Allegro occidentale
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  1. 232 pagine
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Informazioni sul libro

Mister Piccolo è uno scrittore al quale viene fatta una proposta: girare il mondo insieme ad altri sei colleghi. Cosí comincia per lui un'avventura all'insegna della diversità: quella di popolazioni lontane, ma soprattutto della sua. Sí, perché Mister Piccolo, con il bagaglio di Occidente che si porta dietro, capisce ben presto che il vero diverso è lui, segnato dal marchio del privilegio che azzera le distanze geografiche e amplifica le differenze sociali.
Eppure, a poco a poco, si lascia permeare dall'imprevedibilità del viaggio, perdendosi nella mesta allegria di sapersi altro da ciò che è. E scopre che i cinesi vedono gli occidentali tutti allo stesso modo (tanto che lui viene scambiato per Nicolas Cage), che a Hong Kong non si è nessuno se non si possiede un biglietto da visita, e che l'avventura piú inquietante, in realtà, l'ha vissuta a Roma, una notte che non aveva i soldi per rientrare a casa in taxi...

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408100
Categoria
Viaggi

1.

Hong Kong, una mattina. Esco dalla mia sontuosa stanza d’albergo a un piano altissimo di un grattacielo. Mi fermo davanti alle decine di ascensori, premo il pulsante e aspetto che uno qualsiasi mi porti giú al sontuoso ristorante per la prima colazione. Entro. C’è un signore cinese. Mentre ci diciamo «morning», mi guarda con un’espressione stupita, quasi sgrana gli occhi, come se non avesse mai visto un essere umano europeo, o per qualche altro motivo che non capisco. M’inquieta. L’ascensore parte e io e questo signore cinese adesso abbiamo davanti un piccolo viaggio insieme, prima di arrivare laggiú al piano terra, e non mi piace che mi guardi cosí come continua a guardarmi, a scrutarmi, fisso, con occhi ormai completamente sgranati, tanto che io comincio ad abbassare lo sguardo per l’imbarazzo, fino a quando lui finalmente non parla e dice quel che voleva dire.
Non m’aspettavo che parlasse e cosí sulle prime non capisco niente, tranne una parola che mi sembra abbastanza inappropriata nel contesto: Hollywood.
Però poi lo guardo e dico «what». Cosí lui ripete la domanda e capisco che sta balbettando (traduco direttamente dall’inglese claudicante che il cinese mostra): «ma lei è... quella star di Hollywood... non mi viene il nome... è lei, vero?»
Mi ha detto cosí.
Attenzione; non ha detto: sembra, somiglia. Ha detto: è.
Quel che il mio cervello si è messo immediatamente a cercare, cosí, d’istinto, in risposta a quella domanda confusa, prima ancora di capire se il cinese mi stava prendendo per il culo e forse anche perché era chiarissimo che no, non mi stava affatto prendendo per il culo, ma diceva seriamente – la prima cosa che il mio assurdo cervello si è messo immediatamente a scorrere è un catalogo di volti delle star di Hollywood per capire per chi mi avesse scambiato il cinese. Cioè: alla sua domanda assurda, il mio cervello ha risposto prontamente con una ricerca ancora piú assurda per capire a chi somiglio tra tutte le star di Hollywood. Anche se, ripeto, il cinese non ha detto che somiglio a quella star di Hollywood, ma che sono quella star di Hollywood. Intanto però il nome non gli viene in mente, ma si ricorda il film che dovrebbe chiarirmi chi sono secondo lui. Me lo dice. Vi avverto subito che la mia risposta sarà ancora piú assurdamente determinante per far credere al cinese che io sono veramente quello che lui crede che io sia.
Mi dice: «l’attore di Face/Off. Mi hai capito, ora?»
E sapete cosa rispondo io, prontamente?
«Nicolas Cage!»
A questo punto, per vari motivi, il cinese fa svanire ogni dubbio: quello che ha davanti non sono io, ma la star hollywoodiana Nicolas Cage.
Provo a immedesimarmi in lui e a cercare di comprendere i motivi per cui è giunto a questa conclusione. Prima di tutto, il signore cinese ha citato Face/Off. La regia è di John Woo, che tutto il mondo conosce come il piú famoso regista di Hong Kong, appunto; questo rende immediatamente credibile, e non mi chiedete perché, il fatto che io in quanto Nicolas Cage stia qui a Hong Kong. Sarò venuto a trovare John Woo, forse non ci vediamo dai tempi del film. Poi: in Face/Off gli attori protagonisti sono due, Nicolas Cage e John Travolta. E io ho detto quello giusto. Ho detto quello giusto non perché assomigli a Nicolas Cage ma perché, tra i due, John Travolta mi sembrava ancora piú assurdo di Nicolas Cage. Quindi, poiché dico quello giusto, lui pensa che io stia confermando il fatto che ha ragione.
E non basta: il signore cinese ha desunto da due fattori – il mio iniziale spaesamento e il luogo comune sulle star hollywoodiane in vacanza – che io in quanto Nicolas Cage sono qui in incognito. Non ho nessuna voglia che mi si riconosca. Ed è per questo motivo che sto continuando a dirgli che non sono affatto Nicolas Cage e che sono italiano. E poiché sono in incognito e dico che non sono Nicolas Cage, questo conferma che sono proprio Nicolas Cage. Dirò di piú: il fatto che io sostenga di essere italiano, annulla paradossalmente anche l’ultima traccia di verità evidente (se, come ormai è chiaro, la mia faccia non solo non smentisce, ma è il motivo palese per cui il cinese pensa che io sia Nicolas Cage), e cioè che il mio inglese è claudicante quanto il suo, se non di piú, e con un marcato accento italian-napoletano, quindi come faccio a essere Nicolas Cage; ma presumendo il signore cinese che io sia Nicolas Cage e cioè il grande attore che sarei – e che faccio di tutto per non farmi scoprire –, figuriamoci se non mi metto a fare l’italiano con accento napoletano che parla male l’inglese. E figuriamoci se non mi viene bene a tal punto che sembro davvero un italiano. Anche questo elemento, che dovrebbe strasmentire, invece straconferma e cosí non c’è piú scampo, nonostante io insista a dire con accento claudicante che non sono Nicolas Cage, che sono italiano e che non credo nemmeno di assomigliargli, lui dice: «sí, sei tu, sei Nicolas Cage!», e quando usciamo dall’ascensore, con lui in delirio per il fatto di aver passato tutto questo tempo con Nicolas Cage, io cerco di allontanarmi perché comincia a sbracciarsi e a indicarmi, e insomma mi imbarazza – e l’imbarazzo è un altro indizio chiarissimo che io sono Nicolas Cage e non voglio che mi si riconosca; scappo verso il gruppetto dei miei compagni di viaggio mentre lui ferma chiunque si trovi davanti, e parla concitato e mi indica e io intanto racconto ai miei compagni di viaggio quel che mi è successo e perché quel signore mi sta indicando a tutti; i miei compagni di viaggio si girano a guardarlo e a lui lí in fondo sembra che io, in quanto Nicolas Cage, abbia raccontato che un appassionato di Face/Off mi ha scoperto e che ci dobbiamo dileguare. Io davvero sto chiedendo di dileguarci, ma per il fatto che mi vergogno come un cane, a questo punto, di non essere davvero Nicolas Cage e di doverlo spiegare a tutti tra dieci secondi al massimo.
Per parte mia, vi dico quello che voi potete immaginare ma di cui non potete essere certi visto che non mi conoscete: non assomiglio affatto a Nicolas Cage. Chiunque abbia sentito questa storia, alla fine tutti, nessuno escluso, mi hanno guardato a lungo e poi hanno concluso, tutti, che non assomiglio affatto a Nicolas Cage. Non c’era bisogno di dirmelo, davvero, eppure tutti, nessuno escluso, ci hanno tenuto a dirmelo. Che poi, voglio dire, non mi ha scambiato per Ralph Fiennes o De Niro, Di Caprio o Brad Pitt. No, solo Nicolas Cage, cioè la faccia cinematografica dell’uomo medio. Ed è a questo punto che scopro la questione terribile che vive tra le righe di quel che ha immaginato il cinese. Che non è vero soltanto che per gli occidentali i cinesi sono tutti uguali, ma è vero anche il contrario. Anche per i cinesi gli occidentali sono tutti uguali.
Cosí mi sono dileguato. E adesso questo signore cinese penserà per tutta la vita di aver incontrato Nicolas Cage. Quando andrà al cinema, o alla televisione daranno un film con Nicolas Cage, racconterà senz’altro che lui quell’attore lí lo ha conosciuto e gli altri ascolteranno increduli e affascinati il suo racconto di quella volta in ascensore quando Nicolas Cage negava di essere Nicolas Cage. È una cosa che di sicuro racconterà per tutta la vita. Non sempre, magari, ma almeno ogni volta che Nicolas Cage apparirà in un film. Per quest’uomo che vive a Hong Kong o in qualsiasi altro posto del mondo, io sono e rimarrò sempre Nicolas Cage. La traccia che ho lasciato in questo viaggio potrebbe essere duratura; ma è inequivocabilmente falsa. Questo momento chiuso in un ascensore di un megalbergo di Hong Kong insieme a un cinese emozionato e che non stava nella pelle, è stato senz’altro il momento piú rilevante e con la conclusione morale piú evidente di un viaggio in terre all’apparenza molto lontane ma che sembravano vicinissime e che hanno confuso in maniera definitiva il mio concetto di distanza.

2.

Qualche settimana prima, sono all’aeroporto di Malpensa. Al Terminal 2. Al Terminal 1 ci sono cinque voli al minuto, qui solo due – non al minuto, solo due oggi: un volo è partito per Zanzibar, un altro partirà per Colombo. È quasi tutto chiuso, silenzioso, con un piccolo bar in fondo, dove poche persone chiedono un caffè. Io sono seduto nel corridoio. Sono in una posizione spazio-temporale speciale. Sono sul punto di. Posso guardare questi sconosciuti in quanto sconosciuti, con la coscienza di sapere che ognuno di loro ha una probabilità altissima di diventare mio compagno di viaggio.
Non è questione da poco. Perché questo significa che siamo sull’orlo di un’intimità sfrenata. Posso guardare queste persone sconosciute, mai viste, mentre sono pienamente cosciente che già domani, soltanto domani, di quelle di loro che viaggeranno con me, saprò tutto. E sono di sicuro qui davanti a me, anche se ancora non le riconosco.
Fino al momento in cui li ho visti, ora, i miei probabili futuri compagni di viaggio, non sapevo della loro esistenza, nemmeno la presupponevo. Ora li guardo e quelli di loro che il destino sceglierà, costituiranno il mio gruppo. Ciò vorrà dire che essendo domani molto lontano da casa, solo, il mio gruppo si trasformerà immediatamente nella mia improvvisata famiglia, con naturalezza: con loro mangerò, dormirò, camminerò sotto il sole, guarderò il mondo che non ho mai visto. Il livello emotivo sarà costantemente alto e lo condividerò per intero e senza pudore con degli esseri umani che prima di questo viaggio non sapevo esistessero e che ora sono qui davanti a me anche se ancora non li riconosco. Eppure soltanto domani mi racconteranno la loro vita e ascolteranno la storia della mia vita. Ci racconteremo storie intime che non abbiamo raccontato a nessuno, porremo questioni filosofiche poste solo al nostro migliore amico una notte seduti sul marciapiede con molte birre vuote, e faremo tutto ciò solo perché siamo lontanissimi da casa e con persone che non c’entrano nulla con la nostra vita e per questo ci sentiremo al sicuro. E poi nomineremo e sentiremo nominare con sillabe confidenziali altre persone che non conosceremo mai ma che faranno parte dei prossimi giorni perché saranno le persone a cui si riferiscono i racconti – amici, fidanzati, figli, mogli, colleghi, amanti, fratelli, madri –, li nomineremo e li sentiremo nominare nelle telefonate e nelle preoccupazioni, nei negozi per scegliere un regalo e quando ci sentiremo indifesi di fronte a un’insensata nostalgia. Sono proprio qui davanti a me, senza che ancora li riconosca, gli esseri umani che tra pochissimo condivideranno con me una quotidianità improvvisa, totale, in cui berremo dallo stesso bicchiere, ci presteremo il phon, ci faremo fotografare tutti insieme, ci telefoneremo da una camera all’altra due minuti prima dell’ora dell’appuntamento per chiederci con complicità se siamo pronti. E soprattutto, condivideremo una cosa che non potremo condividere piú con nessun altro: vedere, come in questo caso, per la prima volta (e forse mai piú) la foresta dello Sri Lanka, le luci dei grattacieli di Hong Kong, la grande barriera corallina australiana. Ci fermeremo davanti a queste bellezze, a queste scoperte, e le guarderemo tutti insieme nello stesso istante e non avremo altre persone oltre noi (il nostro gruppo) per condividerle. Alla fine di tutto torneremo in questo aeroporto e ci scambieremo in fretta gli indirizzi e i numeri di telefono con la certezza in ognuno dei nostri cuori che ci perderemo nello stesso modo in cui ci siamo ritrovati: qui, a Malpensa; e torneremo gli sconosciuti che eravamo prima, cioè adesso, mentre sono ancora qui in attesa di riconoscere il mio gruppo.
Questa preveggenza stupida comporta una speciale malinconia, la stessa che non mi fa dormire nelle notti che precedono un viaggio. La stessa che ho provato qualche giorno fa in libreria e che mi ha spinto a non acquistare alla fine quel che vedo hanno acquistato tutti gli altri miei futuri compagni di viaggio: una guida dello Sri Lanka (e le altre guide che seguiranno). La stringono in una mano, la leggeranno durante il viaggio in aereo.
Io ci sono andato in libreria per acquistare diligentemente le mie guide sullo Sri Lanka e sull’Australia, nel reparto creato apposta per quelli che devono partire e sentono il bisogno imprescindibile di acquistare una guida che descriva con minuzia i luoghi che devono assolutamente vedere. Ma appena ho avuto tra le mani la guida dello Sri Lanka (o meglio, quella delle Maldive con l’appendice dello Sri Lanka), l’ho aperta a caso e ho visto una foto che mi ha inquietato in maniera misteriosa; il motivo di questa inquietudine l’ho capito soltanto quando sono arrivato in Sri Lanka. Questo, insieme allo smarrimento di un computer da parte di un mio compagno di viaggio, ha reso un cattivo servizio alla mia testarda disposizione a volermi considerare in viaggio. In ogni caso, sul momento ho lasciato perdere la guida (e quella dell’Australia non l’ho nemmeno piú considerata). E adesso, a torto o a ragione, sono l’unico a non averla.
In tutto siamo nove: due accompagnatori, un fotografo e sei persone che devono scrivere di questo viaggio sui propri giornali. Caterina, l’accompagnatrice, mi consegna il biglietto e insieme a esso un invito per una sala dell’aeroporto.
Perché il nostro viaggio sarà in business class.
E questo cambia tutto.
Sul momento penso che significherà che faremo probabilmente il viaggio che fa chiunque altro, ma in maniera piú confortevole. Però è assolutamente evidente che questo è il pensiero di un povero cristo che finora non ha mai viaggiato in business class e nemmeno aveva mai pensato o desiderato di farlo. Era una possibilità esclusa dalla mia vita, e oggi mi chiedo un sacco di volte perché, e so che la risposta non sta solo nel fatto che non avessi abbastanza soldi, ma che non avevo nessuna cognizione di un altro mondo parallelo al mio. In cui lo Sri Lanka o qualsiasi altro posto del mondo non c’entrano nemmeno.
Per esempio, quel che ancora non so mentre stringo la mano a Caterina, presentandomi, e lei mi chiede se questa ai miei piedi è la mia valigia, è che la mia risposta non sarà una risposta qualsiasi: perché se dico sí (e lo dico, visto che effettivamente è la mia valigia), questo momento si trasformerà in una specie di addio tra noi – tra me e la mia valigia, intendo. Dal momento in cui Caterina la guarda, come se fosse la fata turchina, il rapporto tra me e la mia valigia si risolve definitivamente; sparisce per sempre, e ricomparirà soltanto sul ripiano della stanza d’albergo di qualsiasi posto del mondo raggiungerò. E ricomparirà già aperta; io sfilerò quel che mi serve, senza richiudere, e poi farò ancora lo stesso gesto in un altro posto del mondo. Per tutto il tempo, avrò le mani libere e i polsi leggeri.
Ma non solo. Si vede che non sono mai stato in business class, e si vede già prima di salire sull’aereo, quando in questa sala vip della Malpensa, mentre gli altri chiacchierano amabilmente e sfogliano distratti qualche rivista, io ho una mano piena di noccioline e l’altra piena di patatine, mangio e riimmergo le mani oleose e salate nei piattini. Mi alzo continuamente e prendo da bere, incredulo che sia tutto gratuito e che nessuno mi controlli, o perlomeno mi osservi con aria disgustata. È come essere diventati piccolissimi ed essersi infilati dentro un frigorifero gigantesco, e strapieno – e non fa nemmeno freddo. Poi torno a sedermi sulla poltrona e appoggio sulle gambe una quantità impressionante di riviste e quotidiani, perché ho paura di perdermene qualcuno, e li sfoglio con voracità lasciando segni indelebili di oli industriali. Ho paura che ci chiamino senza che io abbia potuto sfruttare tutte le opportunità. Perché qui vengono a chiamarti loro, non devi stare su poltrone scomode del gate e leggere il tuo quotidianetto ma senza lasciarti sedurre troppo dagli articoli, perché un orecchio e una fetta di attenzione devono essere rivolti all’altoparlante in attesa che ti indichi l’inizio dell’imbarco. No, vengono a chiamarti loro quando è il momento, e segui un signore in divisa che ti accompagna fino al gate. Lí entri in un corridoio accanto a un altro corridoio, quello della economy class, dove sono in tanti e in fila e subito noti una cosa che quando stavi lí in mezzo non notavi, e cioè che stanno tutti vicinissimi e un po’ si spingono, anche se hanno il posto a sedere assegnato e assicurato (oltre al fatto che probabilmente manca qualcuno che non ha sentito che l’imbarco è cominciato). Quando noi della business class entriamo nel corridoio, siamo solo noi; a passo veloce entriamo in aereo e veniamo accolti da sorrisi piú larghi di quanto avessi visto finora nei miei non pochi viaggi in aereo, che cominciavano dalla valigia depositata con grande fatica sul tapis roulant del check-in, dopo averla riempita di adesivi e striscette con sopra il mio nome e indirizzo, e poi solo con riluttanza e tristezza acconsentivo a lasciar premere il pulsante che faceva partire la valigia e la portava lontano, forse per sempre. Partiva sul tapis roulant e dopo tre metri dal vicoletto del check-in si immetteva sulla strada statale, e lo faceva con una curva improvvisa che sempre – sempre – la faceva rovinare in malo modo e rumorosamente su un fianco; e poi, cosí malandata, forse ferita, spariva. Il sospetto, il timore, quasi la certezza, era che spariva per sempre. Per questo continuavo a guardare la signorina del check-in con occhi imploranti, per supplicarla di fare attenzione a quella valigia in modo particolare. Non aspiravo al miglioramento del servizio bagagli negli aeroporti fino a che diventasse sicuro per tutti, non era questo il problema, ma desideravo che una sola valigia non venisse persa d’occhio, richiedesse delle cure particolari, una speciale raccomandazione; una sola valigia non doveva essere smarrita: la mia. Di tutte le altre chi se ne fregava.
Eppure erano esattamente tutte le altre che vedevo quando, una volta in aereo, appoggiavo la fronte all’oblò e vedevo arrivare il trenino con un enorme carico di bagagli che venivano infilati nella pancia dell’aereo. Prima guardavo distrattamente, cercando di non far troppo caso se tra quei bagagli intravedevo la mia valigia. Cosí, buttavo un occhio. Poi però, buttando un occhio, la valigia non la vedevo e allora cominciavo a passare in rassegna il trenino dall’ultimo vagoncino al primo, all’inizio velocemente, poi con sistematicità e preoccupazione, poi ansioso; ma nulla. E so che ognuno dei passeggeri seduti accanto al finestrino dal mio lato stava guardando la stessa cosa e so che anche loro vedevano tutte le altre valigie tranne la propria. Era molto probabile che loro vedessero la mia e io le loro. Poi l’aereo si muoveva, e da quel momento per tutto il viaggio conservavo un sospetto e un malessere, e cioè che la valigia fosse finita su un altro aereo e stesse volando verso qualche altra parte del mondo. Anche loro avevano lo stesso sospetto.
Finora per me l’aereo era questo; e poi era rinunciare alla coca-cola che offrono perché tanto è sempre calda, ed è inutile farlo notare alla hostess: perché non potrà fare altro che darvi del ghiaccio; e anche il ghiaccio è misteriosamente caldo. Era avere un vassoio minuscolo ricoperto in alluminio con una serie di vaschette microscopiche piene di cibo impossibile da identificare, ma che aveva un odore e un sapore unico sia rispetto alle varietà all’interno della vaschetta sia rispetto ai vari tipi di aerei e di nazioni; non era riconducibile a nessun odore o sapore conosciuto in tutta la vita vissuta fino a quel momento, se non ad altro cibo mangiato in un altro aereo prima di quel momento. Era aver cominciato a conservare le salviette rinfrescanti se non le usavo subito, aver scoperto che non le avrei usate mai piú e allo stesso tempo che non riuscivo a smettere di accumularle. Era veder passare la hostess con i prodotti del duty free e non aver mai visto un solo passeggero acquistare qualcosa. Era chiedere continuamente scusa a quello davanti perché continui a dare ginocchiate nella sua schiena ogni volta che ti muovi, e dopo un po’ ritrovartelo accucciato su di te quando abbassa il sedile per addormentarsi, e resistere con difficoltà alla tentazione di accarezzargli i capelli e cantargli una ninna nanna. Era avere soffietti sopra la testa bloccati e non regolabili che lanciano per tutto il viaggio una mitragliata d’aria al centro del cervello. Era cercare di farsi assegnare un posto nelle prime file per riuscire a leggere i giornali migliori perché quelli davanti scelgono e ne prendono anche due o tre e agli ultimi tocca sempre leggere «Il Sole 24 Ore» o «La Gazzetta dello Sport». E solo in aereo puoi renderti davvero conto di quanto spesso e insistentemente i giornali riportino disastri aerei e con quanto accanimento si soffermino sui dettagli di quegli incidenti. In aereo è molto pro...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Allegro occidentale
  3. 1.
  4. 2.
  5. 3.
  6. 4.
  7. 5.
  8. 6.
  9. 7.
  10. 8.
  11. 9.
  12. 10.
  13. 11.
  14. 12.
  15. 13.
  16. 14.
  17. Il libro
  18. L’autore
  19. Dello stesso autore
  20. Copyright