Diciamo subito che la fede – come ha sempre recitato il Catechismo che tutti conosciamo – è un dono che viene da Dio. Scrive l’apostolo Paolo: «Non di tutti è la fede» (2Ts 3,2), ma essa abita soltanto coloro cui Dio l’ha donata. «La fede nasce dall’ascolto» (fides ex auditu: Rm 10,17) – annota sempre Paolo –, e dunque occorre che la Parola di Dio giunga al cuore dell’uomo per destarvi la fede. Questa presuppone sempre la rivelazione, l’«alzare il velo» da parte di Dio, e solo se l’uomo l’accoglie e le obbedisce diventa un credente.
L’uomo dunque crede con il cuore (cfr. Rm 10,9-10), cioè con la sua intera persona, e vive questa fede come relazione, alleanza, comunione con Dio nel mondo, nel tempo e tra gli uomini suoi fratelli. Per questo la tradizione cristiana ha letto la fede come virtú teologale: virtú, cioè un’energia, una forza interiore; teologale, cioè proveniente da Dio. Non è l’uomo che crea la fede, non è lui che perviene alla fede, ma è la fede che giunge all’uomo attraverso la Parola di Dio. Non è l’uomo che si impadronisce della fede per possederla, ma è la fede a lui donata che in un certo senso lo possiede. Avviene certamente un incontro tra Dio e l’uomo, ma Dio ne ha l’iniziativa e occorre che nell’uomo ci siano predisposizione all’ascolto, ad accettare il dono, e capacità di fare fiducia, altrimenti l’offerta di Dio non raggiunge il destinatario, e la mano divina che offre deve assolutamente ritrarsi.
D’altra parte la fede, proprio perché è accolta dall’uomo, proprio perché è l’uomo a credere, è anche un atto umano, un atto della libertà personale che risponde al Dio che parla: «Non è Dio ma l’uomo che crede», ha affermato giustamente Karl Barth. Cosí la fede è una scelta che coinvolge tutto l’essere, manifestandosi come un atto umanissimo e vitale, teso alla vita; è entrare in relazione, in un rapporto vivo con un altro. Non c’è fede autentica che non sia vissuta come alleanza. Chi dice «Credo in Dio» non proclama innanzitutto di aderire a delle verità, a dei dogmi (quella che i teologi definiscono «fides quae»), ma confessa con un atto personalissimo: «Io ho fiducia nel Signore, aderisco a lui […] e spero in lui» (Is 8,17).
Sono in molti a dire di credere in Dio perché credono che esista un Dio astratto, ma la fede cristiana non può vivere di un vago teismo, «tanto lontano dalla fede cristiana quanto l’ateismo che le è affatto contrario» (Blaise Pascal): la fede è «scambio di parola» tra Dio e il credente, è relazione viva in cui Dio non è solo pensato, supposto, ma ascoltato, amato, frequentato, fino alla comunione; essa è fare credito, è abbandonarsi fiduciosamente a un «tu». Il cristiano crede con l’intelligenza, la volontà, l’affettività: crede con tutto se stesso. E la fede è anche questione di gusto, gusto del cercare, del conoscere, dell’amare: «Gustate e vedete com’è buono il Signore!» (Sal 34,9).
Fede è dire, nella libertà e per amore: «Amen, è cosí; io aderisco (verbo ebraico aman), faccio fiducia (verbo ebraico batakh), mi fido di qualcuno». In quest’atto originato nel «cuore» non è esclusa la ragione umana, perché la fede non è né assurda né in competizione con la ragione. Questa però non è sufficiente per giungere a credere in Dio, ma semmai è necessaria per cercarlo, per predisporre l’uomo ad accettare il dono; solo il dono di Dio può innestare la fede nell’uomo che cerca il bene, che desidera la vita (cfr. Sal 34,13). La fede non è adesione a una verità dello stesso ordine delle esperienze sensibili, ma un cammino verso il non conosciuto, ed è sempre e comunque anche un itinerario umano.
Sí, è faticoso, è difficile credere, perché è difficile vivere! Per questo dobbiamo anche pensare la fede come quell’atto, di cui ci testimoniano le Sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul terreno solido (cfr. Sal 20,8-9; 125,1; Is 7,9), nell’affidarsi come un bambino attaccato con una fascia al seno di sua madre (cfr. Is 66,12-13), sicuro in braccio a lei (cfr. Sal 131,2).
La fede appare anche come una necessità umana, una realtà antropologica fondamentale, la matrice della vita, quella che per i teologi è la «fides qua», la fede con la quale si crede, l’atto con cui l’uomo decide di affidarsi, di aderire, di credere in piena libertà. Possiamo dire che non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi uomini, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero materno, e per venire al mondo e crescere come persone, per acquisire una soggettività, abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fiducia-fede. Anzi, fin dalla vita intrauterina il bambino mette fiducia in sua madre, crede in lei quando essa per lui è ancora nient’altro che una matrice; in grembo, è come abitato da una promessa, quella di poter accedere a una vita in pienezza. Tutto questo, certamente, non nell’ordine dell’intelligenza – per quanto ne sappiamo oggi – ma in quello dell’istinto e del desiderio.
È cosí che il bambino si fida della madre e, una volta uscito dall’utero, cercherà ancora questo riferimento, continuando a fidarsi di colei che lo ha generato: «Sulle mammelle di mia madre mi hai insegnato la fiducia, o Dio!» (cfr. Sal 22,10). In tal modo egli prenderà coscienza della sua condizione umana, sarà aiutato a «venire al mondo» dalla madre, dal padre, da quanti lo hanno accolto.
La fiducia in se stessi dipende in gran parte da questo poter credere agli altri, perché è di fronte alla parola venuta da qualcun altro che il bambino impara a situarsi. Accogliendo la parola che viene dall’altro si mette fiducia in lui e nello stesso tempo si afferma la propria identità. In questo esercizio del credere si scambia la parola, nasce la coscienza, crescono la soggettività e la relazione, che permettono agli umani di confessare reciprocamente: «Io credo in te».
Credibilità e fiducia sono dinamiche essenziali per accendere la relazione, per iniziare un processo di conoscenza, per poter accedere all’amore l’uno dell’altro. Per questo è veramente fragile la situazione di chi non ha mai potuto credere in qualcuno o non ha ricevuto da altri fiducia: come potrà costui giungere a sua volta a credere agli altri? In questo senso, ma solo in questo senso, si può parlare di trasmissione necessaria della fiducia-fede, sapendo che nella reciprocità del fare fiducia si percorre il cammino di umanizzazione e si evitano il ripiegamento su se stessi, l’isolamento, l’autismo.
La nostra società ha consapevolezza di questa dinamica che è presente in ogni uomo? È cosciente che, se non fa accedere gli uomini e le donne alla fiducia-fede, favorirà il proliferare di persone «rivoltate», incapaci di vita sociale, private della possibilità di conoscere l’amore?
Anche solo quest’esperienza «fontale» ci rivela che nella nostra vicenda umana non è possibile crescere senza dare e ricevere fiducia. Pensiamoci bene: quante azioni della nostra vita dipendono dall’avere fiduciafede… È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a partire dai genitori? È possibile iniziare a vivere una storia d’amore senza avere fede nell’altro? È significativo che, un tempo, all’inizio di una storia d’amore ci si dichiarasse fidanzati, cioè persone che mettono e ricevono fiducia. L’uno diceva all’altro: «Credo in te e penso che la tua fedeltà nei miei confronti mi renderà fedele nei tuoi». E quando si sanciva la storia d’amore, ci si scambiava l’anello chiamato, non a caso, «fede». Allo stesso modo, quando si accoglie un nuovo nato, che nutrirà i genitori con la sua presenza e li aiuterà a credere nella vita e nel futuro, si fa un’operazione di fede. Significativamente Hannah Arendt sostiene:
Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane, dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtú dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana.
Sí, senza questa fede umana, non c’è umanizzazione. Ecco perché la psicanalista e filosofa Julia Kristeva è giunta a intitolare un suo scritto: Questo incredibile bisogno di credere. Credere è un’operazione necessaria per vivere ed è sempre un atto di libertà e di amore, di cui l’uomo non può fare a meno se non disumanizzandosi. Per tutta la vita noi uomini dobbiamo esercitarci nella fede, fare fiducia, credere a qualcuno. Non possiamo credere solo a quello che vediamo, ma anche a molte realtà invisibili che pure esistono; dobbiamo credere a «promesse», credere al di là di quello che sappiamo. Osserva Agostino:
Sono molti gli argomenti che si possono portare per mostrare che non c’è assolutamente nulla dell’umana società che non ne risulterebbe danneggiato, qualora avessimo deciso di non credere a niente che non possiamo considerare come percepito [L’utilità del credere 12,26].
Quando accediamo alla pienezza delle relazioni, in quelle piú personali e intime come in quelle sociali e pubbliche, dobbiamo fidarci, fare credito a qualcuno. In breve, è sulla capacità di credere che si gioca il futuro dell’umanità: non si può essere uomini altrimenti, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile alcun cammino di umanizzazione senza il prossimo, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro.
Proprio per questa «umanità della fede», dobbiamo confessare che la crisi della fede in Dio comincia dalla crisi dell’atto umano del credere, atto sempre precario,...