Qualche titolo, in Italia piú spesso che altrove, indulge con tenerezza e paternalismo nell’espressione il «Popolo di internet» per descrivere il web. Il Popolo di internet si «Indigna», «Ha un incubo», «Si rivolta». Il «Popolo di internet va in piazza», magari convocato da un flash mob (manifestazione via smartphone) scanzonato, indipendente. Il professor Clay Shirky, docente alla New York University e «ottimista» autore del saggio Surplus cognitivo da sempre bersaglio polemico del «pessimista» Evgenij Morozov, ha censito i movimenti politici democratici online – via web, computer, cellulari, palmari, social media – studiandone natura, cultura e personalità49.
Shirky parte dal 2001, quando il processo a carico dell’allora presidente delle Filippine Joseph Estrada rischiava di insabbiarsi. Un flash mob autoconvocato con l’sms «Go 2 edsa. Wear blk», che nel linguaggio sincopato da teenager indica «Andate all’Avenue Epifanio de los Santos a Manila, vestiti di nero», riempie le piazze, Estrada è costretto alle dimissioni. Prima vittima politica dell’online, il presidente mastica amaro: «Sono stato battuto dai “messaggini”!»
Tre anni dopo, nel 2004, il governo uscente del primo ministro popolare spagnolo Aznar prova a indicare nell’ala terrorista dell’Eta basca i mandanti dell’attentato alla metropolitana di Madrid, 191 morti, opera in realtà di Jamal Zougam, un nordafricano ispirato dal network Al Qaeda. I giovani socialisti legati al candidato dell’opposizione Zapatero denunciano online la verità «ufficiale» e capovolgono, in extremis, l’esito del voto.
La Moldavia, nel 2009, boccia i comunisti via Twitter e Facebook con una campagna digitale ben organizzata50. Due anni dopo, lo sceicco Salman al-Odah chiede ai suoi 113 000 seguaci su Twitter e ai 500 000 amici su Facebook un appoggio per riforme costituzionali alla monarchia in Arabia Saudita e in difesa della Primavera Araba.
All’alba della politica su internet impressionò la mobilitazione progressista della rete, quando alle primarie del 2004 il candidato democratico americano Howard Dean raccolse con successo ingenti finanziamenti online.
La vittoria nel 2008 di Barack Obama fu ricamata via web dalla ventenne Rahaf Harfoush e dal giovane Alec Ross, poi nominato sottosegretario all’Innovazione nel Dipartimento di Stato di Hillary Clinton. Harfoush e Ross usano i social media per fund raising e azione politica e fanno scuola. Quattro anni piú tardi Harper Reed raffina i loro strumenti e riapre la Casa Bianca per Obama51.
In Italia è il sindaco di Milano Giuliano Pisapia a condurre una brillante campagna online nel 2011 contro Letizia Moratti. Quando dagli avversari partono accuse eccessive contro l’avvocato Pisapia, nasce il tormentone «È colpa di Pisapia…», ironiche confessioni di ogni efferatezza con risultati comici ed efficaci.
Il Movimento 5 Stelle, fondato dal popolare attore televisivo e di teatro Beppe Grillo, ha una diffusa rete blog e Twitter, capace di attrarre migliaia di elettori e simpatizzanti e di essere elogiata dal settimanale americano «The New Yorker». Facendo leva online sulla denuncia della corruzione nella classe politica, Grillo vede il suo movimento affermarsi come primo partito nelle elezioni regionali siciliane del 2012, creando una base consistente in vista delle politiche 2013. Ma alla lunga la sua foga online stucca una parte dei militanti, creando frizioni e dissapori52.
Da questi primi dati sembrerebbe davvero esistere un Popolo di internet, un po’ d’Artagnan, un po’ Robin Hood, guasconi ribelli con mouse e smartphone al posto di fioretto e frecce. La realtà, studiata senza pregiudizi, rivela però che il web non è arma nelle mani dei ribelli, ma viene ormai impugnato solidamente anche da chi difende lo status quo. Piú che «spada della rivolta», il web è il campo di battaglia della nuova politica, aperto a tutti i contendenti.
Lo sceicco Abdullah Bin Jebreen, studioso conservatore dell’Islam, risponde via Twitter alle migliaia di fedeli sauditi che lo interrogano sui canoni della fede musulmana nel mondo contemporaneo: «Posso guidare senza patente?» «Sono obbligatorie le abluzioni del venerdí?» («No» alla prima domanda, i giovani alla guida rischiano promiscuità ed eccesso di velocità; «Sí» alla seconda). Bin Jebreen è morto ormai nel 2009, ma i seguaci ne perpetuano ai follower l’insegnamento e le fatwa via social network. Media del futuro per dottrine antiche.
Gli sceicchi Youssef al Ahmed e Abdul-Rahman al-Barrak, leader religiosi e docenti all’Università Iman, si battono da YouTube e Twitter contro ogni proposta di riforma della monarchia assoluta saudita. Su Twitter, lo sceicco Ahmed usa l’hashtag (sigla di discussione comune) #libraliah per contrastare con migliaia di follower «la malvagia agenda liberale» in «assemblee urbane» convocate online. Secondo Saud Kateb, professore di Tecnologia dei media all’Università Re Abdulaziz citato dal «Financial Times»: «Il dibattito su Twitter ricalca la struttura conservatrice della società saudita. I tradizionalisti stanno rimontando sui progressisti, pionieri dei social network»53.
Quanto ad Aleksandr Lukašenko, presidente della Bielorussia e ultimo erede dell’impero sovietico, non solo ha represso nella paura la «rivolta delle e-mail» del 2006, ma il suo apparato di propaganda e polizia utilizza in modo perfetto web e social media. Anche in Iran e in Thailandia, quando l’opposizione democratica ha cercato di mobilitarsi online per le riforme, si è vista reprimere nel piú ancestrale dei mezzi di comunicazione di massa: il sangue.
Gli studiosi Jacob Groshek e Philip Howard hanno monitorato tutti i casi – vittoriosi o perdenti – di attivismo digitale dell’ultimo decennio, dimostrando che non esiste online la crociata dei «Buoni» contro i «Cattivi», ma che, al contrario, ogni parte politica scende ormai nell’arena telematica inseguendo i propri fini, senza che il Popolo di internet, nella accezione ingenua dei media, abbia vantaggi precostituiti. Conclude Shirky:
L’uso dei social media – messaggi sms, e-mail, inoltro di foto, social network e via dicendo – non ha un effetto preordinato. Quindi l’analisi dei suoi risultati sull’azione politica rischia di impoverirsi a duello di aneddoti contrastanti. Se considerate il fallimento della protesta bielorussa nel cacciare Lukašenko come paradigmatico, considererete, di conseguenza, il caso moldavo come un’eccezione e viceversa. Le analisi empiriche sono ancora precarie, perché gli strumenti da considerare sono nuovissimi e gli esempi rilevanti rari. Gli studi di Jacob Groshek54 e Philip Howard permettono di dare una prima, cauta, risposta alla domanda: «Gli strumenti digitali aiutano la democrazia?»: i social network probabilmente non sono dannosi alla democrazia nel breve periodo e possono forse aiutarla nel lungo periodo. I loro effetti piú notevoli, però, si ottengono laddove una sfera pubblica già controlla le azioni del governo55.
Vale a dire, i social network sono un lievito per la democrazia dove essa già opera, mentre hanno effetti non ancora valutabili nelle società totalitarie. Esattamente come l’invenzione della stampa nell’Europa del Quattrocento ha contribuito a innescare l’era della modernità, ma lo stesso mezzo creato in Cina, Giappone e Corea non ha avuto conseguenze sociali e politiche.
Scarsa fede nell’innocenza del Popolo di internet ha, come abbiamo visto, Evgenij Morozov, e sulla sua stessa lunghezza d’onda si muove Rebecca MacKinnon della New America Foundation, persuasa che i regimi totalitari – come la Cina – sappiano controllare i social network in parallelo ai dissidenti, che ne fanno invece strumenti di rivolta. L’episodio del treno ad alta velocità deragliato in Cina nel 2011, che ha suscitato online proteste e dubbi sulla sicurezza dei trasporti nel grande paese, non persuade la MacKinnon perché, a suo parere, l’attivismo delle minoranze può essere controbilanciato dalla censura con sofisticati filtri software. È il fenomeno che Malcolm Gladwell definisce sul «New Yorker» «slacktivism», pigro attivismo online: partecipare a dibattiti, mobilitazioni, firme di appelli sul web illude di essere protagonisti, mentre in realtà si corre su un tapis roulant di idee, sempre incrociando i nostri simili, mai gli avversari, intenti a loro volta in una discussione fra uguali. «L’attivismo dei pigri», l’agitarsi sul web senza produrre effetti, positivi o no, sulla realtà, spinge in Italia il musicista e scrittore Danilo Masotti, critico dei social network, a fondare il sarcastico movimento «Indivanados» che, fingendo di copiare la protesta degli Indignados spagnoli, segue i talk show di denuncia in tv, per poi concludere beffardo: «il giorno dopo non succede un c…»
Fortissima è stata in America l’orma digitale del movimento anticapitalista Occupy Wall Street, elogiato dal popolare ex presidente democratico Bill Clinton: «Hanno fatto piú loro in pochi mesi, che noi in dieci anni». Protagonista di blog, siti, flash mob, sms e Twitter, Occupy Wall Street ha poi avuto però un impatto insignificante sulla campagna presidenziale 2012, incapace di mobilitare sulle proprie parole d’ordine larghe fasce di opinione pubblica. Coccolato dai media, fortissimo online, Occupy è movimento «virtuale», in difficoltà quando è chiamato a confrontarsi con il mondo reale dei voti concreti da conquistare, dei leader da eleggere, delle scelte da fare.
Questi dati, pur ancora contraddittori, confermano come il dibattito sui social media resti aperto, iniziale, e come sia impossibile tirar giú conclusioni sulle strategie politiche vincenti nella tumultuosa sfera digitale. Il caso piú studiato e piú frainteso resta quello della Primavera Araba, il movimento di rivolte scoppiato nel 2011 in Tunisia, passando poi all’Egitto e incendiando in scia la Libia, la Siria, lambendo il Bahrain e altri regni dello status quo musulmano post Guerra Fredda. Gli ottimisti perpetuano la narrativa diffusa dagli inviati di guerra nei giorni della Primavera: la rivolta nasce dai social media. Ecco Hussein Amin, docente di Comunicazioni di massa all’American University del Cairo:
I social media durante la Primavera Araba hanno offerto agli attivisti, per la prima volta nella storia, l’opportunità di diffondere rapidamente informazioni, superando ogni restrizione dei governi56.
Catherine O’Donnell, dell’Università di Washington, prova a dare sostanza alla persuasione diffusa che i social media siano dietro la Primavera «analizzando oltre tre milioni di tweet, gigabyte di YouTube e migliaia di blog di dibattito politico sulla rivolta araba»57. La ricerca, guidata dal professore Philip Howard,
suggerisce che i social media abbiano lanciato una cascata di messaggi su libertà e democrazia in Nordafrica e nel Medio Oriente, sollevando le speranze di successo della ribellione politica … la gente che aveva interesse alla democrazia ha costruito fittissime reti di comunicazione e azione militante. I social media sono stati l’arma principale nell’arsenale della libertà58.
Narrativa affascinante, il Popolo di internet alla riscossa, un ragazzo che si dà fuoco contro la prepotenza della dittatura tunisina e milioni di fratelli e sorelle che via smartphone e computer celebrano il Martire e abbattono i tiranni, Vespri Musulmani online. Vogliamo «leggere» la realtà come un romanzo di Zola, il web barricata che i ribelli erigono contro i crudeli oppressori. Desideri e nobili intenzioni che però, se non svaniscono del tutto, certo vengono molto temperati quando guardiamo da vicino i numeri del traffico online nei giorni della rivolta, computando gli account Twitter e Facebook registrati in Tunisia, Egitto, Libia, Siria. Non c’è prova alcuna che la Primavera abbia nei social media l’acciarino che appicca il fuoco alla prateria. Studiamo insieme i dati che tanto emozionano la Washington University:
Nella settimana prima delle dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak il numero totale di tweet dall’Egitto – e nel mondo – sul cambiamento politico nel paese balza da 2300 a 230 000 al giorno. I video che rappresentavano le proteste e i commenti politici diventano virali, i top 23 visti cinque milioni e mezzo di volte59.
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