Hannah e le altre
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Hannah e le altre

  1. 168 pagine
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Hannah e le altre

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È questo un libro sulla differenza femminile. Simone, Rachel, Hannah sono tre donne, diversamente grandi, che con il loro sguardo hanno illuminato le tenebre del Novecento e hanno saputo leggere il mondo.
Tutte e tre hanno vissuto gli stessi anni di guerre, totalitarismi e barbarie. Hanno affrontato le tempeste e i momenti piú bui senza mai sottrarsi alla riflessione, all'impegno e alla ribellione. Simone e Rachel si sono sfiorate, Rachel e Hannah appena incontrate, eppure un forte quanto esile filo rosso ha intessuto la trama dei loro destini. Tutte e tre si sono confrontate con i grandi temi della violenza e del potere, ognuna secondo la propria indole e mettendo in campo la propria biografia. Simone, Rachel, Hannah hanno scritto e trattato i propri testi come se fossero sogni, scritture della mente e del cuore, personalissime elaborazioni dell'atto di vivere che tratteggiano una strada verso l'esistenza. E sono arrivate a toccare la materia pulsante della vita.
Simone Weil, la piú «strana» del gruppo, né brutta né bella, insolente e tenera, ardita e timida insieme. Fin da bambina si esercita al sacrificio, al digiuno e rifiuta i privilegi della sua classe. Non prende piú lo zucchero quando sa che scarseggia per la povera gente, non porta le calze d'inverno, perché non tutti ce l'hanno. È intransigente e radicale, a costo di apparire ridicola. Ha una sincera aspirazione di giustizia. Ha bisogno di verità, un bisogno fanatico. Muore il 24 agosto del 1943, a soli trentaquattro anni, nel sanatorio di Ashford.
Rachel Bespaloff è la piú misteriosa, la piú segreta, sfuggente e riservata. Non ha titoli accademici, è priva di riconoscimenti, se non all'interno di una cerchia di filosofi di cui si sente sorella e amica. Tutto in lei è obliquo. Rachel è straniera, nomade, autodidatta. È una donna di una bellezza patetica che suona benissimo il pianoforte, si nutre di libri e scrive continuamente, in controcanto. Perché di tutto quello che accade attorno a lei e di tutto ciò che legge si sente chiamata a rispondere. Muore suicida nell'aprile del 1949.
Hannah Arendt è la piú conosciuta delle tre. Forse la piú forte, certo la piú fortunata. Sfrontata e, a volte, arrogante in pubblico, in privato è gentile e attenta. Fedele e profonda nell'amicizia. Scrive e riflette sempre a voce e testa alta.
Delle voci di queste tre donne Nadia Fusini si fa cassa di risonanza, restituendocene, con intelligente vicinanza, le storie, il pensiero, la vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858408452

Hannah

Il «metaxú».
Una figura poetica che ritorna negli scritti di Simone Weil è quella del metaxú, ovvero del mediatore – una specie di ministro che favorisce l’incontro, un demone mezzano attivo nel tessere rapporti fra cielo e terra, luce e ombra, carne e spirito, lontano e vicino... Ecco, i legami, i vincoli tra le «mie» donne si stringono anche cosí, a volte per onde larghe, larghissime, che appena si sfiorano, ma ne escono echi e riverberi importanti da cogliere.
A volte, il metaxú è una persona reale, come la scrittrice americana Mary McCarthy, la quale non solo traduce in inglese il saggio sull’Iliade di Simone Weil, e quello di Rachel Bespaloff, ma ci offre il ritratto piú profondo della terza e ultima donna, che ora compare.
È grazie al suo sguardo che «vedo» Hannah a New York, al Murray Hill Bar di Manhattan, nel 1944. Mary è sposata a Edmund Wilson e incontra Hannah insieme a un amico, l’intellettuale Clement Greenberg, il cui fratello Martin lavora presso lo stesso editore per cui lavora Hannah. Hannah è arrivata da tre anni, non è ancora chi piú tardi diventerà, una «firma», un «nome»; ma subito colpisce Mary, quasi fosse la testimone di un sapere profondo e antico – la cultura europea, cui la «new woman» americana tributa la sua dose di mistico, e per quanto ingenuo, autentico fervore. Emana da lei un’autorevolezza intellettuale, che Mary non conosce tra le donne, pur formidabili, che frequenta, ma riconosce alla «fanciulla straniera» – come Hannah stessa si definirà riprendendo l’immagine della poesia di Schiller, Das Mädchen aus der Fremde.
È «elettrica» la sua vitalità, «pungente» la sua ironia, quel particolarissimo «wit» – che sconfina nell’arroganza, ma non la offende, né la sgomenta; anzi, la riempie di incanto, di meraviglia. Non vi sono che pochi anni di differenza tra le due donne – Mary è nata a Seattle nel 1912, Hannah a Hannover nel 1906 – ma ben presto Mary le tributerà un rispetto da «maestra», intuendo il suo animo «socratico».
Si badi bene, però: non è affatto una giovane donna remissiva, Mary; e altrettanto sicura di sé è Hannah. E proprio all’inizio il contatto emana scintille. Per un’infelice battuta di Mary, che con esagerato, forse, humour nero compiange il «povero Hitler» il quale, bontà sua, vorrebbe che le vittime – in questo caso i cittadini francesi occupati – amassero i loro occupanti tedeschi, Hannah scatta, le si rivolta contro: ma come si fa a dire una cosa cosí di fronte a lei, che è stata «in un campo di concentramento!» Mary si scusa, ma Hannah è irremovibile, lí per lí. La perdonerà qualche tempo dopo, confessando che sí, certo Mary è stata «leggera», ma anche lei ha barato: non era che un campo d’internamento, quello in cui s’era trovata a Parigi. E da allora, l’amicizia tra le due donne fiorisce.
È bella, Hannah: riservata, distante, i tratti del volto cosí distinti, nobili, intenso lo sguardo – una luce negli occhi in cui Mary coglie il riflesso ammaliante di un equilibrio interiore perfetto, una forma di gravità, che non esclude la leggerezza. E non è affatto superbia, il suo distacco, come molti sbagliando credono; Hannah è umile. Hannah ama il mondo, ha semmai un vero e proprio genio dell’amicizia. Ma cosí come l’intende lei, l’amicizia non è necessariamente intimità, è piuttosto il sentimento oggettivo di «fare un pezzo di strada insieme». Nel pensiero, naturalmente. Questo Mary subito comprende, e subito l’ama: perché scopre con l’amica una dimensione del pensiero che non tramuta in ideologia, ma si fa vita. Gli intellettuali americani che ha finora frequentato – bisogna dire tra i migliori, che scrivono per la «Partisan Review» – incarnano un’idea settaria del pensiero politico; mentre con Hannah una differente dimensione le si schiude – il pensiero come cura, cura e riguardo e attenzione, amore del mondo. Pensare, le insegna Hannah, è come costruire una casa, come occuparsi di un terreno da coltivare, è il tentativo di «umanizzare» il carattere selvaggio dell’esperienza.
Con una parola yiddish, tra gli stessi suoi amici v’era chi definiva Hannah «chutzpah». Non era sbagliato, se si tiene conto dei significati che dall’yiddish trapassano nella lingua inglese, dove quel termine riprende tutte le ambiguità della sua incarnazione linguistica originaria, esprimendo tra le altre sfumature la sincera ammirazione che si prova di fronte a qualcuno di tanto audacemente non conformista, da dare l’impressione della presunzione e dell’arroganza. Ecco, Hannah era cosí.
«Das Mädchen aus der Fremde».
Hannah era arrivata a New York nell’aprile 1941. Insieme con la madre, e con Heinrich Blücher, che aveva sposato nel gennaio 1940 a Parigi. Avevano fra tutti e due cinquanta dollari in tasca. All’inizio abitarono sulla Novantacinquesima Strada Ovest, in un appartamento poverissimo. Per la madre affittarono nella stessa casa una stanza a parte.
La «fanciulla straniera» non si perse d’animo. Imparò l’inglese, si mise in contatto con le organizzazioni sioniste, già a novembre scriveva su «Aufbau», un giornale in lingua tedesca, e subito dopo sulla «Partisan Review», ai tempi una rivista di punta negli Stati Uniti. Conoscerà cosí William Phillips e Philip Rahv, Robert Lowell e, per l’appunto, Mary McCarthy. In breve diventò capo ricercatrice per la Commission on European Jewish Cultural Reconstruction. Nel suo piccolo ufficio a Columbus Circle, Alfred Kazin, tra i piú noti intellettuali di sinistra americani, la andava spesso a trovare, e la descrive raggiante per le nuove esperienze. Piena di fervore gli raccontava di Kafka, di come Kafka fosse molto piú grande di Thomas Mann. Kazin era incantato dalla sua enorme cultura e dalla sua inesauribile curiosità intellettuale. Di come si appassionasse nel discutere di Platone, di Kant, di Nietzsche e Duns Scoto, quasi fossero lí nella stanza con lei. Di quanta voglia avesse di capire la nuova patria, e la letteratura e la poesia in lingua inglese.
Nell’estate del 1949 – intanto la madre era morta – lei e Blücher comprarono una casa sulla Morningside Drive, al confine con Harlem. Non lontano da dove aveva abitato Simone, nei suoi mesi americani. Sulla parete d’ingresso appese un’enorme fotografia di Kafka. Era il suo nume tutelare, la illuminava. Hannah gli era grata.
Chi la conobbe in quegli anni la ricorda come una donna affascinante, ricca di temperamento. Sapeva essere tenera e spiritosa, e insieme feroce. C’è chi la descrive come un uccello, non si sa se da preda, o canoro. Ha un modo di guardare intenso, fino a risultare imbarazzante. Nella forza suggestiva del suo sguardo c’è chi si perde, e teme di non riemergerne piú. Dà nell’occhio, ha un’aria stravagante, ha tagliato i capelli all’ultima moda, alla maschietta, e fuma grandi sigari con una certa strafottenza.
In pubblico poteva comportarsi con arroganza, in modo sfrontato. In privato era diversa, gentile, attenta. Ma teorizzava che dovesse essere cosí: il tono, diceva, è la persona. E nell’arena pubblica si doveva lottare per ciò che è giusto. Senza riguardo per nessuno, solo per le idee. Soltanto provocando e lasciandosi provocare, senza inutili cortesie, senza false simpatie, si poteva far nascere la verità. Usava spesso una metafora, «denken ohne Geländer», diceva: lei pensava cosí, senza la balaustra che protegge dal cadere.
La sua libertà e la sua solitudine colpirono in modo irresistibile poeti come Robert Lowell e Randall Jarrell. E Wystan H. Auden. Tanto che l’appartamento di Morningside Drive diventò «una vera e propria calamita» per molti intellettuali e poeti, per lo piú profughi. In verità ad Hannah non piaceva quel termine, refugee, con cui veniva accolto chi arrivava in fuga dall’Europa. Era una definizione che le stava stretta. Perché lei non era stata espulsa per aver agito in un certo modo o per aver sostenuto una certa idea politica… Lei era partita di sua spontanea volontà, perché voleva vivere, voleva un futuro.
Ma ora il significato di quella parola – refugee – era cambiato; sí che erano «profughi» tutti coloro che arrivavano in un paese senza mezzi. E questo perché dal 1938, da quando Hitler aveva invaso l’Austria, tutto era cambiato.
Non è chiaro se Hannah avesse o meno letto i Blues del profugo, che Auden aveva scritto poche settimane dopo essere sbarcato a New York, e pubblicò nell’aprile del 1939, con quello splendido attacco:
Diciamo che questa città ha dieci milioni d’anime,
alcune vivono in palazzi, altre in tuguri:
ma per noi non c’è posto, cara mia, per noi non c’è posto
In realtà, sia Hannah sia Auden troveranno casa a New York e l’ameranno, quella città diversa da ogni altra e cosí poco americana... Ma non possono nascondersi che sono «senza paese», l’hanno perduto. Come hanno perduto il passaporto, e «senza passaporto si è ufficialmente morti»... Né possono dimenticare quel terrore che si diffonde intorno al profugo, quel sospetto che «se li facciamo entrare, ci fregano il pane quotidiano»...
Forse anche per questo al termine «profugo», Hannah preferiva «nuovo arrivato», «immigrato». Riconosceva comunque che non era facile definire quel genere di esseri umani che erano loro; e cioè, esseri umani che l’antisemitismo aveva trasformato da «uomini» in «ebrei»; ammassati prima dai loro nemici in campi di concentramento, isolati poi dai loro amici in campi di internamento. Ebrei a Berlino; a Parigi boches, e cioè «crucchi» – che era il termine dispregiativo con cui ci si riferiva ai tedeschi. «Prisonniers volontaires» in Francia, dove erano prima stati imprigionati perché tedeschi, poi non rilasciati perché ebrei. Come facevano a sapere chi erano, questi Ulissi erranti?
Non che in America non fosse trattata con rispetto. Anzi, Hannah era diventata addirittura blandamente ottimista… Ma riconosceva che molti profughi avevano un modo stravagante, inatteso di usare i grattacieli, o i rubinetti del gas, e un modo silenzioso, discreto di scomparire. Come, per l’appunto, Rachel.
Hannah non ha certo nessuna intenzione di uccidersi. Né è disposta a subire l’umiliazione che s’impone a chi voglia vivere. Osserva implacabile nell’analisi:
Ci sentiamo umiliati, se veniamo salvati, e se veniamo aiutati ci sentiamo degradati […] Lottiamo come folli per avere esistenze private con destini individuali, perché abbiamo paura di rientrare nella sventurata moltitudine di Schnorrer – di girovaghi, mendicanti.
Quasi che in quella figura si addensi il simbolo inevitabile, fatale, del destino ebraico.
Hannah e Jean.
Un fondamentale metaxú nell’esistenza delle «mie» tre donne è Jean Wahl, il quale quasi fosse un mezzano favorisce l’incontro mentale tra Simone e Rachel e quello fisico tra Hannah e Rachel. Hannah aveva conosciuto Jean Wahl a Parigi negli anni Trenta. Ora, nel 1944, sarà lui a invitarla ai Colloques di Pontigny-en-Amérique. Ma che cosa sono questi colloqui? E che cos’è Pontigny? E dove precisamente in America si trova Pontigny?
Pontigny è un’abbazia cistercense in Borgogna, dove all’inizio del Novecento Paul Desjardins, un umanista dai gusti medievali, una specie di William Morris francese, progettò la resurrezione del Liceo aristotelico, o dell’Accademia platonica. «Pour une décade», e cioè per dieci giorni, intellettuali, artisti e scrittori si sarebbero incontrati per discutere di importanti questioni esistenziali e teoriche, quali il rapporto dell’uomo con il tempo, il male, il destino della civiltà...
Erano décades insieme nostalgiche e profetiche, visionarie, e se in esse la filosofia era la disciplina sovrana, i temi piú dibattuti erano però quelli legati all’arte. Desjardins era uno squisito letterato, che aveva conosciuto Proust da bambino e Proust lo citava nel suo romanzo. E di fatto gli scrittori, all’inizio, erano in netta prevalenza a Pontigny, e davano alle giornate un tono speciale, artistico. Piú avanti nel tempo verranno autori come Camus, Sartre, Aron, i quali introdurranno un tono piú politico; ma prima di loro erano stati ospiti la pittrice Dora Carrington, il critico d’arte Roger Fry, invitati da Charles Mauron, che diventò molto amico di Virginia Woolf e del gruppo di Bloomsbury. Era venuto Lytton Strachey, il quale, abituato ai college di Cambridge, santuari del privilegio, commentò con un certo disappunto che le celle dell’abbazia erano davvero monacali. Sacrosanta verità: la conversazione era sofisticata, ma l’accoglienza assai spartana.
Intorno agli anni Trenta, gli incontri misero a tema questioni assai gravi, pressanti, quasi che la cronaca dell’urgenza politica dettasse il passo, togliendo respiro al pensiero, sempre in cerca della pausa, rispetto al tempo incalzante della Storia. C’è una foto che lo dice con semplicità: è quella scattata da Gisèle Freund nell’estate del 1938, in cui Walter Benjamin, fermo sulla sponda del fiume che lí scorre, fissa intensamente una margheritina, che ha in mano. Una margheritina innocente, con la quale forse gioca – m’ama, non m’ama. Come l’avesse colto nell’attimo della calma sospesa, appena prima dell’esplosione, la foto riverbera una particolare intensità. Ha, si direbbe in inglese, momentum. Impeto, slancio, velocità – il tutto raccolto in un’istantanea.
In agosto a Pontigny quell’anno si discusse De l’unité de la philosophie, in settembre De la vocation sociale de l’Art dans les époques de trouble mental et de désespoir. L’anno seguente, il 1939, si prese a tema il destino. Avrebbe dovuto coordinare le giornate Jean Wahl, ma già avvertendo gli inquietanti segnali che vibravano nell’aria, declinò l’offerta, e diresse l’incontro Gaston Bachelard. La décade fu interrotta il 1º settembre, con l’invasione della Polonia. L’anno seguente i nazisti sfondarono la linea Maginot e occuparono l’abbazia. Cosí finirono i colloqui di Pontigny. Almeno, per qualche tempo.
Fino a quando, nella primavera del 1942, Pontigny risorse sull’altra sponda dell’Atlantico. A New York, dove molti degli originari partecipanti ai seminari in Francia erano giunti in esilio – un esilio che è un privilegio e una fortuna, di cui non tutti riescono a godere, non Walter Benjamin, ad esempio; proprio a New York si riprese a tessere il filo di quelle giornate. Fu straordinaria l’accoglienza che, in presenza della grande migrazione di intellettuali europei, la città seppe offrire a chi arrivava con il peso tremendo della persecuzione sulle spalle. A Jacques Maritain e Gustave Cohen si aprirono le porte delle migliori istituzioni accademiche; a Rachel Bespaloff quelle di Radio France, a Jacques Schiffrin quelle dell’editoria, ad Hannah Arendt quelle di istituti di ricerca, a Günther Stern del giornalismo. Claude Lévi-Strauss, Marc Chagall, Roman Jakobson si legarono all’École Libre des Hautes Études, che era la sezione francese della New School for Social Research.
Tra gli esuli era forte il bisogno di pensare; il momento era in effetti grave. C’era bisogno di un laboratorio, una palestra, dove esercitarsi a cogliere e orientare lo spirito del tempo e a forgiare per sé e per gli altri uno stato d’animo, che non fosse di disperazione, di rimpianto. Sarebbe stato facile abbandonarsi alla rassegnazione, o lasciarsi travolgere dall’oblio, dimenticare. Invece, per lo piú questi refugees, come venivano chiamati in America, dimostrarono una forza d’animo e mentale straordinaria, dove si mescolavano razionalismo e spiritualismo, cosmopolitismo e spirito repubblicano, umanesimo letterario e internazionalismo scientifico, progressivismo sociale e pacifismo politico. E se questo accadde, è perché non smisero mai di «pensare» e a tal fine ripresero le conversazioni di Pontigny, questa volta per l’appunto en Amérique.
Qui entrò in gioco il college di Mount Holyoke, il piú antico college femminile del paese, con una sua tradizione internazionale e missionaria, secondo l’impronta di chi l’aveva fondato, e cioè Mary Lyon, una pioniera dell’istruzione delle donne. Per via dell’originaria impronta monosessuale dell’istituzione, il genius loci vibrava di un timbro monastico, mentre il paesaggio rurale, i laghi e le cascate e il giardino botanico disegnavano il giusto sfondo meditativo. La città piú vicina era South Hadley, Massachusetts. Non erano lontane Amherst e Northampton. Negli anni Quaranta dell’Ottocento aveva frequentato il college Emily Dickinson, e questo aveva lasciato nell’aria un’impronta esclusiva, speciale.
Il frutto di un sogno.
Le cose andarono cosí: in questo college insegnava da tempo una professoressa di francese che si chiamava Helen Patch, la quale era stata allieva di Gustave Cohen alla Sorbona. Fu a lei che venne a un certo punto l’idea di istituire un corso estivo di studi avanzati di cultura francese. L’ambizione era modesta, semplicemente pedagogica. Helen Patch voleva creare uno spazio educativo per gli studenti già laureati, a cui invitare i colleghi delle università vicine, il gruppo delle cosiddette «Seven Sisters».
Ora, capitava che Gustave Cohen, espulso dalla Francia dopo le leggi antisemite adottate dal governo di Vichy, fosse emigrato a New York e come Jacques Maritain e Henri Focillon, anche loro espatriati, insegnasse all’École Libre, che era nata un mese dopo l’ent...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Hannah e le altre
  3. Tre donne intorno al cor mi sono venute
  4. Simone - A parte
  5. Rachel - A parte
  6. Hannah - A parte
  7. Amicizie stellari
  8. Libri amici
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Copyright