Kristine Håverstad avrebbe voluto sentirsi agitata, invece non provava alcuna emozione. Tanto, non faceva differenza. Non le serviva un avvocato; a dire il vero, non le serviva niente. Tutto quello che desiderava era starsene a casa, a casa di suo padre, con le porte sbarrate, a guardare la televisione. Di certo non desiderava un avvocato, ma la detective aveva insistito. Le aveva mostrato un elenco di legali che aveva definito «avvocati di sostegno», consigliandole con discrezione Linda Løvstad. Quando Kristine aveva annuito facendo spallucce, Hanne Wilhelmsen aveva telefonato allo studio legale, fissandole un appuntamento già per le dieci e mezzo del giorno successivo.
Ferma davanti al palazzo, Kristine cercava dentro di sé qualche flebile segnale di tensione. La targhetta appariva un po’ rovinata nel punto in cui era stato sostituito un nome, ma si riusciva comunque a leggere: «Avvocati Andreassen, Bugge, Hoel e Løvstad, primo piano». Lettere nere incise su una lastra d’ottone che da tempo aveva perso la lucentezza originaria.
Nell’aprire la porta a vetro del primo piano, Kristine si trovò di fronte un cane scodinzolante. Trasalí per lo spavento, ma fu tranquillizzata da un uomo che di certo non era un avvocato, almeno a giudicare dal modo in cui era vestito: jeans logori e scarpe da ginnastica. Lui le sorrise, mise il guinzaglio al cane e lo condusse in un ufficio, mentre gli mormorava qualche parola di rimprovero. In fondo a un lungo corridoio buio, c’era un altro cane, grosso e color antracite, con la testa tra le zampe e un’espressione malinconica, come se partecipasse nel suo intimo a tutte le pene patite da Kristine. Una ragazza slanciata ed elegante, che si occupava di centralino e reception, l’accompagnò nel corridoio dove stazionava il cane bigio e triste.
– Penultima porta a sinistra, – disse a voce bassa e con un sorriso.
– Avanti, – udí Kristine ancora prima di bussare.
Forse anche l’uomo col cane era un avvocato. La donna che si trovò di fronte, infatti, non era in scarpe da ginnastica ma in infradito e jeans, e portava una camicetta che Kristine catalogò immediatamente come acquistata in un grande magazzino. L’ufficio appariva altrettanto spartano, e anche lí c’era un cane, accucciato in un angolo. Magari era un requisito indispensabile per poter lavorare in quello studio. Il cane della Løvstad era un bastardino, magro, brutto e nero come la pece, ma con occhi grandi e magnifici.
La stanza era occupata quasi esclusivamente da un’enorme scrivania. Le librerie erano semplici e piuttosto sguarnite; accanto a una di esse, sul pavimento, si ergeva un grande e buffo micio di pezza: non era bello e nemmeno molto divertente, ma insieme a una macchinina della polizia, ad alcuni poster in cornici da quattro soldi e a una pianta di balsamina in un vaso bianco, contribuiva a sdrammatizzare l’atmosfera.
L’avvocato si alzò non appena Kristine entrò nella stanza, e le andò incontro. Linda Løvstad aveva un fisico magro, asciutto, e sottili capelli biondi che cercava invano di far apparire piú folti raccogliendoli in una specie di chignon. Aveva però un viso simpatico, un bel sorriso e una stretta di mano rassicurante. Le offrí un caffè, recuperò una cartellina beige vuota e iniziò ad annotare le sue generalità.
Kristine Håverstad non aveva la piú pallida idea di che cosa ci facesse lí dentro. Per nulla al mondo, però, avrebbe ripetuto ancora una volta quel che le era successo.
L’avvocato le lesse nel pensiero.
– Non c’è bisogno che mi parli di quello che ti è successo, – la tranquillizzò. – Riceverò tutti gli incartamenti dalla polizia.
Seguí una pausa che non fu affatto imbarazzante, e che anzi serví a far rilassare un poco Kristine. L’avvocato le sorrise, sfogliò alcuni documenti che non avevano niente a che vedere col caso in questione e attese, forse, che lei si decidesse a dire qualcosa.
Kristine rimase seduta a guardare il micio di pezza, accarezzando distratta il bracciolo della poltrona. Poi, visto che l’avvocato continuava a tacere, si strinse leggermente nelle spalle e prese a fissare il pavimento.
– C’è qualcuno che ti sta aiutando? Uno psicologo o qualcosa del genere?
– Sí. È un’assistente sociale, ma va bene lo stesso.
– Ti sembra che ti serva?
– Al momento non direi, ma so che è importante, soprattutto a lungo termine. Però finora l’ho incontrata una sola volta, ieri.
L’avvocato Løvstad annuí, come per incoraggiarla.
– Il mio compito, in realtà, è piuttosto limitato. Dovrò fare da tramite fra te e la polizia. Se c’è qualcosa che vuoi sapere, non devi far altro che telefonarmi. La polizia dovrebbe tenermi costantemente informata, ma in genere non è cosí solerte. Comunque, la detective che ti hanno assegnato è molto in gamba, segue i casi con grande attenzione.
Adesso sorrisero tutte e due.
– Sí, mi ha fatto una buona impressione, – confermò Kristine.
– E poi ti aiuterò a ottenere un risarcimento.
Kristine era confusa.
– Un risarcimento?
– Certo. Hai diritto a ottenere un risarcimento da chi ha commesso il reato, oppure dallo Stato. Esistono regole precise, in merito.
– Al diavolo i risarcimenti!
Kristine Håverstad fu la prima a stupirsi della violenza della propria reazione. Un risarcimento? Come se qualcuno potesse mai elargirle una cifra sufficiente a riparare tutto il male che le era stato fatto, a cancellare quella spaventosa notte che le aveva sconvolto l’esistenza. Soldi?
– Io non voglio niente!
Se avesse avuto ancora lacrime da versare, sarebbe scoppiata a piangere. Non voleva soldi, no. Potendo scegliere, avrebbe chiesto un videoregistratore e una videocassetta con inciso sopra il film della sua vita. Cosí avrebbe riavvolto il tempo all’indietro, l’avrebbe fermato all’ultimo sabato, sarebbe tornata a casa di suo padre e avrebbe evitato che andasse tutto a rotoli. Purtroppo, era solo un sogno.
Il suo labbro inferiore, e ben presto anche il mento, presero a tremare violentemente.
– Io voglio soltanto riavere indietro la mia vita, io non voglio nessun… risarcimento.
Pronunciò l’ultima parola con disgusto, come se avesse assaggiato del cibo rancido.
– Su, su, non agitarti.
L’avvocato Løvstad si protese verso Kristine e la guardò dritta negli occhi.
– Di tutto questo possiamo parlare piú avanti. Forse sarai ancora della stessa idea, e in questo caso nessuno ti costringerà ad agire diversamente; forse, invece, avrai cambiato idea. Per ora lasciamo stare. C’è qualcos’altro di cui hai bisogno, adesso?
La ragazza alta ed esile fissò silenziosamente l’avvocato per alcuni secondi, poi non riuscí piú a trattenersi. Si abbandonò sulla scrivania, nascondendo la testa tra le braccia, con i capelli che le ricadevano sul volto. Pianse per mezz’ora, un pianto senza lacrime, e l’avvocato non poté fare altro che accarezzarle la schiena e sussurrarle parole di conforto.
– Se solo qualcuno mi potesse aiutare… – biascicava Kristine tra un singhiozzo e l’altro. – Se solo qualcuno potesse aiutare mio padre…
Alla fine si alzò.
– Non voglio avere piú niente a che fare con la polizia. Non mi importa se riescono a catturare chi mi ha fatto una cosa del genere. Tutto quello che desidero…
Fu di nuovo sul punto di scoppiare a piangere, ma stavolta rimase in piedi.
– … È essere aiutata. E qualcuno deve aiutare mio padre. Lui è sempre cosí silenzioso… Non mi perde di vista un attimo, sta facendo l’impossibile per tirarmi su, però… non dice nulla. Temo che possa…
Ebbe una crisi di nervi. Dopo un altro quarto d’ora cosí, l’avvocato Linda Løvstad realizzò che per la prima volta nella sua carriera, in realtà piuttosto breve, doveva chiamare un’ambulanza per un cliente.
Non riponevano molta fiducia nell’identikit, ma l’avevano comunque fatto pubblicare. Qualche risultato, in effetti, c’era stato; avevano ricevuto oltre cinquanta segnalazioni con tanto di nome e cognome, forse perché la persona ritratta non presentava caratteristiche particolari. Lineamenti imprecisi. Un viso indefinito. Un’ombra cinese senza identità.
Hanne si sistemò davanti il giornale, diede un’occhiata all’identikit e scosse la testa.
– Potrebbe essere chiunque, – concluse. – Con un po’ di buona volontà, assomiglia almeno a quattro o cinque miei conoscenti.
Strinse gli occhi e piegò il capo da un lato.
– A guardar bene ti assomiglia, Håkon… Siete due gocce d’acqua!
Scoppiò a ridere, e permise al politiadjutant di strapparle il giornale di mano.
– Ti sei bevuta il cervello, – protestò lui, offeso. – Non ho la faccia cosí rotonda e gli occhi cosí ravvicinati… E poi, ho piú capelli.
Appallottolò con foga il giornale e lo scaraventò nel cestino.
– Certo che se le inchieste le porti avanti cosí, sfido io che nessuno spera in qualche risultato, – continuò, ancora piuttosto irritato. – A essere onesti…
Hanne non si diede per vinta. Raccolse il giornale, ormai pressoché inservibile, e lo lisciò con le dita affusolate. Sulle unghie si era messa lo smalto trasparente.
– Guarda. Non potrebbe trattarsi di chiunque? Identikit del genere non andrebbero pubblicati, secondo me. La vittima o si fissa su qualche difetto fisico, tipo il naso grosso, e cosí non riceviamo nessuna segnalazione, oppure ci fa una descrizione come questa, che corrisponde al norvegese medio.
Fissarono a lungo l’immagine anonima. Non suggeriva niente di niente.
– Siamo sicuri che sia norvegese?
– Be’, l’unica cosa di cui siamo sicuri è che parlava un norvegese perfetto e sembrava norvegese, quindi dobbiamo presumere che sia norvegese.
– Eppure era piuttosto scuro di carnagione…
– Adesso piantala, Håkon. Con tutti i razzisti che si annidano nella pubblica amministrazione, mi manca solo un collega convintissimo che un uomo biondo con l’accento di Oslo sia un marocchino.
– Però i marocchini commettono stupri ben…
– Dacci un taglio, Håkon.
La voce di Hanne si era fatta quasi aggressiva. Non si poteva negare che i nordafricani si trovassero ai primi posti nelle statistiche sui casi di violenza carnale, e non si poteva nemmeno negare che i loro stupri fossero particolarmente feroci, di solito. Ed era pure vero che lei, di tanto in tanto, faceva fatica a soffocare i suoi stessi pregiudizi, soprattutto perché aveva incontrato troppi stronzi dai capelli crespi che mentivano spudoratamente, anche se erano stati colti, alla lettera, con i pantaloni abbassati; mentre qualsiasi norvegese, nella stessa situazione, avrebbe farfugliato: «Sí, stavamo chiavando, però lei ci stava»… Tutte queste cose lei le sapeva bene, ma non le avrebbe mai dette ad alta voce.
– Qual è la percentuale di stupri non denunciati, quando i violentatori sono «norvegesi»? – Hanne fece un segno per indicare che intendeva la parola tra virgolette. – Stupri alle feste private o dell’ufficio, stupri commessi dal marito… you name it! È lí che trovi i casi non denunciati. Qualunque ragazza sa benissimo che i responsabili non vengono mai condannati. Mentre gli stupri «veri e propri»… – ancora una volta, fece il segno delle virgolette, – le aggressioni brutali, quelle compiute da feroci violentatori di colore che, come tutti sanno, sono attivamente ricercati dalla polizia… quelle vengono denunciate.
Pausa. Touché. Håkon sorrise timidamente, come per allontanare da sé il sospetto.
– Non intendevo dire questo.
– No, naturalmente, però me l’hai servita su un piatto d’argento. Comunque non dovresti uscirtene con certe affermazioni, nemmeno per scherzo… Sai, sono sicura di una cosa…
Hanne si alzò, sudata e rassegnata, si sporse verso la finestra e cercò di aprirla di piú. Le nuove tende svolazzarono lievemente, piú per lo spostamento d’aria provocato da lei che non per la corrente che si era creata.
– Dio, che caldo fa qua dentro.
Non serví a nulla, la finestra si richiuse lasciando uno spiraglio di una decina di centimetri: avrebbe fatto caldo come prima.
– Sí, sono sicura di una cosa, – ripeté Hanne. – Se venissero denunciati tutti i casi di stupro effettivamente commessi nel nostro Paese, rimarremmo scioccati di fronte a due realtà…
Håkon Sand non era certo del motivo che l’aveva spinta a interrompersi. Forse voleva dargli la possibilità di indovinare quali fossero quelle due realtà. Comunque, invece di cogliere al volo l’occasione di fare l’ennesima figuraccia, preferí attendere la risposta in silenzio.
– Anzitutto, Håkon, il numero degli stupri. In secondo luogo, il fatto che la percentuale di quelli commessi da stranieri è proporzionale alla loro presenza numerica, né piú né meno.
Ancora una volta, ansimò per la temperatura.
– Se questo caldo non se ne va in fretta, finisce che do i numeri… Vado a fare un giro da qualche parte, mi sa, con la Harley… Ti va di venire?
Håkon, lo sguardo spaventato, s’affrettò a declinare l’invito. Non si era ancora scordato il giro in moto di sei mesi prima, nella contea di Vestfold, quando avevano rischiato la pelle, Hanne Wilhelmsen alla guida e lui dietro, accecato dai fanali delle altre macchine, intirizzito per il freddo e bagnato fino al midollo. In quell’occasione era stato indispensabile prendere la moto, ma si era trattato decisamente della sua prima e ultima volta.
– No, grazie, preferisco farmi una nuotata.
Erano le tre e mezza, in effetti potevano andarsene.
– Tutto sommato, se iniziassi a controllare le segnalazioni… – disse lui, timidamente.
– Domani, Håkon. Domani.
La disperazione lo stava mangiando vivo, simile a un topo di fogna grigio e ripugnante, un topo che gli strappava brandelli di carne fino a insinuarsi dietro lo sterno. Aveva bevuto due flaconi di Maalox in tre soli giorni, e non era ser...