I miei sette figli
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I miei sette figli

  1. 152 pagine
  2. Italian
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I miei sette figli

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Stampato per la prima volta nel 1955 in migliaia di copie e tradotto in moltissime lingue, I miei sette figli è un documento fondamentale dell'epopea partigiana italiana. Mai nella storia di un popolo, neppure nelle sue leggende, si era avuto il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante e per la stessa causa.
La vicenda di Alcide Cervi e dei suoi sette figli è quella di una famiglia contadina che guarda avanti, piú avanti degli altri, e comprende come per rendere piú produttiva la terra sia necessario appropriarsi di tecniche piú moderne. Ma è anche la vicenda di una famiglia partigiana che, grazie a una conquistata coscienza culturale e politica, intraprende una tenace lotta contro le ingiustizie sociali e il regime fascista fino alla scelta estrema di imbracciare le armi. Intensa, ma purtroppo troppo breve, la Resistenza dei Cervi si conclude il 28 dicembre 1943, quando i sette fratelli vengono trascinati di fronte al plotone di esecuzione. Sopravvissuto allo sterminio dei figli, il vecchio Alcide torna a coltivare di nuovo la terra con le donne e i nipoti superstiti, e ci lascia, con la saggezza che viene dal dolore e da una grande fede nella vita, un'indimenticabile testimonianza dell'inesauribile forza dei valori della Resistenza. Questa edizione contiene una introduzione di Luciano Casali che, oltre a contestualizzare la storia della famiglia Cervi, racconta soprattutto le vicende legate alla nascita del libro e agli interventi apportati alla seconda edizione del 1971.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408285
Argomento
Storia

Introduzione

Alcide Cervi nacque a Campegine (Reggio Emilia) il 5 maggio 1875 in una famiglia contadina che lavorava un terreno a mezzadria. Si trattava di una forma di contratto che prevedeva che ogni anno metà dei prodotti (ma spesso si trattava di una percentuale maggiore) venisse consegnata al proprietario:
I patti della mezzadria, – ha scritto Alcide Cervi, – erano fregaroli, perché il contratto si poteva pure firmare, ma poi c’erano tanti altri nota bene che a forza di togliere non ti rimaneva niente.
Ma, soprattutto, è necessario tenere presente che al padrone restavano l’assoluta direzione dell’azienda, le decisioni relative alla scelta della produzione e gli eventuali interventi di migliorie e di investimenti, che non potevano essere rifiutati anche se coinvolgevano lavoro e capitale del coltivatore. Si trattava del contratto piú diffuso nell’Italia centrale, il meno amato dai contadini che dovevano avere a disposizione una forte mano d’opera (motivo per cui le famiglie mezzadrili erano molto numerose, con parecchi figli, indispensabili per garantire tutti i lavori richiesti sul fondo senza dover ricorrere all’aiuto di braccianti, i cui salari erano quasi sempre a carico del coltivatore e non del proprietario). La mezzadria inoltre non permetteva un miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori e regolarmente metteva in conflitto proprietario e mezzadro che cosí era spesso costretto a «fare San Martino», a cambiare cioè campo e padrone nei giorni attorno all’11 novembre, quando di solito terminavano i contratti mezzadrili.
Nel 1899 Alcide sposò Genoeffa1 Cocconi, nata anche lei a Campegine l’11 marzo 1877, dalla quale ebbe nove figli, sette maschi e due femmine: Gelindo (1901), Antenore (1904), Diomira (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Rina (1912), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921). Nel 1903 un decimo figlio, femmina, non era riuscito a sopravvivere.
Nel 1921 Alcide decise di abbandonare la famiglia patriarcale del padre, Agostino, e di assumere la gestione a mezzadria di un proprio fondo, a Olmo di Gattatico, da cui, nel 1925, si trasferí su un nuovo terreno, a Quartieri di Campegine, e infine, nel 1934, riuscendo a superare la condizione di mezzadro, prese in affitto un pessimo podere ai Campi Rossi di Gattatico. Fu un grande salto di qualità. La nuova condizione contrattuale permetteva a lui e alla sua numerosa famiglia una diversa organizzazione del lavoro e soprattutto consentiva (a proprio rischio, in quanto il prezzo d’affitto era comunque da pagare) di introdurre innovazioni sul terreno e nella produzione, come ad esempio incrementare la produzione di foraggio e trifoglio (a scapito del frumento) per aumentare nella stalla – che fu addirittura ampliata nel 1941 – il numero delle vacche lattifere e inserirsi cosí in quel processo di modernizzazione dell’agricoltura che vedeva nella provincia di Reggio Emilia decollare la produzione del formaggio parmigiano reggiano.
Si trattava di una scelta coraggiosa e d’avanguardia che derivava in parte da una tradizione familiare di impegno anche politico (il padre Agostino aveva partecipato ai moti contro la tassa sul macinato e aveva scontato sei mesi di carcere; Alcide si era iscritto, poco dopo che era stato fondato, al Partito popolare italiano); in parte dalla decisione presa dai figli di Alcide e Genoeffa di frequentare numerosi corsi professionali e di specializzazione, e di «coltivare» la lettura: in quella casa circolò sempre l’amore per i libri, i romanzi, le opere scientifiche, e per il sapere, mentre il mondo circostante era caratterizzato da un diffuso analfabetismo.
La passione per la lettura e per il progresso venne cosí trasferita nel lavoro dei campi, a partire dalle migliorie fondiarie apportate al podere, per giungere alla scelta di sementi selezionate e alle modifiche alla stalla, che presto divenne l’elemento principale della svolta che i Cervi seppero introdurre nel loro modo di lavorare la terra. A fianco della preparazione teorica e degli studi di economia agraria, i Cervi seppero essere all’avanguardia anche in scelte come la meccanizzazione: nel 1939 furono fra i primi ad acquistare un trattore «Balilla» per il lavoro dei campi, dimostrando ancora una volta grande apertura mentale e curiosità intellettuale. Piú volte il capofamiglia Alcide ricevette diplomi e riconoscimenti che premiavano la «razionale conduzione del fondo» e il conseguimento di una produttività superiore a quella dei campi vicini.
Genoeffa e Alcide erano profondamente cattolici («Quando venne fuori il partito popolare io presi la tessera, perché ero cristiano e leggevo sempre il vangelo tutti i giorni come il giornale»), ma, a quanto afferma lo stesso Alcide, ci fu anche la frequentazione di ambienti socialisti e di alcuni comizi di Camillo Prampolini, uno dei fondatori del Partito socialista, che lasciarono segni di qualche importanza, tanto da fargli affermare: «Ero cristiano, ma c’era già in me del socialista». Esistevano dunque nei Cervi una mentalità che mal tollerava il fascismo e uno spirito di ribellione e di non accettazione delle ingiustizie che era fortemente radicato, come traspare dall’episodio in cui Genoeffa non accettò l’imposizione del padrone che la costringeva a dormire in un solaio umido. Per i Cervi, i fascisti, che come vedremo nel libro compaiono raramente e comunque sempre descritti come il male assoluto, erano completamente estranei alla società, «cattivi» di per sé, senza necessità di offrirne alcuna motivazione: essi operavano costantemente contro i contadini e contro i lavoratori quasi per il solo piacere di ostacolarli, come il «dugarolo sciagurato, canchero fascista, che non ci voleva dare l’acqua, per rovinare la produzione».
Tuttavia l’ulteriore evoluzione anche politica della famiglia fu indubbiamente dovuta ai figli e in particolar modo ad Aldo, il quartogenito, che, a seguito di una ingiusta condanna subita durante il servizio militare, dovette trascorrere 25 mesi in carcere, a Gaeta, dove venne a contatto con le teorie politiche antifasciste e da dove tornò a casa nel 1932 con un impegno politico e sociale piú maturo e consapevole che insegnò e trasmise a tutta la famiglia: «Da quel giorno, – scrive Alcide, – avremmo lavorato oltre alla campagna (…) anche l’Italia e gli italiani, per toglierci il fascismo e l’ingiustizia». Nel 1933 nacque cosí a Campegine una cellula del Partito comunista.
Le cose non andarono tanto avanti, perché era difficile allora organizzare, i fascisti stavano in guardia e la gente era un po’ distratta. Aldo diceva che (…) bisognava lavorare piú con la testa e convincere con la cultura politica piú che con la propaganda. Cosí pensarono di fare una biblioteca
nella quale misero a disposizione dei lettori, in mezzo a libri «normali», opere politiche, come Il Manifesto del Partito comunista e Il capitale di Marx, La concezione materialistica della storia di Labriola, Che fare? di Lenin e letture a forte contenuto «sociale», come Il tallone di ferro di London, La madre di Gor´kij. Aldo e i suoi fratelli erano infatti del tutto consapevoli che lo studio e la circolazione delle idee erano il primo antidoto contro la propaganda e l’arroganza della dittatura.
Aldo continuò comunque una intensa attività di propaganda trascorrendo le sue serate a discutere e chiacchierare: «Tutti volevano che andasse alla casa loro, perché gli piaceva sentirlo parlare». Ma anche gli altri fratelli avevano scelto un sempre piú palese comportamento di opposizione al regime. Gelindo venne arrestato e ammonito2 nel settembre 1939 per «offese alla milizia»; ancora Gelindo e Ferdinando finirono in carcere nel novembre 1942 per non avere ottemperato alle leggi sull’ammasso del frumento; il piú giovane, Ettore, nell’aprile 1943 svolgeva propaganda e distribuiva stampa clandestina all’interno del 36° reggimento di fanteria.
Tutta la famiglia era ormai coinvolta nella lotta al fascismo, e non erano soli in questa battaglia: ben presto iniziarono a unirsi a loro altri oppositori del regime.
Per descrivere e ricostruire le atmosfere della Resistenza emiliana, piú che alla saggistica, è necessario ricorrere alla narrazione che possiamo incontrare in questo libro di Alcide Cervi o in quella de L’Agnese va a morire, che Renata Viganò pubblicò nel 1949. La necessità di combattere contro il fascismo e contro il nazismo appare cosí come una scelta che nasce dalle piccole cose quotidiane, dalla vita di tutti i giorni, dal contatto con la realtà di un mondo e di una cultura contadini che inducono alla via della Resistenza perché è la scelta naturale, spontanea, istintiva, che si «deve» fare. Molti rigagnoli con diverse origini e complicati percorsi confluirono cosí nel fiume impetuoso che sarebbe divenuta la Resistenza in Emilia Romagna: i vecchi antifascisti che provenivano dalla tradizione socialista, comunista, repubblicana e cattolica del primo dopoguerra; le donne, desiderose di riprendere quel cammino verso l’eguaglianza e l’emancipazione che era stato bruscamente interrotto e ricondotto indietro; i ceti medi produttivi e intellettuali, delusi nelle aspettative di promozione sociale che lo squadrismo e il primo fascismo avevano acceso; i giovani, che non avevano trovato alcun coronamento pratico di quanto pensavano di intravedere nelle promesse teoriche del corporativismo, ma si erano trovati coinvolti in continue guerre di aggressione; gli operai, che avevano abbandonato le campagne credendo di poter trovare nel contesto urbano maggiori sicurezze salariali e migliori condizioni di vita e di autorealizzazione; i mezzadri, che ancora una volta avevano sperato di poter fare propria quella terra che da generazioni lavoravano; i braccianti, che avevano dovuto lottare contro i nuovi padroni fascisti e che auspicavano il ritorno di quelle organizzazioni che avevano fondato alla fine dell’Ottocento e attraverso le quali avevano progressivamente migliorato qualità della vita e tecniche di produzione.
Si trattò di una stretta correlazione fra lotta sociale, lotta politica e lotta armata che non scoppiò come fenomeno spontaneo indotto dall’invasione tedesca, ma che necessitò di qualche tempo per vedere intrecciati i molteplici fili che la componevano e che, soprattutto nei primi mesi, individuò nei fascisti il nemico principale.
È in questo contesto che possiamo collocare l’impegno antifascista dei Cervi, che fece un vero e proprio salto di qualità alla fine del 1941, quando furono trovati collegamenti diretti con i gruppi dirigenti del Partito comunista e cominciò ad arrivare sempre piú numerosa la stampa clandestina, grazie alla presenza della compagnia di teatro ambulante nella quale recitavano i fratelli Lucia (1920-1968) e Otello Sarzi (1922-2001), entrambi già arrestati nel dicembre 1939 e ammoniti tre mesi dopo per attività antifascista, il secondo condannato il 26 agosto 1940 a tre anni di confino3, dei quali due furono scontati a Sant’Agata di Esaro, in Calabria.
La festa, anche popolare, che contrassegnò il 25 luglio 1943 fu ben presto seguita dall’arrivo delle truppe della Wehrmacht e dalla nascita del fascismo repubblicano dopo l’8 settembre. Per i Cervi – nonostante l’opinione contraria del Partito comunista, convinto, in quei primi mesi, che solo in alta montagna fosse possibile organizzare una resistenza che doveva operare sulla base di reparti consistenti e bene armati – fu immediata la scelta di combattere, dando vita a piccoli gruppi di guerriglieri, e anticipando, in qualche modo, quelli che poi sarebbero stati i Gap, Gruppi di azione partigiana.
Il 10 ottobre 1943 erano già sull’Appennino reggiano dove, a partire dal 25, portarono a termine alcune azioni armate in varie località attorno a Toano, fra cui il disarmo della stazione dei carabinieri. Ma, la mancanza di strutture di collegamento e l’isolamento in cui vennero a trovarsi costrinsero la «banda Cervi» a tornare ai Campi Rossi, da dove riuscirono a organizzare una rete politico-militare che coinvolgeva alcuni comuni della bassa pianura reggiana: oltre a Campegine e Gattatico, Sant’Ilario, Poviglio, Castelnuovo Sotto.
Tuttavia, da troppo tempo «Casa Cervi» era stata al centro di una vivace opposizione al fascismo perché non potesse essere considerata un covo pericoloso, da eliminare. Il 25 novembre fu cosí attaccata in forze dai fascisti repubblicani e incendiata, dopo una accanita difesa. Tutti gli uomini furono incarcerati e tutti i giovani – i sette fratelli e Quarto Camurri (1921-1943), che si era unito a loro nell’ottobre – furono fucilati un mese dopo, il 28 dicembre al poligono di tiro di Reggio Emilia.
Alcide – anche lui arrestato – riuscí a evadere dal carcere l’8 gennaio 1944, durante un bombardamento aereo, e tornò a casa, dove, per altre quattro volte, dovette subire attacchi e incendi fascisti. Il 14 novembre 1944, anche Genoeffa lo lasciò, distrutta per la morte dei figli e per le continue violenze fasciste ed egli rimase cosí, quasi settantenne, con le quattro nuore e gli undici nipoti, la piú grande dei quali, Maria, figlia di Antenore, aveva dieci anni:
Quando mi dissero della morte dei miei figli, risposi: dopo un raccolto ne viene un altro. Ma il raccolto non viene da sé, bisogna coltivare e faticare, perché non vada a male. Avevo cresciuto sette figli, adesso bisognava tirar su undici nipoti. Dovevano prendere ognuno il posto dei padri, e bisognava insegnare tutto da capo (…).
Erano piccoli, ma io gli insegnai lo stesso.
Fu un insegnamento che diede eccezionali risultati, tanto che i Cervi, negli anni Cinquanta, riuscirono ad acquistare il podere che da tanti anni lavoravano.
Alcide morí il 27 marzo 1970 a Gattatico.
Fra i protagonisti dell’antifascismo e della Resistenza italiani la famiglia Cervi in generale e i sette fratelli Cervi in particolare sono fra i piú conosciuti e le loro vicende sono assurte da tempo a un livello simbolico di quel periodo, quasi a voler definire il cammino percorso e auspicato dagli italiani dall’Unità nazionale alla lotta di Liberazione e allo Stato repubblicano.
Ci sono alcune immagini ed episodi che in maniera particolare sembrano riassumere tutto ciò e sintetizzare il sogno e l’impegno di «migliorare» l’intero Paese attraverso il lavoro e la fatica di tutti.
La prima è indubbiamente quella di Aldo che torna da Reggio Emilia ai Campi Rossi guidando un trattore nuovo fiammante e innalzando su di esso un mappamondo, quasi a sottolineare la stretta correlazione fra umanità e progresso.
La seconda riguarda l’opera di bonifica cui i Cervi sottoposero i loro campi. Infatti, quando nel novembre 1934 presero in affitto i Campi Rossi di Gattatico, trovarono un terreno tutto «a gobbe e buche (…) proprio le montagne russe», un terreno che, a causa della sua configurazione, era scarsamente produttivo, faticosissimo e difficilissimo da lavorare. Tra l’ilarità degli altri contadini (tutti avevano i campi piú o meno nelle stesse condizioni ed erano convinti che non c’era nulla da fare), i Cervi decisero di spianare le gobbe e riempire le buche, di pareggiare il terreno migliorando anche l’idraulica cosí da permettere una irrigazione ottimale. Bisognava far sí che i fossi compissero il loro dovere «con tutta la rete giusta, perché l’acqua, irrigato un campo, si buttasse nell’altro e poi fosse raccolta senza fermarsi e marcire». Fu un lavoro massacrante, ma, quando fu completato, in poco tempo la produzione crebbe in maniera notevole fra la meraviglia dei vicini che, ovviamente, si affrettarono a seguire l’esempio.
Il giorno in cui si festeggiarono i risultati, il vecchio Alcide volle fare un brindisi e, significativamente, esclamò:
Brindo al progresso, all’avvenire, alla felicità del popolo, che da magro e stento, come era la terra mia, diventi ricco e progredito, come sarà domani la terra mia.
Parole che si collegavano direttamente a quelle che aveva pronunciato il figlio Aldo all’inizio dei lavori:
Che volete fare, anche l’Italia è cosí, pianura e monti, terra strana. E dicono che siamo poveri perché l’Italia è conformata male. (…) Eppure prendete questa terra e la trasformate. Fatene un appezzamento modello e vedrete che darà piú degli altri. Il problema è di cervello e di volontà.
Su questi e molti altri episodi simili che costellano il libro di memorie di Alcide Cervi si è fondata in gran parte la leggenda di quella famiglia ed è nato quello che potremmo definire un vero proprio mito dei fratelli Cervi: «La storia della mia famiglia, – ha scritto Alcide, – non è straordinaria, è la storia del popolo italiano combattente e forte».
Ripensando ai Cervi ci troviamo oggi di fronte a un vero e proprio stereotipo che sembra affondare profondamente le proprie radici nella società e nella storia specialmente emiliane e reggiane: sembrano il vero e proprio simbolo sociale (e politico) di tali terre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I miei sette figli
  3. Introduzione di Luciano Casali
  4. Nota bibliografica
  5. Sette fratelli e un padre di Piero Calamandrei
  6. I miei sette figli
  7. Perché ho deciso di raccontare
  8. Ricordi miei di gioventú
  9. La moglie e i figli
  10. All’Università del carcere
  11. La biblioteca di Campegine
  12. Il livellamento delle terre
  13. Politica e teatro
  14. Dal 25 luglio all’arresto
  15. Queste mura cadranno
  16. La morte dei figli e della madre
  17. Conclusione
  18. Il libro
  19. Copyright