Tutti i nostri ieri
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Tutti i nostri ieri

  1. 352 pagine
  2. Italian
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Tutti i nostri ieri

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«Scritto nel 1952, Tutti i nostri ieri è il pendant romanzesco di Lessico famigliare... Chi scruta e registra è una ragazza un po' al margine, che si tiene come fuori dal gioco, che pare finga non saperne nulla ma che poi è l'anima, affettuosa e feroce, di tutto il nodo di sentimenti che intorno si svolge. Solo che qui la voce è fissata in una specie d'immaturità attonita e sorda, e in un'unica cadenza, quasi un canto monodico, percorre tutto il libro... Il piacere di Natalia è inventare storie familiari che portino in sé quello snodarsi di sentimenti e legami e caratteri e simpatie e antipatie e rancori e amori, che hanno le storie delle vere famiglie, e quel tanto di sempre prevedibile e quel tanto di sempre casuale, e quel tanto di comune aria di famiglia e quel tanto d'imprevedibilità individuale nel venir su dei figlioli, una generazione dopo l'altra». Italo Calvino

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858409176

Parte prima

I.

Il ritratto della madre era appeso nella stanza da pranzo: una donna seduta, con un cappello a piume e un lungo viso stanco e spaventato. Era sempre stata di salute debole, soffriva di vertigini e di batticuore e quattro figli erano stati troppi per lei. Era morta poco dopo la nascita di Anna.
Andavano al cimitero qualche domenica, Anna, Giustino e la signora Maria. Concettina no, perché non metteva mai piede fuori di casa la domenica, era una giornata che detestava e stava chiusa nella sua stanza a rammendarsi le calze col piú brutto dei suoi vestiti. E Ippolito doveva tenere compagnia al padre. Al cimitero la signora Maria pregava, i due ragazzi invece no perché il padre diceva sempre che pregare è stupido, e forse c’è Dio ma non occorre pregarlo, è Dio e sa da sé come stanno le cose.
Quando non era ancora morta la madre, la signora Maria non stava con loro ma con la nonna, la madre del padre, e viaggiavano insieme. Sulle valige della signora Maria c’erano le figure degli alberghi, e in un armadio c’era un suo vestito con dei bottoni a forma di piccoli abeti, comprato nel Tirolo. La nonna aveva la mania di viaggiare e non aveva mai voluto smettere, e cosí s’era mangiata tutti i suoi soldi, perché le piaceva andare negli alberghi eleganti. Negli ultimi tempi era diventata molto cattiva, raccontava la signora Maria, perché non si dava pace di non avere piú soldi, e non si spiegava come mai, e ogni tanto lo dimenticava e voleva comprarsi un cappello, e la signora Maria doveva trascinarla via dalla vetrina, che pestava l’ombrello per terra e si mangiava la veletta di rabbia. Adesso era sepolta a Nizza lí dov’era morta, lí dove si era divertita tanto da giovane, quando era fresca e bella e aveva tutti i suoi soldi.
La signora Maria era molto contenta se poteva parlare dei soldi che aveva avuto la nonna, e se poteva raccontare e vantarsi dei viaggi che avevano fatto. La signora Maria era molto piccola, e quando stava seduta, non toccava per terra con i piedi. Per questo quando stava seduta s’avvolgeva in una coperta, perché non le piaceva far vedere i suoi piedi che non toccavano terra. La coperta era quella della carrozza, quella che si tenevano sulle ginocchia lei e la nonna vent’anni prima, quando giravano in carrozza per la città. La signora Maria si dava un pochino di rossetto alle guance, e non le piaceva che la guardassero al mattino presto quando ancora non aveva il rossetto, e cosí scivolava nel bagno zitta zitta e curva, e trasaliva e s’arrabbiava molto se qualcuno la fermava nel corridoio per chiederle qualche cosa. Nel bagno ci restava sempre un pezzo e tutti allora venivano a picchiare alla porta e lei si metteva a gridare che era stufa di stare in quella casa, dove nessuno aveva rispetto per lei, e voleva far subito le valige e andare a Genova da sua sorella. Due o tre volte aveva tirato fuori le valige da sotto l’armadio e aveva cominciato a metter via le sue scarpe nei sacchettini di stoffa. Bisognava far finta di niente e dopo un po’ tornava a tirar fuori le scarpe. Del resto tutti sapevano che quella sua sorella di Genova non ce la voleva in casa.
La signora Maria veniva fuori dal bagno tutta vestita e col cappello in testa, e correva nella strada con una paletta a raccogliere il letame per concimare i rosai, svelta svelta e badando che non passasse nessuno. Poi andava con la rete a fare la spesa, ed era capace di traversare la città in mezz’ora con i suoi piccoli piedi veloci nelle scarpette col fiocco. Ogni mattina frugava l’intera città per trovare la roba che costava meno, e tornava a casa stanca morta, ed era sempre di cattivo umore dopo la spesa, e se la prendeva con Concettina che era ancora in vestaglia, e diceva che mai avrebbe creduto di dover affannarsi per la città con la rete, quando sedeva in carrozza accanto alla nonna, con le ginocchia ben calde nella coperta e la gente che salutava. Concettina si spazzolava i capelli piano piano davanti allo specchio, e poi accostava il viso allo specchio e si guardava le lentiggini una per una, si guardava i denti e le gengive e tirava fuori la lingua e se la guardava. Si pettinava con i capelli annodati in un rotolo stretto sulla nuca e la frangia arruffata sulla fronte, e con quella frangia aveva proprio l’aria di una cocotte, diceva la signora Maria. Poi spalancava l’armadio e studiava che vestito mettere. Intanto la signora Maria buttava all’aria i letti e sbatteva i tappeti, con un fazzoletto in testa e le maniche rimboccate sulle braccia secche e vecchie, ma scappava via dalla finestra se vedeva affacciata al balcone la signora della casa di fronte, perché non le piaceva farsi vedere col fazzoletto a sbattere i tappeti, e ricordava che era entrata in casa come dama di compagnia, e adesso ecco che cosa le toccava di fare.
La signora della casa di fronte anche lei aveva la frangia, ma una frangia arricciata dal parrucchiere e scompigliata con grazia, e la signora Maria diceva che pareva piú giovane di Concettina, quando usciva fuori al mattino con certe vestagliette chiare e fresche, eppure si sapeva con certezza che aveva quarantacinque anni.
C’erano dei giorni che Concettina non riusciva a trovare un vestito da mettere. Provava sottane e camicette, cinture e fiori allo scollo, e non era contenta di niente. Allora si metteva a piangere e gridava com’era disgraziata, senza un vestito carino da mettere e poi con una figura tanto malfatta. La signora Maria chiudeva le finestre, perché dalla casa di fronte nessuno sentisse. – Non sei malfatta, – diceva, – solo un po’ forte di fianchi e un po’ piatta di seno. Come tua nonna, che anche lei era piatta di seno –. Concettina gridava e singhiozzava, buttata mezzo svestita sul letto disfatto, e allora venivan fuori tutti i dispiaceri che aveva, gli esami che doveva dare e le storie con i suoi fidanzati.
Concettina aveva tanti fidanzati. Li cambiava sempre. Ce n’era uno sempre fermo davanti al cancello, uno con una faccia larga e quadrata e la sciarpa al posto della camicia, puntata con uno spillo da balia. Si chiamava Danilo. Concettina diceva che l’aveva lasciato da un pezzo, ma lui ancora non si rassegnava e passeggiava avanti e indietro davanti al cancello, con le mani dietro la schiena e col basco calato sulla fronte. La signora Maria aveva paura che tutt’a un tratto entrasse a fare una sfuriata a Concettina, e andava dal padre a lamentarsi di tutte le storie che aveva Concettina con quei suoi fidanzati, e lo tirava alla finestra a vedere Danilo col basco e con le mani dietro la schiena, e voleva che il padre scendesse a mandarlo via. Ma il padre allora diceva che la strada è di tutti e non si ha diritto di scacciare via un uomo da una strada, e tirava fuori il suo vecchio revolver e lo metteva sul tavolo, per il caso che a un tratto Danilo scavalcasse il cancello. E spingeva fuori dalla stanza la signora Maria, perché voleva stare in pace a scrivere.
Il padre scriveva un grande libro di memorie. Lo scriveva da molti anni, aveva smesso di far l’avvocato per poterlo scrivere. Era intitolato: Niente altro che la verità e c’erano cose di fuoco sui fascisti e sul re. Il padre rideva e si stropicciava le mani a pensare che il re e Mussolini non ne sapevano niente, e in una piccola città dell’Italia un uomo scriveva pagine di fuoco su di loro. Raccontava tutta la sua vita, la ritirata di Caporetto dove s’era trovato anche lui e tutte le cose che aveva visto, e i comizi dei socialisti e la Marcia su Roma e tutti i tipi che avevano voltato camicia nella sua piccola città, persone che sembravano per bene e le nere porcate che poi avevano fatto, «niente altro che la verità». Per mesi e mesi scriveva e suonava il campanello ogni minuto per chiedere del caffè, e la stanza era piena di fumo, e anche la notte stava alzato a scrivere, oppure chiamava Ippolito che scrivesse mentre lui dettava. Ippolito picchiava forte sulla macchina da scrivere, e il padre dettava passeggiando in pigiama per la stanza, e nessuno poteva dormire, perché la casa aveva i muri sottili, e la signora Maria si rigirava nel letto, tremando di paura che dalla strada qualcuno sentisse la voce concitata del padre, e le cose di fuoco che lui diceva contro Mussolini. Ma poi a un tratto il padre si perdeva di coraggio, e il suo libro non gli sembrava piú tanto bello, e poi diceva che gli italiani erano tutti sbagliati e con un libro certo non si poteva cambiarli. Diceva che aveva voglia di uscire per la strada a sparare con il suo revolver, oppure niente, oppure stare sdraiato a dormire e aspettare che venisse la morte. Non usciva piú dalla sua stanza; passava le giornate a letto e voleva che Ippolito gli leggesse il Faust. E poi chiamava Giustino e Anna e gli chiedeva scusa, perché non aveva mai fatto le cose che fa di solito un padre, non li aveva mai portati al cinematografo e neppure a passeggio. E chiamava Concettina e voleva sapere dei suoi esami e dei suoi fidanzati. Diventava molto buono quando era triste. Si svegliava un mattino e non era piú tanto triste, voleva che Ippolito gli massaggiasse la schiena col guanto di crine, voleva i suoi calzoni di flanella bianca. Si metteva seduto in giardino e voleva che gli portassero lí il caffè, ma lo trovava sempre troppo leggero e lo buttava giú con disgusto. Se ne stava seduto in giardino tutta la mattina, con la pipa stretta fra i denti bianchi e lunghi, e col viso magro e rugoso contratto da una smorfia, non si capiva bene se per via del sole o per il disgusto del caffè o per lo sforzo di regger la pipa soltanto coi denti. Non chiedeva scusa di niente a nessuno quando non era piú triste, e frustava i rosai con la sua canna mentre pensava di nuovo allibro di memorie, e allora la signora Maria si addolorava per i rosai, che le stavano tanto a cuore, e faceva ogni mattina quel sacrificio di scendere giú in strada a raccogliere il letame con la paletta, col rischio che qualcuno la vedesse e ridesse di lei.
Non aveva nessun amico il padre. A volte si metteva a camminare per tutta la città, con un’aria dispettosa e cattiva, e si sedeva in un caffè del centro a guardare la gente che passava, per farsi vedere da quelli che conosceva molto bene una volta, per far vedere che era ancora vivo e pensava che ci avessero rabbia. Allora tornava a casa abbastanza contento, quando aveva visto passare qualcuno di quelli che erano socialisti come lui una volta, e che adesso erano fascisti, e non sapevano che c’era scritto di loro nel libro di memorie, del tempo che erano gente per bene e di tutte le nere porcate che poi avevano fatto. A tavola il padre si stropicciava le mani e diceva che se c’era Dio, l’avrebbe lasciato vivere fino alla fine del fascismo, perché potesse pubblicare il suo libro e vedere le facce della gente. Diceva che cosí si sarebbe saputo finalmente se c’era o se non c’era questo Dio, ma lui tutto sommato pensava piuttosto di no, o chissà, forse c’era ma teneva per Mussolini. Dopo mangiato il padre diceva: – Giustino, va’ a comperarmi il giornale. Renditi utile, visto che non sei dilettevole –. Perché non era piú niente gentile quando non era triste.
Arrivavano ogni tanto delle grandi scatole di cioccolatini, che mandava Cenzo Rena, uno che era stato molto amico del padre una volta. Arrivavano anche le sue cartoline illustrate da tutti i punti del mondo, perché Cenzo Rena viaggiava sempre, e la signora Maria riconosceva i posti dov’era stata con la nonna, e infilava le cartoline nello specchio del suo comò. Ma il padre non voleva sentirne parlare di Cenzo Rena, perché erano stati amici ma poi avevano litigato in un modo terribile, e quando vedeva arrivare i cioccolatini alzava le spalle e sbuffava, e Ippolito doveva scrivergli di nascosto a Cenzo Rena, per ringraziarlo e per dargli notizie del padre.
Concettina e Anna prendevano lezione di piano due volte la settimana. Si sentiva una piccola scampanellata paurosa, Anna apriva il cancello e il maestro di piano attraversava il giardino e si fermava a contemplare i rosai, perché anche lui sapeva la storia del letame e della paletta, e poi perché sperava che da un punto o dall’altro del giardino sbucasse fuori il padre. Da principio il padre gli aveva dato molta retta e s’era immaginato che fosse un grand’uomo quel maestro di piano, lo faceva sedere nella sua stanza e gli dava il suo tabacco da fumare, e gli batteva forte sul ginocchio e non la finiva piú di dire che era una persona straordinaria. Il maestro di piano stava scrivendo una grammatica latina in versi, la copiava su un quadernetto e ogni volta che veniva voleva che il padre sentisse qualche nuova strofa. E a un tratto il padre s’era stancato terribilmente di lui, non voleva piú sentire le strofe nuove della grammatica e quando squillava la piccola scampanellata paurosa del maestro di piano, si vedeva il padre fuggire su per le scale e nascondersi dove poteva. Il maestro di piano non si dava pace di non esser piú accolto nella stanza del padre, parlava ad alta voce nel corridoio e leggeva le sue strofette, sempre guardando da una parte e dall’altra. Poi si faceva triste e chiedeva a Concettina e Anna se forse aveva offeso il padre senza saperlo. Né Anna né Concettina suonavano bene. Tutt’e due erano stufe di quelle lezioni e avrebbero voluto smetterle, ma la signora Maria non voleva perché il maestro di piano era l’unica faccia estranea che si vedeva in casa. E una casa è proprio troppo triste senza qualche visitatore ogni tanto, lei diceva. Assisteva alle lezioni, con la coperta sulle ginocchia e col suo lavoro a crochet. E dopo s’intratteneva col maestro di piano e ascoltava le sue strofette, e fino a tardi lui non se ne andava via, sempre con la speranza di vedere il padre.
Davvero il maestro di piano era la sola persona estranea che venisse in casa. C’era anche un nipote della signora Maria che si faceva vedere ogni tanto, il figlio di quella sua sorella di Genova; studiava da veterinario e a Genova lo bocciavano sempre, e cosí era venuto a studiare in quella città piccola dove gli esami erano molto piú facili, ma anche lí lo bocciavano ogni tanto. Del resto non era un vero estraneo perché tutti l’avevan sempre visto fin da piccolo, e la signora Maria era sempre sulle spine quando arrivava, per la paura che il padre lo trattasse male. Il padre non voleva nessuno per casa, e anche i fidanzati di Concettina non dovevano attraversare il cancello.
D’estate bisognava andare alle «Visciole», tutti gli anni. Ogni anno Concettina piangeva perché avrebbe voluto andare al mare, o restare in città con i suoi fidanzati. E anche la signora Maria era disperata per via della moglie del contadino, perché si erano litigate un giorno che il maiale aveva mangiato dei fazzoletti. E anche Giustino e Anna che da piccoli si erano divertiti alle «Visciole», adesso mettevano il muso quando bisognava partire. Speravano che il padre li lasciasse andare un’estate da Cenzo Rena, in una specie di castello che lui aveva, perché ogni anno Cenzo Rena scriveva per invitarli. Ma il padre non voleva e diceva che del resto era un brutto castello, un coso con delle piccole torri, Cenzo Rena credeva che fosse bello perché ci aveva speso dei soldi. I soldi sono sterco del diavolo, diceva il padre.
Alle «Visciole» ci si andava con un trenino. Era vicino ma era complicato partire, perché il padre non dava pace a nessuno nei giorni che si dovevano fare i bauli, tempestava con Ippolito e con la signora Maria e si dovevano fare e disfare i bauli cento volte. E intorno al cancello giravano i fidanzati di Concettina, venuti per salutarla, e lei piangeva perché aveva una rabbia tremenda di dover stare per tanti mesi alle «Visciole», dove ingrassava di noia e non c’era neppure un campo di tennis.
Partivano al mattino presto, e il padre era molto cattivo per tutto il viaggio, perché il trenino era affollato e la gente beveva e mangiava, e lui aveva paura che gli sporcassero di vino i calzoni. Non c’era volta che non attaccasse lite in treno. Poi ce l’aveva con la signora Maria, che aveva sempre tanti fagottini e cestini e le sue scarpe nei sacchetti di stoffa ficcate un po’ dappertutto, e nella rete un fiasco di caffelatte; soprattutto al padre faceva schifo quel fiasco, gli pareva bruttissimo vedere il caffelatte in un fiasco; e diceva alla signora Maria che non riusciva a capire come la nonna ci avesse tenuto a portarsela dietro per tanti viaggi. Ma quando arrivavano alle «Visciole» era contento. Si metteva seduto sotto la pergola e respirava, respirava profondamente e forte, e diceva com’era buono il sapore dell’aria, un sapore cosí forte e fresco, che pareva di bere una bibita ogni volta che si respirava. E chiamava il contadino e gli faceva festa, e chiamava Ippolito a vedere se non pareva un quadro di Van Gogh il contadino, voleva che il contadino stesse seduto con la faccia appoggiata alla mano e gli metteva in testa il cappello, e chiedeva se non era un vero Van Gogh. Dopo che il contadino se n’era andato, Ippolito allora diceva che era forse un Van Gogh, ma era anche un ladro perché rubava sul grano e sul vino. Il padre s’arrabbiava molto. Ci aveva giocato da piccolo con quel contadino, e non poteva consentire che Ippolito si mettesse a sputacchiare cosí sulle cose della sua infanzia, ed è molto piú brutto sputacchiare sull’infanzia del proprio padre, che tenersi qualche chilo di grano quando se ne ha bisogno. Ippolito non rispondeva niente, si teneva il cane fra le gambe e gli accarezzava le orecchie. Appena arrivava alle «Visciole» metteva una vecchia giacchetta di fustagno e degli stivali, e per tutta l’estate stava vestito cosí, ed era sporco da fare orrore e poi doveva scoppiare dal caldo, diceva la signora Maria. Ma Ippolito non aveva mai l’aria d’aver caldo, non sudava e la sua faccia era sempre asciutta e liscia, e nel sole di mezzogiorno se ne andava per la campagna col cane. Il cane mangiava le poltrone e aveva le pulci, e la signora Maria voleva regalarlo via, ma Ippolito era matto per quel cane, e una volta che il cane era malato se l’era tenuto nella sua stanza la notte, alzandosi per fargli le pappine. Avrebbe voluto portarselo in città, e invece doveva lasciarlo alle «Visciole» dal contadino che non ne aveva cura e gli dava roba marcia da mangiare, e Ippolito era sempre molto addolorato in autunno quando doveva dire addio al cane, ma il padre era d’accordo con la signora Maria contro il cane e non voleva saperne d’averlo in città. Cosí Ippolito doveva aspettare pazientemente che lui fosse morto, diceva il padre, e chissà, forse Ippolito sperava molto che morisse fra poco, forse questo era il suo sogno biondo, per potersene andare a passeggio nella città col suo cane.
Ippolito stava zitto a sentire il padre che gli diceva delle parole cattive, non rispondeva mai e la sua faccia restava ferma e pallida, e la notte stava alzato a battere a macchina il libro di memorie, o a leggere Goethe ad alta voce quando il padre non poteva dormire. Perché aveva l’anima d’uno schiavo, diceva Concettina, e non sangue nelle vene ma camomilla, ed era come un vecchio di novant’anni, senza ragazze che gli piacevano e senza voglia di niente, capace di girare solo tutto il giorno per la campagna col cane.
Le «Visciole» era una casa alta e grande, con fucili e corna alle pareti, con dei letti alti e i materassi che frusciavano perché erano fatti di foglie di granoturco. Il giardino scendeva giú fino alla strada carrozzabile, un gran giardino boscoso e incolto, era inutile provare a piantarci dei rosai o altri fiori perché d’inverno il contadino certo non ne avrebbe avuto cura e sarebbero morti. Dietro la casa c’era il cortile, il carro e la casa del contadino, con la moglie del contadino che ogni tanto s’affacciava alla porta e rovesciava fuori un secchio d’acqua, e allora la signora Maria gridava che quell’acqua sporca faceva puzzare il cortile, e la moglie del contadino gridava che era acqua pulita, buona per lavarci la faccia della signora Maria, e litigavano per un pezzo tra loro due. Là intorno, a perdita d’occhio, si stendevano i campi di grano e di granoturco, e gli spaventapasseri stavano ritti là in mezzo, sventolando le loro maniche vuote; i vigneti e le querce cominciavano ai piedi della collina, e di là si sentiva ogni tanto risuonare uno sparo, e s’alzava una nuvola d’uccelli e si sentiva il cane di Ippolito che abbaiava, ma Concettina diceva che abbaiava per lo spavento, non per il gusto di acchiappare qualcosa. Il fiume era lontano, oltre la strada carrozzabile, una striscia chiara e lontana fra cespugli e sassi: e il paese era poco piú oltre, dieci case.
Al paese c’erano quelli che il padre chiamava «i farabutti», il segretario del fascio, il maresciallo dei carabinieri, il segretario comunale; e il padre ci andava ogni giorno al paese per farsi vedere dai farabutti, per far vedere che era ancora vivo e che non li salutava. I farabutti giocavano a bocce in maniche di camicia, senza sapere d’esserci anche loro nel libro di memorie; e le loro mogli lavoravano a maglia sulla piazzetta intorno al monumento, e allattavano i figli col fazzoletto sul seno. Il monumento era di pietra, grosso, un grosso ragazzo di pietra col gagliardetto e col fez: il padre si fermava lí davanti e si metteva la caramella, e guardava e ghignava, restava un pezzo a guardare e a ghignare: e la signora Maria aveva paura che i farabutti lo arrestassero un giorno o l’altro, e cercava di tirarlo via, come faceva un tempo con la nonna davanti alle vetrine dei cappelli. Alla signora Maria sarebbe piaciuto parlare con le mogli dei farabutti, imparare nuovi punti a maglia e insegnarne a loro: e anche dirgli che avrebbero fatto bene a lavarsi il seno con l’acqua bollita prima d’allattare. Ma non osava mai avvicinarsi per paura del padre.
D’estate, sulla testa calva e lucida del padre si vedevano lentiggini e spellature, perché stava al sole a testa nuda; e le gambe di Concettina si facevano di un bruno dorato, dato che non c’era altro da fare alle «Visciole» che prendere il sole, e Concettina stava tutto il giorno sulla poltrona a sdraio davanti a casa, con gli occhiali neri e con un libro che non leggeva; si guardava le gambe e badava che s’abbronzassero bene, e poi aveva l’idea che a tenerle al sole a sudare smagrissero un poco; perché Concettina oltre a essere forte di fianchi era anche forte di gambe, e diceva che avrebbe dato dieci anni della sua vita per essere piú sottile dai fianchi in giú. La signora Maria s’aggiustava i vestiti sotto la pergola, i suoi straordinari vestiti tagliati fuori da vecchie tende o da vecchie coperte, con in testa un cappello di giornale e coi piedi incrociati sullo sgabello. Lontano, sul ciglio della collina, si vedeva passare e ripassare Ippolito col fucile e col cane: e il padre malediva quello stupido cane e quella smania di girare per la campagna, quando invece lui aveva bisogno di Ippolito per l’iniezione e per battere a macchina, e mandava Giustino a inseguirlo nella campagna.

II.

Fu alle «Visciole» che il padre si sentí male per la prima volta. Stava pigliando il caffè, e tutt’a un tratto la mano che reggeva la tazzina si mise a tremare, e il caffè gli si versò sui calzoni, e lui stava curvo e tremava e respirava forte. Ippolito andò in bicicletta a chiamare il dottore. Ma il padre non voleva il dottore e diceva che si sentiva un po’ meglio, diceva che era un farabutto il dottore e voleva partire subito per la città. Venne il dottore, un farabutto da niente, alto solo un poco di piú della signora Maria, con dei capelli biondi che parevano piume di pulcino, e dei grandi calzoni alla zuava e dei calzettoni a quadri. E a un tratto fecero amicizia lui e il padre. Perché il padre scoprí che non era un farabutto, e che odiava il segretario del fascio e il maresciallo dei carabinieri, e il ragazzo di pietra sulla piazza del paese. Il padre diceva che era molto contento d’essere stato male, perché cosí aveva scoperto quel piccolo dottore, uno che lui credeva un farabutto mentre invece era un bravo ragazzo, e ogni giorno chiacchieravano insieme e si dicevano tante cose, e il padre quasi quasi aveva voglia di leggergli qualche pezzo del libro di memorie, ma Ippolito diceva che era meglio di no. Ippolito adesso non poteva piú andare a passeggio per la campagna, e doveva star seduto tutto il giorno nella stanza del padre e fargli le iniezioni e a dargli le gocce e a leggergli ad alta voce: ma il padre non voleva piú Goethe, voleva adesso dei roma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tutti i nostri ieri
  3. Introduzione di Giacomo Magrini
  4. Bibliografia critica
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Tutti i nostri ieri
  7. Parte prima
  8. Parte seconda
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright