Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi
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Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi

Vita di David Foster Wallace

  1. 512 pagine
  2. Italian
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Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi

Vita di David Foster Wallace

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A cinque anni dalla morte, David Foster Wallace rimane una figura centrale della cultura contemporanea per la capacità di raccontarne i nodi irrisolti e le ambizioni, i sogni e gli incubi. Raccontarli, certo, ma anche incarnarli in una vita intensa, percorsa e scossa dall'esaltazione creativa quanto dai fantasmi della depressione e della solitudine. Attingendo ai materiali conservati presso l'università di Austin e a testimonianze dirette di amici, parenti e colleghi scrittori, D. T. Max ricostruisce il percorso intellettuale e umano di DFW, i rapporti con i padri letterari, la vicenda clinica e la dimensione pubblica. Guidato dalla volontà di capire e analizzare le radici, le ragioni, i meccanismi di una mente geniale e complessa, fragile e dolce. *** «DFW mi manca, sí, mi manca il suo essere-nel-mondo, quindi escogito dei modi per averlo vicino, e l'ultimo che mi si è offerto è questa biografia». Paolo Giordano *** «Un ritratto dell'artista da giovane, di grande potenza e impatto emotivo». Michiko Kakutani, «The New York Times» *** «Un libro che ha alla base una seria ricerca e grande senso di solidarietà. Una lettura dolorosissima». Dave Eggers

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408650

Capitolo 1

«Puoi chiamarmi Dave»

Ogni storia ha un inizio, e questa comincia cosí: David Wallace nasce il 21 febbraio 1962 a Ithaca, nello Stato di New York. Suo padre, James, laureato in filosofia alla Cornell, proveniva da una famiglia istruita. La madre, Sally Foster, aveva invece origini piú umili, contadine – la sua famiglia era nativa del Maine e del New Brunswick; il padre era coltivatore di patate. Il nonno era ministro battista, e le aveva insegnato a leggere usando la Bibbia. Dopo aver ottenuto una borsa di studio che le aveva permesso di frequentare una scuola superiore prestigiosa, Sally si era iscritta al Mount Holyoke College dove aveva studiato Lettere. Era diventata presidentessa del corpo studentesco nonché la prima, in famiglia, a conseguire una laurea.
Due anni dopo la nascita di David, Jim e Sally ebbero una figlia, Amy. All’epoca la famiglia si era già stabilita nell’area metropolitana Champaign-Urbana, le twinscities nel cuore dell’Illinois, sede dell’università pubblica piú prestigiosa dello stato. Sally e Jim non avrebbero mai voluto lasciare Cornell – ne adoravano il panorama ondulato – ma Wallace padre aveva ricevuto un’offerta dal dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Illinois e non se la sentí di rifiutare. La coppia fu meravigliata di scoprire quanto inospitale fosse la nuova città, quanto scialba e desolata. Presto, però, con somma gioia della famiglia, Jim ottenne un incarico di ruolo e Sally poté cosí tornare a dedicarsi agli studi fino a conseguire una specializzazione in Lettere. La famiglia si insediò stabilmente a Urbana nel corso del 1969 acquistando una casetta gialla a due piani in una stradina nei pressi dell’università. Non lontano c’erano campi di granturco e soia, coltivazioni a perdita d’occhio, orizzonti sconfinati.
A Urbana, Wallace e la sorella crebbero insieme a ragazzini assai simili a loro, tra famiglie che attribuivano considerevole valore allo studio. Ma a risultare preponderanti erano le virtú tipiche del Midwest: moderazione, cortesia e senso di appartenenza alla comunità. L’ostentazione era scoraggiata, la cordialità importante. Casa Wallace aveva dimensioni modeste, e somigliava a molte altre abitazioni modeste. Si viveva a contatto con i vicini e, come ricorda un amico di Wallace, i ragazzini del quartiere trascorrevano gran parte della giornata in sella alla bicicletta, in branchi. A quel tempo, a quanto pare, tutti i bambini si chiamavano David.
Dopo le lezioni alla scuola elementare Yankee Ridge c’erano i compiti. A casa Wallace la cena era in tavola alle 17.45, poi Jim Wallace leggeva per Amy e David. Una volta a letto, i bambini avevano a disposizione quindici minuti per parlare con Sally di qualunque cosa passasse loro per la testa. Le luci si spegnevano alle 20.30, e via via piú tardi nel corso degli anni. Quando i figli si addormentavano, i genitori chiacchieravano, si raccontavano le rispettive giornate, guardavano il telegiornale delle 22. Jim spegneva le luci alle 22.30 in punto. Ogni settimana tornava dalla biblioteca con un carico di libri. Sally prediligeva i romanzi, da John Irving ai classici letti durante gli studi. Agli occhi di David, la famiglia si presentava come un nucleo perfetto, un meccanismo ben oliato; in alcune interviste avrebbe poi rievocato l’immagine dei genitori che, sdraiati a letto mano nella mano, si leggevano l’un l’altra brani dell’Ulisse.
La madre era il centro dell’universo di David. Era lei a preparare i suoi piatti preferiti – roast beef e maccheroni al formaggio – a occuparsi della torta al cioccolato per il suo compleanno e a scarrozzare i figli dappertutto con un Maggiolino VW; piú tardi, in seguito a un incidente, Sally dovette sostituirlo con una Gremlin. Per il compleanno di David cucinava anche il manzo à la bourguignonne, e gli cuciva etichette con le iniziali ai vestiti (alcuni dei quali Wallace continuerà a indossare anche durante gli anni del college).
Nessuno ascoltava David quanto sua madre. Sally era intelligente e spiritosa, ispirava fiducia, e lo contagiò col suo amore per le parole. Anni dopo, pur affrontando la tormentosa eredità dell’infanzia, David avrebbe ricordato con affetto la passione per le parole e la grammatica che Sally aveva saputo trasmettergli. Nel caso mancasse un termine specifico per indicare qualcosa, Sally lo inventava: i pelucchi di cotone, in particolare quelli che i piedi finiscono per portare nel letto, erano cosí greeble; twanger era il vocabolo con cui riferirsi a qualcosa di cui non conoscevi il nome, o di cui l’avevi dimenticato. Sally adorava la parola fantod, che alludeva a un sentimento di paura viscerale o di repulsione: i cosiddetti «fantod urlanti» ne erano l’espressione piú estrema. Queste parole, come molte altre risalenti all’infanzia, si sarebbero poi ripresentate nell’opera dello scrittore.
Agli occhi di un estraneo, l’entusiasmo di Sally per l’uso corretto di un termine poteva certo apparire eccessivo. Se qualcuno seduto a tavola in casa Wallace incappava in un errore grammaticale, Sally tossicchiava ripetutamente nel tovagliolo finché chi aveva parlato non se ne rendeva conto. Protestava di fronte ai cartelli «ten items or less»1 che segnalavano le casse veloci al supermercato. (In Infinite Jest Wallace avrebbe affidato questa quotidiana campagna grammaticale a Avril Incandenza, co-fondatrice dei «Grammatici Militanti del Massachusetts»). Per Sally, però, la grammatica era piú di un mero strumento. Era ciò che garantiva l’accesso al club delle persone istruite. La sensazione che ogni espressione nascondesse una posta in gioco cosí alta emozionava David, e si aggiungeva all’eccitazione di avere una madre dotata. E anche particolarmente sensibile: Sally detestava alzare la voce. Nel caso si risentisse per una qualche ragione, infatti, scriveva un biglietto. E se David e Amy volevano risponderle, eccoli lasciare a loro volta un biglietto sotto la porta di camera sua. Fin da bambino, insomma, Wallace fu sensibile al delicato sistema di equilibri emotivi racchiuso nella personalità. A cinque anni scrisse – e nelle parole si avverte il lamento della donna che le aveva ispirate:
Mia madre lavora e fa tutto
E per il pane le serve lo strutto.
Cuoce il pane, e il letto rifà
E quando ha finito
A dormire se ne va
David nutriva lo stesso sentimento nei confronti del padre, figura amorevole benché un po’ piú distante, l’uomo risoluto e gentile che ogni sera, a tavola, gli leggeva qualcosa. «Mio padre legge con una voce bellissima», raccontò Wallace, ormai trentenne, in un’intervista,
e ricordo che quando avevo cinque anni e Amy tre, papà ci leggeva Moby Dick: la versione integrale di Moby Dick. Prima… o quantomeno a metà della cosa, mamma lo prese da parte e gli spiegò che insomma, magari era probabile che i bambini non trovassero «Cetologia» tanto interessante. Ecco, quindi erano… ma mi pare che alla fine Amy fu esentata. E io mi sorbivo la cosa nello spirito del «Sí papà, ti voglio bene, quindi mi metto seduto e ti sto a sentire».
Il ricordo è forse un’iperbole: il padre di Wallace, come ha poi spiegato, si rendeva benissimo conto che Moby Dick, almeno nelle sue parti piú ostiche, non fosse certo una lettura adatta a dei bambini. Ciononostante le parole di Wallace forniscono un’istantanea che ritrae la trama delle relazioni familiari cosí come si presentava ai suoi occhi: il padre gentile, talvolta alieno, la sorellina pacifica e docile, e David al centro, difeso dalla madre e al tempo stesso desideroso di emanciparsi dalla sua protezione.
Wallace ebbe un’infanzia felice e ordinaria, e lo rimarcò piú volte negli ultimi anni di vita. Era un bambino pelle e ossa, i denti distanziati, la frangetta e i capelli lisci come spaghetti. Tifava per i Chicago Bears, ne adorava il linebacker fuoriclasse Dick Butkus (sarebbe stato «un grande sergente nella guerra del Vietnam», scrisse in un tema scolastico), e sognava di diventare un giocatore di football, o un neurochirurgo, per occuparsi del sistema nervoso della madre. Si credeva un ragazzino normale, e lo era. Però proveniva da una famiglia di talenti in cui regnava l’amore, non tanto diversa dai Glass di Salinger. Una famiglia con la capacità di imporre il proprio mondo di concetti e idee a quello reale. «Comportati bene», lo ammoní sua madre quando aveva tre anni, per sentirsi rispondere: «Io sono “bene”». Durante un viaggio in automobile, all’epoca David doveva avere otto o nove anni, la famiglia decise di utilizzare la costante matematica 3,14159 al posto della parola «crostata». Wallace era sí dotato, dal punto vista linguistico, ma non era particolarmente interessato alle materie umanistiche; in effetti credeva di cavarsela bene anche – se non di piú – nei problemi di logica. Un amico d’infanzia ricorda di essersi presentato a una sessione di autografi del famoso autore e di aver scoperto, con grande sorpresa, che Wallace rammentava ancora un numero di venticinque cifre che i due avevano memorizzato da bambini.
Da un ritratto autobiografico di Wallace, scritto in quarta elementare:
Capelli neri di lunghezza media occhi scuri […] gli piace il nuoto subacqueo football, Tv lettura. Altezza 1,40 metri peso 31 chilogrammi.
In calce a simili, concise annotazioni, Wallace si esercitava con la propria firma: Dave W. David W. «Ciao, – scrisse in una lettera di presentazione indirizzata alla sua maestra delle elementari quando aveva nove anni. – Mi chiamo David W. Ma puoi chiamarmi Dave». «David Foster Wallace», firmò in testa alla pagina su cui aveva scritto, all’età di sei o sette anni, una poesia sui vichinghi (Se ti imbatti in un vichingo oggigiorno, farai meglio a levarti di torno), sperimentando cosí il suo secondo nome: il cognome di sua madre.
Anche gli scritti d’infanzia di Wallace sono perlopiú ordinari. Tuttavia, se ne aveva l’occasione, David dava libero sfogo al senso dell’umorismo. Adorava la parodia. «i Ciambelluzzi, – scrisse in un esercizio di scrittura alle elementari, – sono angioletti con le aluzze a buon mercato, colorati e gustosi, una delizia per il tuo stomaco affamato», e la Rutto-Cola dava qualcosa in piú al «gusto del bagnato: se non sei assetato, meglio che cambi canale». Aveva una predisposizione naturale per i giochi di parole e l’ironia. Guardava al rovescio delle cose.
A casa Wallace esisteva la possibilità di ricorrere in appello: dall’età di dieci anni, infatti, Wallace prese l’abitudine di lasciare biglietti ai genitori per far notare loro, con minuzia di dettagli, le ingiustizie subite. Si convinse cosí che anche il resto del mondo tenesse molto a cuore la sua opinione. E com’era prevedibile, una simile convinzione gli causò non pochi problemi nel rapporto con gli adulti. Le uscite di David, i suoi «Perché?» e «Ma questo non ha senso!» diventarono una costante nelle aule della Yankee Ridge, la scuola elementare frequentata dal 1969 al 1974, e gli insegnanti, malgrado intuissero le potenzialità dell’allievo, trovavano irritante il suo atteggiamento. Un giorno, al campeggio estivo di Crystal Lake, dove David e Amy trascorsero piú di una vacanza, Wallace non ne poté piú di capigruppo e regolamenti e non fece altro che incamminarsi verso casa, percorrendo diversi chilometri. (La madre, su tutte le furie, si presentò poi al campeggio e pretese che le facessero vedere il figlio; quando le risposero che era impossibile, Sally chiosò: «Certo, perché è a casa!»)
Quando David compí dieci anni, Sally cominciò a insegnare Lettere a tempo pieno presso il Parkland Community College. Il padre talvolta restava a casa per lavorare a un libro, altrimenti Wallace trovava la chiave sotto lo zerbino. La lettura riempiva le sue ore. David divorò la serie degli Hardy Boys, Il mago di Oz e Old Mother West Wind di Thornton Burgess. Prediligeva le storie d’avventura e i fantasy, viveva nel mondo di fantasia tipico di un ragazzo della sua età; la tensione del viaggio che portava dal pericolo al trionfo lo affascinava. Studiava libri sugli squali memorizzando date e siti degli attacchi. Lesse e rilesse un libro intitolato Bertie Comes Through, che raccontava la storia di un adolescente impacciato deciso a non mollare mai («“Almeno ci sto provando”, si disse Bertie»). In prima media, all’età di dodici anni, diede il suo contributo affinché la sua scuola si qualificasse per il campionato della Battaglia dei Libri – «gare interscolastiche ortograficamente ossessionanti sui livelli di lettura e memorizzazione», nella trasposizione letteraria che ne diede in Infinite Jest. Una fotografia di Dave apparve sul quotidiano locale, lo immortalava con la mano alzata mentre si faceva sotto con una domanda. Ritroviamo poi il suo nome quello stesso anno, quando una sua poesia su Boneyard Creek, un vecchio canale d’irrigazione che scorreva dietro la biblioteca cittadina, si aggiudicò il primo premio a pari merito:
Sapevate che laggiú si riproducono i ratti
Per la vita nel pattume vanno matti.
Gli valse cinquanta dollari. Wallace lesse Dune, il noto e vasto romanzo di fantascienza, i testi comici di P. G. Wodehouse e vide molti film al cinema, compreso ovviamente Lo squalo, che suggellò il suo terrore per quel genere di creature. Quando fu piú grandicello si imbatté in Oltre il giardino con Peter Sellers, che guardò molte altre volte: il ritratto di un uomo che impara tutto ciò che sa dalla televisione lo affascinava. Un sabato pomeriggio al mese Sally accompagnava i figli in una delle sale cinematografiche del centro di Urbana o Champaign e li lasciava lí, soli, perché vedessero ciò che desideravano; nel caso si trattasse di pellicole vietate ai minori, metteva loro in mano un permesso scritto affinché non incontrassero problemi.
E infine, la televisione. La famiglia guardava Mary Tyler Moore, Arcibaldo e M*A*S*H. Jim e Sally credevano fermamente nella responsabilizzazione e nell’autonomia individuale, perciò quando David compí dodici anni ricevette il suo apparecchio privato in bianco e nero. A Champaign-Urbana si ricevevano solo quattro canali (tre network nazionali, uno della televisione pubblica) ma ciononostante David restava seduto per ore sul divano verde e scricchiolante di camera sua e divorava le repliche di Gli eroi di Hogan, Star Trek, Mistero in galleria e Kolchak: The Night Stalker. Gli piacevano anche i cartoni animati del sabato mattina e Creature Features, la serie horror in onda il sabato sera, e talmente spaventosa da convincerlo a portarsi a letto il televisore. Seguiva anche le soap opera – la prediletta era Sentieri e i telequiz, come Ok, il prezzo è giusto! L’ascendente che la televisione esercitava su di lui arrivò a preoccupare i genitori, e negli ultimi anni di vita Wallace ammise che la Tv aveva avuto una grande influenza nel corso della sua infanzia; fu un fattore determinante nella sua «esperienza schizogenica della crescita», come poi la descrisse in un’intervista rilasciata attorno ai trent’anni: «Da una parte la passione per i libri e la lettura, dall’altra una quantità grottesca di Tv». E aggiungeva: «Siccome mi piaceva leggere, forse non guardavo tanta Tv quanta ne guardavano i miei amici, ma comunque mi concedevo delle megadosi giornaliere, credimi»2.
A casa Wallace la violenza era bandita – gli unici film e programmi televisivi che i genitori vietavano ai figli erano, per l’appunto, quelli violenti – tuttavia David sapeva essere cattivo. L’oggetto privilegiato delle sue angherie era la sorella. Quando Amy aveva tre anni, David le fece saltare un dente in quello che, negli annali di famiglia, è ricordato come il fattaccio del tiro alla fune. In terza media, dopo una lite, David si accaní a tal punto contro la sorella che, fattala cadere, la trascinò per il cortile, sugli escrementi del cane di famiglia. Per comprarne il silenzio, poi, le regalò l’amata Motobécane, la bicicletta guadagnata con mesi di lavoretti di giardinaggio3. Per giustificare l’accaduto, Wallace s’inventò una storia intricatissima cui i genitori non credettero mai. E perseverò nel tormentare impietosamente Amy anche durante l’adolescenza: le rinfacciava di essere brutta o grassa; si scansava con fare teatrale quando la vedeva venirgli incontro in corridoio; si esibiva in una smorfia se la sentiva chiedere una seconda porzione a tavola.
Tali meschinità spiccavano, per contrasto, nel contesto della quotidianità di David. I compagni di classe ricordano infatti un ragazzo allegro, benvoluto, divertente, posizionato nella fascia medio-alta, in quanto a risultati, della popolazione studentesca. Sotto il profilo fisico, invece, Wallace si vedeva insignificante, poco attraente. Si ostinava a credere vere cose che non lo erano. Negli ultimi anni di vita dichiarò che in gioventú le sue doti atletiche erano state formidabili; insomma era stato, parole sue, «veramente forte, da ragazzino, veramente bravo», ma in realtà non era molto portato per lo sport. Non giocava a football nelle partitelle con gli amici dopo la scuola, e la sua inettitudine nel basket era risaputa; era sgraziato, e se doveva prendere un tiro, prediligeva il gancio per evitare ogni contatto con l’avversario. Di notte, a letto, rimuginava sui difetti del proprio corpo. In seguito, in un appunto scrisse:
Piedi troppo gracili e stretti e dita dalla forma strana, caviglie troppo esili, polpacci poco muscolosi; cosce repulsivamente cicciute in posizione seduta; pisello piccolo, e se non troppo piccolo in termini di lunghezza, piccolo in termini di circonferenza.
Come poi ammise, anziché contare le pecore, si addormentava enumerando i propri difetti. Sudava molto, e la cosa lo metteva a disagio. Ma si distinse sempre per una spiccata forza di volontà – David comes through, «David ce la fa» – e difatti in quarta elementare entrò nella Meadow Gold Diary, una squadra di baseball della Little League passata alla storia come pessima. All’età di undici o dodici anni riuscí a conquistare un posto in una squadra di flag football, avvicinandosi cosí alla disciplina piú popolare della regione. Gli sport erano una moneta di scambio, persino nella realtà protetta della Brookens Junior, dove Wallace frequentò le scuole medie dopo la Yankee Ridge. Nel...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi
  3. Capitolo 1 - «Puoi chiamarmi Dave»
  4. Capitolo 2 - Il vero «Waller»
  5. Capitolo 3 - Verso Occidente!
  6. Capitolo 4 - Nella casa stregata
  7. Capitolo 5 - «Ti prego non darmi per spacciato»
  8. Capitolo 6 - «Non-solo e non-stressato»
  9. Capitolo 7 - Boati e sibili
  10. Capitolo 8 - Il re pallido
  11. Ringraziamenti
  12. Nota del traduttore
  13. Nota dell’autore
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright