La casa in collina
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La casa in collina

  1. 184 pagine
  2. Italian
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La casa in collina

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Corrado è un professore che ogni sera lascia una Torino buia e bombardata per rifugiarsi sulle colline circostanti. Ma quando la guerra lo raggiunge fin lí, decide di ritirarsi su altre colline, piú lontane ancora, quelle in cui è cresciuto. Lungo la strada incontra sparatorie, morti, sangue umano misto alla benzina fuoriuscita dagli autocarri. L'innocenza è perduta per sempre e il conforto non può arrivare neppure dalla terra delle origini, perché niente è piú come prima. Il momento piú alto della maturità dello scrittore Cesare Pavese, la storia di una solitudine individuale di fronte all'impegno civile e storico; il superamento dell'egoismo attraverso la scoperta che ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. Il romanzo simbolo dell'impegno politico e del disagio esistenziale di un'intera generazione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409527

La casa in collina

I.

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.
Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassú, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sí. Gli sfollati dei prati e dei boschi sarebbero ridiscesi in città come me, solamente piú sfiancati e intirizziti di me. Era estate, e ricordavo altre sere quando vivevo e abitavo in città, sere che anch’io ero disceso a notte alta cantando o ridendo, e mille luci punteggiavano la collina e la città in fondo alla strada. La città era come un lago di luce. Allora la notte si passava in città. Non si sapeva ch’era un tempo cosí breve. Si prodigavano amicizia e giornate negli incontri piú futili. Si viveva, o cosí si credeva, con gli altri e per gli altri.
Devo dire – cominciando questa storia di una lunga illusione – che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. Quando venne la guerra, io da un pezzo vivevo nella villa lassú dove affittavo quelle stanze, ma se non fosse che il lavoro mi tratteneva a Torino, sarei già allora tornato nella casa dei miei vecchi, tra queste altre colline. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere piú le occasioni perdute. Ma si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra cosí insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlarne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s’era conchiusa la mia gioventú, trovò con la guerra una tana e un orizzonte.
Di nuovo stasera salivo la collina; imbruniva, e di là dal muretto sporgevano le creste. Belbo, accucciato sul sentiero, mi aspettava al posto solito, e nel buio lo sentivo uggiolare. Tremava e raspava. Poi mi corse addosso saltando per toccarmi la faccia, e lo calmai, gli dissi parole, fin che ricadde e corse avanti e si fermò a fiutare un tronco, felice. Quando s’accorse che invece di entrare sul sentiero proseguivo verso il bosco, fece un salto di gioia e si cacciò tra le piante. È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte. Fin da ragazzo, mi pareva che andando per i boschi senza un cane avrei perduto troppa parte della vita e dell’occulto della terra.
Non volevo rientrare alla villa prima che fosse sera avanzata, giacché sapevo che le padrone mie e di Belbo mi attendevano al solito per farmi discorrere, per farsi pagare le cure che avevano di me e la cena fredda e l’affabilità, con le tortuose e sbrigative opinioni sulla guerra e sul mondo che serbavo per il prossimo. Qualche volta un nuovo caso della guerra, una minaccia, una notte di bombe e di fiamme, dava alle due donne argomento per affrontarmi sulla porta, nel frutteto, intorno al tavolo, e cianciare stupirsi esclamare, tirarmi alla luce, sapere chi ero, indovinarmi uno di loro. A me piaceva cenar solo, nella stanza oscurata, solo e dimenticato, tendendo l’orecchio, ascoltando la notte, sentendo il tempo passare. Quando nel buio sulla città lontana muggiva un allarme, il mio primo sussulto era di dispetto per la solitudine che se ne andava, e le paure, il trambusto che arrivava fin lassú, le due donne che spegnevano le lampade già smorzate, l’ansiosa speranza di qualcosa di grosso. Si usciva tutti nel frutteto.
Delle due preferivo la vecchia, la madre, che nella mole e negli acciacchi portava qualcosa di calmo, di terrestre, e si poteva immaginarla sotto le bombe come appunto apparirebbe una collina oscurata. Non parlava gran che, ma sapeva ascoltare. L’altra, la figlia, una zitella quarantenne, era accollata, ossuta, e si chiamava Elvira. Viveva agitata dal timore che la guerra arrivasse lassú. M’accorsi che pensava a me con ansia, e me lo disse: pativa quand’ero in città, e una volta che la madre la canzonò in mia presenza, Elvira rispose che, se le bombe distruggevano un altro po’ di Torino, avrei dovuto star con loro giorno e notte.
Belbo correva avanti e indietro sul sentiero e m’invitava a cacciarmi nel bosco. Ma quella sera preferii soffermarmi su una svolta della salita sgombra di piante, di dove si dominava la gran valle e le coste. Cosí mi piaceva la grossa collina, serpeggiante di schiene e di coste, nel buio. In passato era uguale, ma tanti lumi la punteggiavano, una vita tranquilla, uomini nelle case, riposo e allegrie. Anche adesso qualche volta si sentivano voci scoppiare, ridere in lontananza, ma il gran buio pesava, copriva ogni cosa, e la terra era tornata selvatica, sola, come l’avevo conosciuta da ragazzo. Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l’antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d’infanzia. Cominciavo a quei tempi a compiacermi in ricordi d’infanzia. Si direbbe che sotto ai rancori e alle incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi scoprivo ragazzo per avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo questo paese dov’ero vissuto. Eravamo noi soli, il ragazzo e me stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche d’allora. Soffrivo sí ma col piglio scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo. E discorrevo discorrevo, mi tenevo compagnia. Eravamo noi due soli.
Di nuovo quella sera saliva dalla costa un brusío di voci, frammisto di canti. Veniva dall’altro versante, dove non ero mai disceso, e pareva un richiamo d’altri tempi, una voce di gioventú. Mi ricordò per un momento le comitive di fuggiaschi che la sera, come gitanti, brulicavano sui margini della collina. Ma non si spostava, usciva sempre dallo stesso luogo. Era strano pensare che sotto il buio minaccioso, davanti alla città ammutolita, un gruppo, una famiglia, della gente qualunque, ingannassero l’attesa cantando e ridendo. Non pensavo nemmeno che ci volesse coraggio. Era giugno, la notte era bella sotto il cielo, bastava abbandonarsi; ma, per me, ero contento di non avere nei miei giorni un vero affetto né un impaccio, di essere solo, non legato con nessuno. Adesso mi pareva di aver sempre saputo che si sarebbe giunti a quella specie di risacca tra collina e città, a quell’angoscia perpetua che limitava ogni progetto all’indomani, al risveglio, e quasi quasi l’avrei detto, se qualcuno avesse potuto ascoltarmi. Ma soltanto un cuore amico avrebbe potuto ascoltarmi.
Belbo, piantato sul ciglione, latrava contro le voci. Lo strinsi per il collare, lo feci tacere, e ascoltai meglio. Tra le voci avvinazzate ce n’erano di limpide, e perfino una di donna. Poi risero, si scompigliarono, e salí una voce isolata di uomo, bellissima.
Stavo già per tornare sui miei passi, quando dissi a me stesso: «Sei scemo. Le due vecchie ti aspettano. Lascia che aspettino».
Nel buio cercavo d’indovinare il sito preciso dei cantori. Dissi: «Magari sono gente che conosci». Presi Belbo e gli feci segno verso l’altro versante. Mormorai sottovoce una frase del canto e gli dissi: – Andiamo là –. Lui sparí con un balzo.
Allora, lasciandomi guidare dalle voci, m’incamminai per il sentiero.

II.

Quando sbucai sulla strada e ascoltavo guardando nel buio, di là dalla cresta, quasi sommerso nelle voci dei grilli, suonava l’allarme. Sentii, come ci fossi, la città raggelarsi, il trepestío, porte sbattersi, le vie sbigottite e deserte. Qui le stelle piovevano luce. Adesso il canto era cessato nella valle. Belbo abbaiò, poco lontano. Corsi da lui. S’era cacciato in un cortile e saltava in mezzo a gente ch’era uscita da una casa. Per la porta socchiusa filtrava una luce. Qualcuno gridò: – Chiudi l’uscio, ignorante –, e risero, vociando. La porta si spense.
Conoscevano Belbo, tra loro; qualcuno nominò con buon umore le due vecchie, mi accolsero senza chiedermi chi fossi. Andavano e venivano al buio; c’era qualche bambino, e si guardava tutti in su. – Verranno? Non verranno? – dicevano. Parlavano di Torino, di guai, di case rotte. Una donna seduta in disparte mugolava tra sé.
– Credevo che qui si ballasse, – dissi a caso.
– Magari, – fece l’ombra del giovane che per primo aveva parlato con Belbo. – Ma nessuno si ricorda di portare il clarino.
– Ce l’avresti il coraggio? – disse una voce di ragazza.
– Per lui, ballerebbe, con la casa che brucia.
– Sí, sí, – disse un’altra.
– Non si può, siamo in guerra. Italiani, – qui la voce cambiò, – questa guerra l’ho fatta per voi. Ve la regalo, voi siatene degni. Non si dovrà piú né ballare, né dormire. Dovete solo fare la guerra, come me.
– Sta’ zitto, Fonso, se ti sentono.
– Che vuoi farci? si canta.
E la voce intonò la canzone di prima, ma bassa, smorzata, quasi temesse di disturbare i grilli. Si unirono ragazze; due giovanotti si rincorsero nel prato, Belbo prese a latrare di furia.
– Sta’ buono, – gli dissi.
Sotto le piante c’era un tavolo con un fiasco e dei bicchieri. Il padrone, un vecchiotto, versò anche per me. Era una specie d’osteria, ma tutti piú o meno parenti, e venivano da Torino in comitiva.
– Fin che dura, va bene, – diceva una vecchia, – ma col fango e la pioggia?
– Non abbiate paura, nonna, qui per voi c’è sempre un posto.
– Adesso è niente, è quest’inverno.
– Quest’inverno la guerra è finita, – disse un ragazzino, e scappò via.
Fonso e le ragazze cantavano, sempre a voce smorzata, sempre pronti a raccogliere un brusío, un rombo lontani. Anch’io, di minuto in minuto, tendevo l’orecchio sul coro dei grilli e, quando d’un tratto la vecchia riaprí il battente della porta, anch’io esclamai che spegnesse.
C’era in quella gente, nei giovani, nel loro scherzare, nella stessa cordialità facile della compagnia e del vino, qualcosa che conoscevo, che mi ricordava la città d’altri tempi, altre sere, scampagnate sul Po, varietà d’osteria e di barriera, amicizie passate. E sul fresco della collina, in quel vuoto, in quell’ansia che manteneva all’erta, ritrovavo un sapore piú antico, contadino, remoto. Seguivo d’istinto le voci delle ragazze, delle donne, e tacevo. Alle uscite di Fonso ridevo piano, di gusto. M’ero seduto a cielo aperto, con gli altri, sopra un trave.
Una voce mi disse: – E lei, che fa? è in villeggiatura?
Riconobbi la voce. Adesso, a pensarci, mi sembra evidente. La riconobbi, e non mi chiesi di chi fosse. Era una voce un poco scabra, provocante, brusca. Mi parve la tipica voce delle donne e del luogo.
Risposi scherzando che andavo a tartufi col cane. Lei mi chiese se dove insegnavo si mangiavano i tartufi. – Chi le ha detto che insegno? – feci sorpreso. – Si capisce, – mi disse nel buio.
C’era qualcosa di canzonatorio nella voce. O era il gioco di parlarsi come in maschera? In un attimo feci passare i discorsi di prima; non trovai che mi fossi tradito, e conclusi che quelli che conoscevano le vecchie, forse sapevano di me. Le chiesi se stava a Torino o lassú.
– Torino, – mi disse tranquilla.
Mi accorsi nell’ombra che poteva esser ben fatta. La curva delle spalle e delle ginocchia era netta. Sedeva stringendosi le ginocchia con le mani e abbandonava il capo all’indietro con aria beata. Cercai di scrutarla nel viso.
– Non vuole mica mangiarmi, – mi disse in faccia.
In quel momento si sentí il cessato allarme. Per un istante tutti tacquero increduli, poi scoppiò un gran baccano, e i ragazzi saltavano, le vecchie benedicevano, gli uomini diedero mano ai bicchieri e battevano il tempo. – Per stanotte è passata. – Verranno piú tardi. – Italiani, l’ho fatta per voi.
Lei non s’era scomposta. Abbandonava sempre il capo contro il muro, e quando le balbettai: – Lei è Cate. Sei Cate, – non mi dava piú risposta. Credo che avesse chiuso gli occhi.
Mi toccò alzarmi, perché adesso rincasavano. Volli pagare per il vino, ma mi dissero: «Storie». Salutai, strinsi la mano a Fonso e a un altro, chiamai Belbo e, per incanto, mi trovai solo, sulla strada, a guardare la smorta facciata.
Poco piú tardi, ero rientrato nella villa. Ma intanto era notte, notte fonda e l’Elvira aspettava, quasi sugli scalini, c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Di guerra, solitudine e colpa
  4. La casa in collina
  5. Assonanze
  6. La famiglia (1941-42)
  7. Il fuggiasco (1944)
  8. Nota. di Laura Nay e Giuseppe Zaccaria
  9. Appendice
  10. Cronologia della vita e delle opere
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright