Il senso di una fine
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Il senso di una fine

  1. 160 pagine
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Il senso di una fine

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Tony Webster è un uomo senza qualità. Negli studi e nel lavoro, nei sentimenti e, c'è da scommetterci, anche nel sesso. Ma la lettera con cui un avvocato gli annuncia il lascito di cinquecento sterline e di un diario proveniente dal passato scuote il fondo limaccioso della sua esistenza. Tony deve ora scoprire chi gli ha destinato quell'ingombrante eredità e perché ha scelto proprio lui, e quale segreto rabbiosamente custodito quel diario potrebbe rivelare. Nel porsi queste domande, s'imbatterà in risposte che avrebbe preferito non conoscere e dovrà imparare a sue spese che «la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato». La vita di Tony Webster è stata un fiume relativamente tranquillo, da costeggiare al riparo di scelte ragionevoli e sistematici oblii. Ora però la lettera di un avvocato che gli annuncia un'inattesa quanto enigmatica eredità sommuove il termitaio poroso del passato, e il tempo irrompe nella noia del presente sotto forma di parole risalenti all'adolescenza, quando Tony procedeva all'educazione morale, sentimentale e sessuale che ne avrebbe fatto, inavvertitamente come spesso accade, l'adulto che è.
Il percorso a ritroso nelle zone d'ombra della vita, con i suoi dolori inesplorati e i suoi segreti, diventa cosí riflessione sulla fallacia della storia, «quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione», secondo il geniale amico dei tempi del liceo, Adrian Finn. Ed è dunque a quel punto di congiunzione, ai ricordi imperfetti come ai documenti inadeguati, che il vecchio Tony deve ora guardare per comprendere le vicissitudini del Tony giovane. Come ha potuto la ragazza di allora, Veronica Ford, preferirgli l'amico raffinato e brillante, Adrian? Ci sono solo Camus e Wittgenstein dietro l'estrema decisione di Adrian? Da che cosa ha voluto metterlo in guardia tanti anni prima la madre della ragazza? Perché a distanza di quarant'anni Veronica ritorna nella sua vita con un bagaglio di silenzi e il rifiuto di dargli ciò che è suo?
Gli indizi da studiare tessono un filo d'Arianna di reminiscenze inaffidabili, ipotesi errate e parole d'ordine ribadite; di fatti, nomi e immagini giustapposti a intuizioni filosofiche e rivelazioni poetiche; di un corpus di parole interne al testo - lettere, e-mail, pagine di diario - ed esterne a esso, nella forma di rimandi espliciti o piú spesso impliciti al sapere che puntella l'assunto ideale del romanzo: da Stefan Zweig a Philip Larkin (il «poe-ta» senza nome cui il narratore piú volte si richiama), dall'immaginario Patrick Lagrange al Flaubert di Madame Bovary (significativamente citato nel modo quasi-esatto che la memoria consente) fino a Frank Kermode, con il cui testo chiave questo romanzo condivide il titolo, l'insistenza sul ruolo del tempo e il proposito di «dare un senso al modo in cui diamo un senso al mondo».
Tempo e memoria. Con quelli si entra nel libro, attraverso la lista di flashback che il tempo ha cristallizzato in immagini. La memoria di Tony Webster predilige ricordi d'acqua, nel cui fluire controcorrente passa il racconto della sua sommersa inquietudine. *** «Esiste dunque una sorta di ultima giustizia se il prestigioso premio che è sfuggito a Julian Barnes per romanzi come Il pappagallo di Flaubert e Arthur e George gli è finalmente riconosciuto per questo piccolo gioiello di concisione ed esattezza». «Los Angeles Times»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
ISBN
9788858406014

Due

Con l’andare degli anni, ti aspetteresti un po’ di riposo, no? Sei convinto di meritartelo. Io lo pensavo, almeno. Poi però cominci a capire che la vita non promuove per merito.
Un’altra cosa: da giovane credi di saper prevedere probabili angosce e dolori della vecchiaia. Ti immagini solo, divorziato, vedovo; coi figli cresciuti che se ne vanno, gli amici che muoiono. Immagini che perderai prestigio, desiderio e desiderabilità. Puoi spingerti oltre e considerare l’avvicinarsi della tua stessa morte che, a dispetto di qualunque compagnia tu riesca a radunarti intorno, dovrai comunque affrontare da solo. Ma tutto questo ha a che fare con il guardare avanti. Quello che ti è impossibile è guardare avanti e immaginare te stesso che guarda indietro dal punto che avrai raggiunto nel futuro. Conoscere le emozioni nuove portate dal tempo. Scoprire, ad esempio, che con il ridursi del numero di testimoni della tua esistenza tende a diminuire l’avvaloramento, e di conseguenza la certezza, di ciò che sei o sei stato. Se anche hai documentato ogni cosa in modo sistematico, in forma di immagini, suoni, parole, puoi d’improvviso scoprire di aver sbagliato le modalità di registrazione dei fatti. Com’era la battuta di Adrian? «La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione».
Leggo ancora parecchia storia e, va da sé, mi sono tenuto al corrente sui grandi eventi contemporanei alla mia vita: la caduta del Comunismo, la signora Thatcher, l’11 settembre, il riscaldamento globale. L’ho fatto con il normale miscuglio di ansia, paura e cauto ottimismo. Ma senza mai riuscire a considerarli con la stessa fiduciosa sicurezza con la quale guardo ai fatti di storia greca e romana, o dell’Impero britannico, o della Rivoluzione sovietica. Può darsi che mi senta piú tranquillo con la storia sulla quale si è ormai grossomodo raggiunto un accordo. O forse si tratta ancora una volta del vecchio paradosso: la storia che ci succede sotto il naso dovrebbe essere per noi la piú chiara, e invece risulta la piú deliquescente. Viviamo nel tempo, il tempo ci definisce e ci vincola e dovrebbe anche essere misura della storia, no? Ma se non riusciamo a comprenderlo, se non ne afferriamo il mistero in termini di andamento e decorso, che speranze possiamo avere con la storia, perfino con il marginale frammento della nostra personale, peraltro assai poco documentata?
Quando si è giovani, chiunque superi i trent’anni ci sembra di mezza età, chiunque superi i cinquanta, decrepito. E il passare del tempo ci conferma che non sbagliavamo di molto. Le piccole differenze d’età, cosí significative e palesi da giovani, perdono rilevanza. Si finisce con l’appartenere alla stessa grande famiglia, quella dei non-piú-giovani. Personalmente non ci ho mai badato granché.
Esistono tuttavia alcune eccezioni alla regola. Per qualcuno le differenze temporali sancite in gioventú non spariscono mai completamente: i maggiori d’età restano tali, anche quando si è ormai tutti dei vecchi bavosi. Per certa gente, una differenza di, che so, cinque mesi, significa che uno dei due continuerà a ritenersi perversamente piú saggio ed esperto dell’altro o dell’altra, a dispetto di qualunque prova contraria. O dovrei forse dire a causa di prove contrarie. Proprio perché risulta del tutto ovvio a qualsiasi osservatore obiettivo che l’equilibrio si è spostato in favore dell’individuo irrisoriamente piú giovane, l’altro rivendica la propria presunta superiorità con rigore ancor piú draconiano. Ancor piú nevrotico.
Dvořák lo ascolto ancora parecchio, a proposito. Non tanto le sinfonie, oggi preferisco i quartetti per archi. Čajkovskij in compenso ha seguito l’iter di certi geni che conquistano in gioventú, conservano un discreto fascino con l’età matura, ma piú avanti sembrano perdere valore, se non suscitare perfino imbarazzo. Non voglio dire che avesse ragione lei. Non c’è niente di male a essere un genio che sa conquistare i giovani. Al contrario, c’è qualcosa che non va in un giovane che non sa lasciarsi conquistare dal genio. Per inciso, non credo che la colonna sonora di Un uomo, una donna sia un’opera di genio. Non lo credevo nemmeno allora. D’altra parte, ogni tanto ripenso a Ted Hughes e sorrido del fatto che la scorta di animali non l’ha mai esaurita, in effetti.
Con Susie vado d’accordo. Abbastanza, comunque. È solo che la nuova generazione non sente piú il bisogno, e nemmeno il dovere, di mantenersi in contatto. Almeno non di «mantenersi in contatto» nel senso di «vedersi». Per papà basta una mail; peccato che non abbia imparato a gestire gli sms. Sí, è in pensione ormai, continua a trafficare con quei suoi misteriosi «progetti», dubito che concluderà mai qualcosa, ma si tiene il cervello occupato, sempre meglio del golf e, ah, sí, avevamo pensato di fare un salto a trovarlo la settimana scorsa, ma poi abbiamo avuto un imprevisto. Spero solo che non gli venga l’Alzheimer, è il mio cruccio piú grande perché, sí, insomma, è poco probabile che la mamma se lo riprenda, mi spiego? No, sto esagerando, do un’immagine sbagliata. Susie non la pensa cosí, sono sicuro. Abitando da soli può capitare di cedere al vittimismo, alla paranoia. Susie e io andiamo d’accordo, sul serio.
Una nostra amica – continuo istintivamente a usare il possessivo plurale sebbene io e Margaret siamo ormai divorziati da un tempo piú lungo del nostro matrimonio –, una nostra amica, dicevo, aveva un figlio che suonava in un gruppo punk rock. Le chiesi se avesse mai sentito qualche loro brano. Ne nominò uno dal titolo Ogni giorno è domenica. Ricordo di avere riso con sollievo al pensiero che la stessa noia adolescenziale di allora si sia tramandata di generazione in generazione. E che si adotti la stessa arguzia sarcastica per tentare di uscirne. «Ogni giorno è domenica»: le parole mi riportarono agli anni della mia stagnazione, a quell’attesa terribile che la vita incominci. Domandai alla nostra amica i titoli di altre canzoni del gruppo. No, disse lei, è quella la loro canzone, l’unica. E come continua?, chiesi. In che senso? Beh, cosa dice dopo? Vedo che non capisci, eh?, disse. La canzone è quella. Si ripete sempre la stessa frase, piú e piú volte, finché la musica non decide di smettere. Ricordo di aver sorriso. «Ogni giorno è domenica»: non male per un epitaffio, no?
Era una di quelle buste bianche di formato lungo con il mio nome e indirizzo sotto una finestrella trasparente. Non so voi, ma io non ho mai fretta di aprirle. Una volta, lettere simili significavano un ulteriore stadio nel doloroso iter del mio divorzio, forse è per questo che continuo a guardarle con diffidenza. Oggi come oggi, possono contenere il rendiconto finanziario su quei quattro titoli a basso interesse che mi sono comprato con la liquidazione, o l’ennesima richiesta dell’associazione benefica che già sostengo tramite regolare bonifico bancario. Perciò me ne sono dimenticato fino a ore dopo, mentre raccoglievo tutta la cartastraccia in giro per la casa, per riciclarla fino all’ultima busta. Conteneva la lettera di uno studio legale di cui non avevo mai sentito parlare, degli avvocati Coyle, Innes & Black. Una certa Eleanor Marriott mi scriveva «A proposito del patrimonio di Mrs Sarah Ford (deceduta)». Ci ho messo un po’ a fare mente locale.
Quanti luoghi comuni ci portiamo appresso con disinvoltura, dico bene? Ad esempio, che il ricordo corrisponda alla somma di evento piú tempo trascorso. E invece funziona in modo molto piú strano di cosí. Non so piú chi ha detto che il ricordo è ciò che pensavamo di aver dimenticato. Inoltre dovrebbe apparirci ovvio come il tempo per noi non agisca affatto da fissativo, ma piuttosto da solvente. Solo che credere questo non conviene, non serve; non aiuta a tirare avanti; perciò fingiamo di non saperlo.
Mi si chiedeva di confermare i dati della mia residenza e di fornire una fotocopia del passaporto. Mi si informava di essere stato indicato quale destinatario di un lascito di cinquecento sterline e due «documenti». Ho trovato il tutto assai sconcertante. Per prima cosa, ricevere un legato da qualcuno di cui non avevo mai conosciuto il nome, oppure non lo ricordavo. E poi, cinquecento sterline mi parevano una somma molto particolare. Piú cospicua di niente, non abbastanza cospicua per essere qualcosa. Forse ci avrei capito di piú scoprendo a quando risaliva la stesura del testamento di Mrs Ford. Anche se, qualora fosse passato parecchio tempo, la cifra avrebbe assunto un valore decisamente piú alto, e la storia sarebbe apparsa ancora piú assurda.
Ho dato conferma di essere vivo, di corrispondere ai dati e all’indirizzo del documento, e ho allegato le fotocopie necessarie ad avvalorarlo. Ho chiesto se potevo conoscere la data di stesura di quelle disposizioni. Infine, una sera, ho cercato con calma di riportare in vita l’umiliante weekend a Chislehurst di quarant’anni prima. Mi sono messo a caccia di qualsiasi episodio, incidente, commento che potesse apparirmi meritevole di un premio o una ricompensa. Purtroppo ogni giorno che passa la mia memoria diventa sempre di piú un meccanismo capace solo di ripetere dati apparentemente veritieri, con uno scarto di variazione minimo. Ho rovistato nei ricordi, ho atteso, ho cercato con l’astuzia di portare la memoria a seguire una pista diversa. Niente da fare. Restavo uno che per circa un anno era uscito con la figlia di Mrs Sarah Ford (deceduta), che aveva subíto l’atteggiamento paternalistico di suo marito, l’arrogante scrutinio del figlio e le manipolazioni della figlia. Una faccenda che al tempo mi aveva ferito ma che non avrei detto richiedesse uno strascico di scuse materne sotto forma di cinquecento sterline.
E comunque, il dolore è passato. Come ho detto, ho una certa attitudine all’autoconservazione. Ero riuscito a levarmi Veronica dalla testa, a esiliarla dalla mia storia. Perciò, quando il tempo mi ha traghettato, ahimè troppo presto, alla mezza età e ho cominciato a guardarmi indietro e a considerare la piega assunta dalla mia vita, sentieri non percorsi, l’intera congerie di debilitanti, nostalgici e se, non mi è capitato di immaginare come sarebbe potuta andare con Veronica, nemmeno supponendo il peggio e meno che mai il meglio. Con Annie, sí, con Veronica, no. Né ho recriminato sugli anni passati con Margaret, nonostante il divorzio. Per quanto mi sforzassi – e non ci riuscivo granché – raramente mi ritrovavo a fantasticare su un’esistenza segnatamente diversa da quella che è stata la mia. Non credo si tratti di rassegnazione; forse piú di una mancanza di fantasia, di pretese, chissà. Suppongo la verità sia che, sí, in effetti, non sono stato abbastanza eccentrico da non fare le cose che nella vita ho finito per fare.
Non ho letto subito la lettera dell’avvocato. Mi sono limitato per un poco a osservarne la busta allungata, color avorio, con il mio nome sopra. Una grafia che avevo visto una volta sola in vita mia, e che ciononostante mi risultava nota. Egr. Mr Anthony Webster – il modo in cui le parti delle lettere sopra e sotto il rigo terminavano con uno svolazzo mi ha portato a ricordare qualcuno che avevo conosciuto per il breve spazio di un weekend. Qualcuno la cui scrittura, nella baldanza piú ancora che nella ricercatezza mostrata, lasciava immaginare una donna «abbastanza eccentrica» da fare cose che io non avevo fatto. Quali, però, non mi era dato di sapere né di intuire. C’erano un paio di centimetri di nastro adesivo sul davanti della busta, in alto, centrati. Mi aspettavo che passasse sul retro per meglio sigillare il risvolto, e invece era stato tagliato lungo il margine. Probabilmente in origine la lettera era stata allegata a qualcos’altro.
Alla fine, l’ho aperta e ho letto: «Caro Tony, ritengo sia giusto che tu abbia quanto accluso a questa mia. Adrian ha sempre parlato di te con affetto e forse giudicherai queste cose un ricordo interessante, seppur doloroso, di tanto tempo fa. Ti lascio anche un po’ di denaro. Può darsi che trovi strano il mio gesto e, a essere sincera, nemmeno io so precisamente perché lo faccio. Voglio comunque chiederti scusa per come sei stato trattato dalla mia famiglia anni e anni addietro, e voglio augurarti ogni bene, anche se dall’altro mondo. Tua, Sarah Ford. PS Ti sembrerà strano, ma sono convinta che gli ultimi mesi della sua vita siano stati felici».
L’avvocato mi sollecitava a far pervenire le mie coordinate bancarie per procedere al versamento diretto del lascito. Allegava inoltre il primo dei due «documenti» a me destinati. Il secondo risultava tuttora in possesso della figlia di Mrs Ford. Ecco spiegato, pensai, il nastro adesivo reciso. Mrs Marriott si stava appunto occupando di recuperare l’altro materiale. Quanto alla mia richiesta riguardo alla data di stesura, il testamento di Mrs Ford risaliva a cinque anni prima.
Margaret diceva sempre che le donne si dividono in due categorie: quelle dai contorni chiari e le portatrici di mistero. Era la prima cosa che un uomo percepiva, la prima cosa ad attirarlo o respingerlo. Certi sono attratti da un tipo, certi dall’altro. Margaret – non occorre neppure che ve lo dica – era una donna dai contorni chiari, ma le capitava di diventare invidiosa delle portatrici, o spacciatrici, di un’aria di mistero.
– A me tu piaci come sei, – le dissi una volta.
– Ma ormai mi conosci cosí bene, – ribatté lei. Eravamo sposati da sei, sette anni. – Non mi preferiresti un po’ piú… enigmatica?
– Non vorrei che tu fossi una donna del mistero. Credo che lo detesterei. I casi sono due: o è solo una facciata, un trucco, una tattica per adescare gli uomini, oppure la donna del mistero è un mistero anche per se stessa, e non c’è niente di peggio.
– Tony, parli come un vero uomo di mondo.
– Beh, invece non lo sono, – dissi, ben consapevole che mi prendeva in giro, ovviamente. – Non ho conosciuto molte donne nella mia vita.
– «Non ne saprò molto di donne, ma so che cosa mi piace»?
– Non ho detto questo e non lo intendevo neppure. Credo però che sia proprio perché ne ho conosciute relativamente poche che so cosa penso di loro. E che cosa mi piace. Se ne avessi avute di piú, adesso sarei piú confuso.
Margaret disse: – A questo punto non so se devo sentirmi lusingata o no.
Tutto ciò accadeva prima che il nostro matrimonio naufragasse, naturalmente. Ma non sarebbe durato di piú, se Margaret fosse stata piú misteriosa. Posso assicurarlo a voi, come a lei.
Inoltre Margaret deve avermi contagiato un po’, negli anni. Se non l’avessi conosciuta, ad esempio, avrei potuto imbarcarmi in un paziente scambio di lettere con l’avvocato. Ma non avevo voglia di aspettare in silenzio l’arrivo di un’altra lettera con finestrella. Ho chiamato invece Mrs Eleanor Marriott e le ho domandato notizie dell’altro documento che mi era stato lasciato.
– Il testamento lo definisce un diario.
– Un diario? Di Mrs Ford?
– No. Aspetti, controllo il nome –. È rimasta un po’ in silenzio. – Adrian Finn.
Adrian! E com’era finito nelle mani di Mrs Ford? Ma quella non era una domanda da rivolgere all’avvocato. – Era un amico, – mi sono limitato a commentare. E ho aggiunto: – È probabile che il diario fosse allegato alla lettera che mi ha spedito.
– Questo non glielo saprei dire.
– Lei personalmente lo ha visto?
– No. – I suoi modi mostravano una cautela professionale piú che un rifiuto a venirmi incontro.
– E Veronica Ford le ha fornito qualche ragione per giustificare il fatto di averlo requisito?
– Ha dichiarato di non essere ancora pronta a separarsene.
Perfetto. – Però è mio?
– È certamente indicato nel testamento come suo.
Hmm. Mi sono chiesto se esistesse qualche sottigliezza legale in grado di rendere diverso il senso delle due proposizioni. – Lei è al corrente di come ne sia… entrata in possesso?
– Non abitava lontano dalla madre negli ultimi anni, ho sentito. Mi ha detto di aver preso ...

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  1. Copertina
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  3. Il senso di una fine
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  5. Uno
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