La bella estate
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La bella estate

  1. 136 pagine
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La bella estate

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Scritto nella primavera del 1940 e pubblicato nel 1949 insieme a Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, La bella estate è, come affermò lo stesso Pavese, la «storia di una verginità che si difende», il racconto dell'inevitabile perdita dell'innocenza.
Sullo sfondo di una Torino grigia e crepuscolare, si dipana la dolorosa maturazione di un'ingenua adolescente: nell'ambiente corrotto e sregolato della bohème artistica torinese, Ginia si innamora di un giovane pittore da cui, dopo resistenze interiori e rimorsi malcelati, si lascerà sedurre. È l'inizio di un amore disperante, carico di attese e vane illusioni, destinato a consumarsi nel breve attimo di una stagione.
Un romanzo intenso e delicato che narra l'iniziazione alla vita, nella fase che segna, con la scoperta dei sensi e della tentazione, il passaggio dall'adolescenza alla maturità e la consapevolezza del proprio inevitabile destino.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408872
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

La bella estate

I.

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.
Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano piú cosa dire. Veniva cosí il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti piú belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l’indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l’aspettava. Le altre dicevano: – Se torno tardi, poi ho sonno; se torno tardi, me le suonano –. Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello, che lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva. Nelle ore del mezzogiorno (Severino si girava nel letto quando lei entrava) Ginia preparava la tavola e mangiava affamata masticando adagio, ascoltando i rumori della casa. Il tempo passava adagio, come fa negli alloggi vuoti, e Ginia aveva tempo di lavare i piatti che aspettavano nel lavandino, di fare un po’ di pulizia; poi, di stendersi sul sofà sotto la finestra e lasciarsi assopire al ticchettío della sveglia dall’altra stanza. Qualche volta chiudeva anche le imposte per far buio e sentirsi piú sola. Tanto Rosa alle tre avrebbe sceso le scale, fermandosi a grattare contro l’uscio, piano per non svegliare Severino, finché lei non le rispondesse ch’era sveglia. Allora uscivano insieme e si lasciavano al tram.
Di comune, Ginia e Rosa non avevano che quel pezzo di strada e una stella di perline nei capelli. Ma una volta che passavano davanti a una vetrina e Rosa disse: – Sembriamo sorelle, – Ginia s’accorse che quella stella era ordinaria e capí che doveva portare un cappellino se non voleva parere anche lei un’operaia. Tanto piú che Rosa, soggetta ancora a padre e madre, non avrebbe potuto pagarsene uno che chi sa quando.
Quando passava a svegliarla, Rosa entrava se non era già tardi; e Ginia si faceva aiutare a rimettere in ordine, ridendo sottovoce di Severino che, come tutti gli uomini, non sapeva che cosa voglia dire tenere una casa. Rosa lo chiamava «tuo marito», per continuare lo scherzo, ma non di rado Ginia si rabbuiava e ribatteva che avere tutte le noie della casa ma non l’uomo, era poco allegro. Scherzava, Ginia – perché il suo piacere era proprio di starsene quell’ora in casa da sola, come una padrona –, ma a Rosa bisognava di tanto in tanto far capire che non erano piú bambine. Neanche per strada Rosa sapeva stare, e faceva dei versacci, rideva, si voltava – Ginia l’avrebbe pestata. Ma quando andavano insieme a ballare, Rosa era necessaria perché dava a tutti del tu, e con le sue matterie faceva capire agli altri che Ginia era piú fine. In quell’anno cosí bello, che cominciavano a vivere da sole, Ginia s’era presto accorta che la sua differenza dalle altre era di essere sola anche in casa – Severino non contava – e di potere a sedici anni vivere come una donna. Per questo fin che portò la stella nei capelli si lasciò accompagnare da Rosa, che la divertiva. Non c’era un’altra in tutto il rione, che fosse scema come Rosa, quando voleva. Sapeva smontare chiunque, ridendo e guardando in aria, e delle sere intiere non faceva né diceva niente che non fosse per commedia. E litigava come un gallo. – Che cos’hai, Rosa? – diceva qualcuno, mentre si aspettava che cominciasse l’orchestra. – Paura – (e le uscivano gli occhi dalla testa); – ho visto là dietro un vecchio che mi fissa, mi aspetta fuori, ho paura –. L’altro non ci credeva. – Sarà tuo nonno. – Stupido. – Allora balliamo. – No perché ho paura –. Ginia, a metà del giro, sentiva quell’altro gridare: – Sei una maleducata, una strega, vatti a nascondere. Torna in fabbrica! – Allora Rosa rideva e faceva ridere gli altri, ma Ginia, continuando a ballare, pensava che era proprio la fabbrica che riduceva cosí una ragazza. E del resto bastava guardare i meccanici, che anche loro cominciavano la conoscenza facendo questi scherzi.
Se nella compagnia ce n’era qualcuno, si poteva star certi che prima di notte una ragazza si arrabbiava o, se era piú scema, piangeva. Prendevano in giro come Rosa. Volevano sempre portarle nei prati. Con loro non si poteva discorrere e bisognava stare subito sulla difesa. Ma avevano di bello che certe sere si cantava, e cantavano bene, specialmente se veniva Ferruccio, con la chitarra, uno alto, biondo, che era sempre disoccupato ma aveva ancora le dita nere e fiaccate dal carbone. Pareva impossibile che quelle mani grosse fossero cosí brave, e Ginia che se le era sentite una volta sotto l’ascella mentre tornavano tutti insieme dalla collina, stava attenta a non guardarle mentre suonavano. Rosa le aveva detto che quel Ferruccio si era informato di lei due o tre volte, e Ginia aveva risposto: – Digli che prima si faccia le unghie –. La volta dopo s’aspettava che Ferruccio ridesse, e invece Ferruccio neanche l’aveva guardata.
Ma venne il giorno che Ginia uscí dall’atelier aggiustandosi il cappello con le due mani, e trovò sul portone proprio Rosa che le saltò incontro. – Cosa c’è? – Sono scappata dalla fabbrica –. Fecero insieme il marciapiede fino al tram, e Rosa non parlava piú. Ginia, seccata, non sapeva cosa dire. Fu quando scesero dal tram, vicino a casa, che Rosa brontolando disse piano che aveva paura di essere incinta. Ginia le diede della stupida e litigarono sull’angolo. Poi la cosa passò, perché Rosa si era messa in quello stato solamente per lo spavento, ma intanto Ginia fu piú agitata di lei, perché le pareva di essere stata truffata e lasciata a far la bambina mentre gli altri si divertivano, e proprio da Rosa poi che non aveva neanche un po’ di ambizione. «Io valgo di piú», diceva Ginia, «a sedici anni è troppo presto. Peggio per lei se si vuole sprecare». Diceva cosí ma non poteva ripensarci senza umiliazione, perché l’idea che quelle altre senza mai dirlo fossero tutte passate nei prati, mentre a lei, che viveva da sola, la mano di un uomo dava ancora il batticuore, quest’idea le tagliava il fiato. – Perché quel giorno sei venuta a dirlo a me? – chiese a Rosa un pomeriggio mentre uscivano insieme. – E a chi vuoi che lo dicessi? Stavo fresca. – Perché non mi hai mai detto niente prima? – Rosa che adesso era tranquilla, rideva. Cambiò il passo. – Se non si dice è piú bello. Porta male parlarne –. Ginia pensava. «È una stupida. Adesso ride ma prima voleva ammazzarsi. Non è ancora una donna, ecco cos’è». Intanto, anche da sola, quando andava e veniva per la strada, pensava che siamo giovani tutte e bisognerebbe avere subito vent’anni, per sapersi regolare.
Per tutta una sera Ginia guardò l’innamorato di Rosa – Pino dal naso storto, uno piccolo che sapeva soltanto giocare al biliardo, e non faceva niente e parlava nell’angolo della bocca. Ginia non capiva perché Rosa venisse ancora al cinema con lui dopo aver provato quant’era vigliacco. Non poteva levarsi dalla mente quella domenica ch’erano andati tutti insieme in barca e s’era visto che Pino aveva la schiena lentigginosa che pareva ruggine. Adesso che sapeva, ricordò che quel giorno Rosa era scesa con lui sotto le piante. Che stupida era stata a non capire. Ma piú stupida Rosa, e glielo disse ancora una volta sulla porta del cinema.
Pensare che in barca erano andati tante volte, e si scherzava, si rideva, si pigliavano in giro le coppie. Ginia che stava attenta alle altre, non si era accorta di Rosa e di Pino. Nel caldo del mezzogiorno erano rimaste sole nel barcone lei e Tina la zoppa. Gli altri, compresa Rosa, erano saliti sulla riva, dove si sentivano gridare. Tina che aveva tenuto sottana e camicetta, disse a Ginia: – Se non viene nessuno, mi svesto per prendere il sole –. Ginia le disse che avrebbe fatto lei la guardia, ma invece tendeva l’orecchio alle voci e ai silenzi della riva. Passò un po’ di tempo che tutto taceva sull’acqua tranquilla. Tina era stesa sotto il sole, con un asciugamano intorno ai fianchi. Allora Ginia era saltata sull’erba e aveva fatto qualche passo a piedi nudi. Non si sentiva piú la voce di Amelia, che si era tirata dietro tutti gli altri. Ginia, scema, immaginando che giocassero a nascondersi, non li aveva cercati e se n’era tornata sulla barca.

II.

Amelia almeno si sapeva che faceva un’altra vita. Suo fratello era meccanico, ma lei compariva solo di tanto in tanto, le sere di quell’estate, e non dava confidenza a nessuno ma rideva con tutti, perché aveva diciannove o vent’anni. Ginia avrebbe voluto avere la sua statura perché, con le gambe di Amelia, stavano bene sí le calze fini. Quantunque, vista in costume da bagno, Amelia era sporgente di fianchi e come fattezze dava un po’ l’aria a un cavallo. – Sono disoccupata, – disse a Ginia, una sera che lei le guardava il vestito, – ho tempo tutto il giorno per studiarmi il modello. Ho imparato a tagliare lavorando come te in sartoria. Tu sai? – Ginia pensava che il bello era farseli fare, ma non lo disse. Fecero invece un giro insieme, quella sera, e Ginia l’accompagnò fino a casa, perché si sentiva tutta sveglia e non pensava a dormire. Aveva piovuto, e l’asfalto e le piante eran tutte lavate: si sentiva il fresco in faccia.
– Ti piace andare a spasso, – diceva Amelia ridendo. – Che cosa dice tuo fratello Severino? – Severino a quest’ora è sul lavoro. Tutti i lampioni li accende e li sorveglia lui. – Allora è lui che fa lume alle coppie? Com’è vestito? Da gasista? – Ma no, – disse Ginia ridendo, – sorveglia gli interruttori alla centrale. Passa la notte davanti a una macchina. – E vivete da soli? non ti fa la morale? – Amelia parlava con l’allegria di chi conosce tutti quanti e Ginia le dava senza fatica del tu. – Sei disoccupata da molto? – le chiese.
– Un lavoro ce l’ho. Mi faccio dipingere.
A sentire la voce, pareva uno scherzo, e Ginia la guardò. – Dipingere come?
– Di faccia, di profilo; vestita, spogliata. Si dice la modella.
Ginia ascoltava fingendo stupore per farla parlare, ma sapeva benissimo quel che Amelia diceva. Soltanto non avrebbe mai creduto che ne parlasse con lei, perché a nessuna di loro Amelia l’aveva mai detto, e il segreto l’aveva scoperto Rosa soltanto per via di portinaie.
– Vai davvero da un pittore?
– Andavo, – disse Amelia. – Ma d’estate gli costa meno dipingere fuori. D’inverno fa troppo freddo a stare nude in posa, e cosí non si lavora quasi mai.
– Ti spogliavi?
– E già, – disse Amelia.
Poi prese Ginia sottobraccio e disse ancora: – Come lavoro è bello, perché tu non fai niente e stai a sentire i discorsi. Andavo una volta da uno che aveva uno studio magnifico e quando veniva gente prendevano il tè. S’impara a stare al mondo là in mezzo, meglio che al cinematografo.
– Entravano mentre posavi?
– Chiedevano permesso. Il piú bello sono le donne. Lo sapevi che anche le donne fanno dei quadri? Pagano una ragazza per copiarla nuda. Ma perché non si mettono davanti allo specchio? Capirei se copiassero un uomo.
– Magari ne copiano, – disse Ginia.
– Non dico di no, – disse Amelia, fermandosi davanti al portone, e strizzò l’occhio. – Ma certe modelle le pagano il doppio. Va’ là che il mondo è bello perché è vario.
Ginia le chiese perché non veniva qualche volta a trovarla, e tornò sola camminando sui riflessi dell’asfalto che il tepore della notte aveva quasi asciugato. «Vecchia com’è, racconta troppo le sue cose», pensava Ginia, contenta. «Se facessi la sua vita io, sarei piú furba».
Ginia fu un po’ delusa quando si accorse che passavano i giorni e Amelia non veniva a trovarla. Si capiva che quella sera non aveva cercato di fare amicizia, ma allora – pensava Ginia – vuol proprio dire che racconta quelle cose a chiunque e che è scema davvero. Forse mi crede una bambina, di quelle che credono tutto. E Ginia raccontò una sera, a molte, di aver visto in un negozio un quadro che si capiva che la modella era Amelia. Ci credevano tutte, ma Ginia volle dire che l’aveva conosciuta da come era fatto il corpo, perché, quando la modella è nuda, la faccia i pittori gliela cambiano apposta. – Figurati se han questi riguardi, – disse Rosa, e la presero in giro per la sua ingenuità. – Io sarei contenta se un pittore mi facesse il ritratto e mi pagasse ancora, – disse Clara. Allora discussero se Amelia era bella, e il fratello di Clara, che era stato in barca con loro, si mise a dire che nudo era piú bello lui. Tutte ridevano e Ginia disse, ma non l’ascoltarono: – Se non fosse ben fatta un pittore non la copierebbe –. Restò umiliata quella sera, e avrebbe pianto dalla rabbia; ma i giorni passavano, e la volta che incontrò di nuovo Amelia – scendendo dal tram – si accompagnarono discorrendo. Ginia era persino piú elegante di Amelia, che camminava col cappello in mano e rideva mostrando i denti.
L’indomani pomeriggio Amelia venne a cercarla. Comparve nel caldo, sulla porta spalancata,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Claudia Durastanti
  4. La bella estate
  5. Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio. di Furio Jesi
  6. Nota. di Laura Nay e Giuseppe Zaccaria
  7. Appendice
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright