anche gli ideali goetheani della Bildungselite (élite colta) tedesca, di cui si sentiva parte e che, in sintonia con il crescente interesse di allora per l’educazione dei figli, prestava particolare attenzione allo sviluppo armonico della loro personalità in ambito fisico, psichico e spirituale. La nostra autrice ha ricordato le istruzioni ricevute a casa: se il professore si permetteva commenti antisemiti «ero stata istruita ad alzarmi, abbandonare la classe, tornare a casa e stendere una relazione dettagliata su ciò che era avvenuto. Mia madre scriveva una delle sue tante lettere raccomandate; per me l’incidente era assolutamente chiuso»9. Si trattava, in definitiva, di una questione di dignità. E in un certo senso anche, perché non dirlo, di orgoglio.
Si direbbe che questi atteggiamenti abbiano finito per segnare profondamente la personalità della giovane. Dopo aver terminato gli studi superiori e aver seguito diversi corsi universitari, i racconti di Ernst Grumach, all’epoca compagno della sua cara amica Anne Mendelssohn, discendente del noto compositore, spingono l’inquieta e smaniosa Hannah a trasferirsi a Marburgo, per studiare con un giovane professore di filosofia di nome Martin Heidegger, che non ha ancora pubblicato nessun lavoro importante ma, a quanto pare, affascina i suoi allievi. Entusiasta e scoppiettante di vitalità, la ragazza soprannominata «la Verde», perché spesso vestiva di questo colore, con i capelli a caschetto (secondo la nuova moda) e una personalità intensa, arriva a Marburgo nell’autunno del 1924. Non poteva passare inosservata. Nella cittadina entra cosí in contatto con l’ex assistente di Husserl a Friburgo, conosciuto già come «il mago di Meßkirch», figura emergente della filosofia tedesca. Heidegger affascina gli allievi con una proposta filosofica che si allontana dalla banalità diffusa. Il motivo del fascino ha molto a che vedere con il fatto che – come Jaspers, con cui condivide l’ispirazione fenomenologica – ai giovani interlocutori appare come un ribelle che lotta contro la mediocrità imperante nell’insegnamento della filosofia, combattendo l’erudizione stantia, il mero ricostruttivismo dei grandi sistemi filosofici.
Nel 1925 Arendt segue un semestre con Husserl a Friburgo. Poi – a quanto pare su suggerimento dello stesso Heidegger – si trasferisce a Heidelberg, per lavorare alla tesi di dottorato sul concetto di amore in sant’Agostino, seguita da Karl Jaspers, tesi che terminerà nel 1929.
Per quanto riguarda la cerchia di filosofi in cui si muoveva Arendt a diciott’anni, si può constatare che la accomunava a Hans Jonas, Karl Löwith, Hans-Georg Gadamer e Gerhard Nebel il fatto di essere tutti apolitici. L’unica eccezione era costituita dal suo futuro marito, Günther Stern (noto con lo pseudonimo di Günther Anders), figlio di una coppia di celebri psicologi, William e Clara Stern, con cui Hannah si sposò nel 1929, e che si identificava politicamente con i teorici critici della società, orientati a sinistra.
La politicizzazione di Hannah sarà accelerata da un altro genere di fattore. Il clima antisemita in Germania si fa sempre piú soffocante. A causa delle sue origini ebraiche, le è preclusa la docenza, goccia che in qualche modo fa traboccare il vaso e porta Arendt ad allinearsi con i sionisti. Comincia a occuparsi di coloro con cui condivide le origini ebraiche e dà loro rifugio a Berlino, per poi favorirne la fuga in Francia. Lei stessa, nel 1933, fugge a Parigi, seguendo il marito, il cui nome è stato trovato dalla Gestapo sull’agenda di Bertolt Brecht.
A Parigi continua a lavorare, come segretaria generale dell’Aliyah per la Gioventú, organizzazione sionista che aiutava i giovani rifugiati a prepararsi per la vita in Palestina, e si occupava di far viaggiare i figli degli esiliati. Nel 1936 si separa da Anders, che va a New York, e l’anno seguente divorzia. Nel 1937 le viene tolta la cittadinanza tedesca. Conosce Heinrich Blücher, comunista e attivista tedesco in esilio, con cui si sposerà nel 1940. Tra il 1938 e il 1939 lavora, sempre a Parigi, per la Jewish Agency. Quando scoppia la guerra, nel ’39, gli ebrei non sono piú al sicuro in Francia. Le stesse autorità francesi fanno un appello a mezzo stampa riguardo agli «stranieri di origine tedesca» perché vengano deportati. Dopo una settimana passata rinchiusa in un velodromo parigino, viene trasferita al campo di internamento di Gurs, da dove riesce a scappare, approfittando dell’allentamento della vigilanza francese dovuto all’entrata a Parigi della Wehrmacht e all’avanzata verso Sud. Vista la situazione, decide di lasciare il Paese con il marito. Dopo alcuni mesi come profughi, i due chiedono e ottengono il visto che permette loro di emigrare. Nel gennaio del 1941 partono per Lisbona, attraversando i Pirenei, per poi intraprendere il viaggio verso gli Stati Uniti in compagnia della madre di Hannah.
Una volta arrivata a destinazione, Arendt trova lavoro come articoli...