Storia e destino
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Storia e destino

  1. 120 pagine
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Storia e destino

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La nostra civiltà ci ha condotto, attraverso l'ultimo vertiginoso tratto del suo cammino, sul bordo estremo di una soglia oltre la quale ci aspetta un passaggio pieno di rischi ma anche di straordinarie opportunità.
Da quest'orlo, l'esperienza del rapporto fra passato e futuro - l'implacabile freccia del tempo - si presenta d'improvviso sotto una forma nuova, che chiede un esercizio di ragione e di realismo, capace di separare previsione e apocalisse e di rivoluzionare completamente noi stessi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409398
Categoria
Sociology

IV.

Oltre la specie

1. La distinzione fra naturale e artificiale – fra ciò che è «naturalmente divenuto» e quel che è invece «tecnicamente prodotto» – è costitutiva della storia umana. Ancora oggi vi ricorriamo in quasi tutte le nostre pratiche quotidiane.
Accanto le scorre, nella tradizione dell’Occidente, il percorso di un’altra separazione capitale, non meno potente e irradiata: che attraversa la stessa figura dell’uomo, rendendola per antonomasia il simbolo della scissione. A fronteggiarsi questa volta sono da un lato l’incompleta pesantezza del corpo, dove tutto è opacità, vincolo e necessità, e di contro la compiuta leggerezza della mente, che si presenta con un nucleo sempre eguale a se stesso, aperto sulla trasparenza, l’illimitato, la libertà. «So infatti che non il bene abita in me, cioè nella mia carne […]. Vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge della mia mente […]. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?»: è Paolo a scrivere cosí, nella Lettera ai Romani (7, 18-24), e lo schema delineato rappresenta una polarità penetrata nel nostro piú remoto vissuto. Vi venivano ribaditi i termini di un dualismo che non ci avrebbe mai lasciato. Il pensiero tardoantico vi lavorerà a lungo, riproponendolo in contesti via via piú complessi. Il cristianesimo medievale ne avrebbe fatto un punto di forza, trasmettendolo fino alla modernità, dove le sue risonanze sarebbero arrivate in spazi lontani: a Descartes, a Spinoza. Il paradigma originario era però già greco, e nasceva da quel radicato antimaterialismo antico di cui abbiamo appena avuto modo di dire: lo spirito che si oppone all’involucro che (provvisoriamente) lo contiene; la libertà e l’apertura dell’io interiore contro le catene e la limitatezza del corpo: un tema svolto lungo un filo di dottrine che va almeno da Eraclito, a Platone, agli stoici.
Al fondo di queste due scomposizioni si ripete un elemento comune: la percezione dell’aggrovigliata e irrisolvibile ambiguità della nostra condizione.
Nella prima, l’uomo, come unico produttore di artificialità, si trova, da solo, innanzi all’incontenibile spontaneità della natura. Ma il contrasto si rivela ben presto non solo esterno a lui, perché egli stesso è, per una parte, un puro risultato della naturalità biologica; è insieme natura e cultura, vita spontanea e vita del pensiero.
Nella seconda – che ha molte varianti – il gioco si sposta su un piano piú complesso. Anche la mente, infatti, che domina sull’oscurità del corpo, si riconosce in una dimensione che reca un insopprimibile elemento di naturalità, sia pure piú alta rispetto alla semplice immediatezza fisica; la medesima che attiene alla generale universalità dello spirito: quella che il cristianesimo avrebbe interpretato come l’immodificabile fissità dell’anima.
E vi è poi ancora qualcos’altro che circola congiuntamente in entrambe le distinzioni. L’idea cioè che immediatamente dietro la natura sensibile, ovunque essa si dispieghi, nel cervello umano o nel cielo stellato, vi sia un suo retrostante livello, che reca un’impronta proiettata sull’eterno. Si tratta di nuovo di un tema greco: «egli dice che il principio non è l’acqua, né alcun altro dei cosiddetti elementi [sensibili], bensí una certa infinita differente natura»: già cosí Anassimandro, secondo Teofrasto.
Tutta questa trama di concetti ha dietro di sé un presupposto: la remota convinzione di una completa immobilità del fondo naturale dentro e fuori di noi, capace di aver ragione sia dell’imperfetta moltitudine dei corpi, risolvendone la caducità in un’infinita e ciclica ripetizione, sia della congenita fragilità dell’artificiale. «Quel che è stato sarà | Quel che è fatto si farà ancora». «È già stato quello che è | È già stato quel che sarà»: si sente il trascorrere sempre eguale del sole e della luna nel cielo, il ripetersi delle stagioni, il fluire ritmico delle maree e delle cadenze biologiche della vita, nella persuasività delle parole dell’Ecclesiaste (1, 9 e 3, 15). La natura, insomma, come palcoscenico dell’immutabile. E poiché ogni forma di civiltà non poteva che svilupparsi all’interno di una ferrea rete di compatibilità fisiologiche, climatiche, ambientali, questa “differente” natura è stata interpretata – in un articolarsi di atteggiamenti che ha avuto moltissime stratificazioni – come la custode metafisica di limiti dati una volta per tutti, che gli uomini non possono valicare. La depositaria di regole e di principî insormontabili, detentrice di un sistema globale di autorizzazioni e di divieti: l’“ordine naturale”, appunto; un paradigma che, in diverse forme, ha anch’esso attraversato la storia dell’umanità, dai Greci a oggi – per non dire dell’Oriente.
Noi adesso sappiamo bene che niente di quel che chiamiamo natura – il cosmo, la Terra, la vita – è mai stato fermo. Né tanto piú possiamo considerare immobile la naturalità della nostra mente, fissatasi nella sua attuale struttura – sia dal punto di vista delle basi anatomiche, sia da quello delle potenzialità cognitive – solo in tempi relativamente recenti. Se a noi appare diversamente, l’effetto è dovuto – lo abbiamo detto – a una differenza di scala fra le vicende dell’ultima storia dell’uomo e quelle dell’universo e della vita. Dietro la concezione opposta si perpetua una radicale distorsione della visuale: un inevitabile e grave errore prospettico che ha accompagnato lo sviluppo della cultura umana. Nulla è immobile nell’universo, compreso l’universo stesso. Quel che ci appare tale, è soltanto l’esito temporaneo di una storia meno veloce.
Dirò a questo punto una volta per tutte (ma il lettore cui l’argomento non sia familiare può saltare la precisazione) che enunciare questa verità sulla quale stiamo molto insistendo non confligge per nulla con la teoria, non meno indubitabile, della relatività dello spazio e del tempo. Né con l’immagine, altrettanto fondata, di un universo che contenga “insieme” passato, presente e futuro, e dunque da considerarsi – se vogliamo usare il lessico di una tradizione filosofica impegnativa – sotto forma dell’assoluta compiutezza dell’essere. Resta intatto il dato della totale storicità del cosmo come della vita – la strutturale storicità del venire all’essere dell’essere. Che poi la figura di questo intrinseco trasformarsi possa essere colta e rappresentata secondo modalità diverse, e anche formalizzata controintuitivamente nella sua interezza, come un blocco di ghiaccio e non come un fiume che scorre, esattamente come possiamo vedere insieme gli spicchi di un’arancia o le fette di un panettone, mentre non appare alla nostra specie che secondo l’esclusiva e asimmetrica prospettiva della freccia del tempo, e dunque di un processo che va dal passato verso il futuro, tutto ciò è altra questione, che non interferisce con il nostro assunto.
2. È stato invece proprio all’idea di una natura sottratta al mutamento – di una natura come argine e come confine posto al di fuori di qualunque trasformazione – che si sono sempre legate tutte le ipotesi di assegnarle un ruolo prescrittivo, la suggestione di intravedervi impressi definitivi e inviolabili codici metafisici.
Non sarebbe difficile dimostrare come i concreti valori normativi che, nelle differenti situazioni, si immaginava di leggere in un simile “ordine” non avessero nulla, e in nessun senso, di effettivamente “naturale”, ma fossero solo le proiezioni di particolari contingenze culturali. Nella storia della vita non si esprimono altre “leggi” (volendo continuare a servirsi di questa metafora inadeguata), se non quelle intrinseche alle trasformazioni evolutive. E nella trama dello spazio-tempo non se ne trovano di diverse dai formalismi che descrivono i movimenti e le forze presenti in determinate condizioni “storiche” della materia e dell’energia (in un universo intento solo a “calcolare” se stesso), quasi sempre peraltro in termini probabilistici e tendenziali. Nei momenti cruciali della storia del cosmo, infatti, ogni ordine acquisito cede di colpo, e dà origine a nuovi scenari che si distinguono radicalmente da quelli anteriori. Anche le regolarità piú onnicomprensive, come quelle riflesse in enunciati del tipo «l’universo è fatto di atomi» oppure «la simmetria è all’origine di ogni evoluzione cosmica», rivelano una loro storicità, sia pure estrema. E persino la luce, alla cui velocità leghiamo il valore di una costante che consideriamo assolutamente immutabile, ha, come sappiamo per aver registrato la traccia della sua nascita, una propria storia.
La natura manifesta però visibilmente e intuitivamente delle ciclicità, che si ripetono su tempi per noi lunghissimi, e determina dei vincoli, con l’apparenza dell’eterno. Ed è stato perciò sempre facile inscrivervi dentro, come su una pagina bianca, quei contenuti etici e sociali che di volta un volta ogni cultura dominante (o che aspirava a esserlo) considerava come irrinunciabili, alla base stessa della propria esistenza: fino ad arrivare, in particolari contesti, a una sorta di naturalizzazione ideologica della morale, del diritto, dell’economia. Erano evidentemente solo concezioni, rapporti, modelli storicamente determinati – il risultato di contingenze dalla durata piú o meno variabile – ma venivano presentati come regole immutabili, che non si potevano in alcun modo aggirare. In questo senso, ogni epoca ha elaborato un suo peculiare e sempre diverso “ordine della natura”, cui riteneva di poter affidare le proprie certezze. Ed è accaduto cosí che abbiamo a lungo considerato pienamente “secondo natura” istituzioni e pregiudizi che oggi ci appaiono del tutto aberranti.
È successo con la schiavitú: una pratica che noi giudichiamo unanimemente degradante solo da meno di due secoli, ma che fino a ieri una lunga e nobile linea di pensiero, da Aristotele alla pubblicistica confederata durante la guerra civile americana, riteneva una tipica istituzione “naturale”, senza che mai le Chiese cristiane avessero avuto molto da obiettare al riguardo. È capitato con gli indios dell’America latina, valutati come “per natura” senz’anima dalla sbrigativa teologia sul campo dei conquistatori spagnoli. È avvenuto per la condizione della donna, bollata come “per natura” inferiore a quella dell’uomo da una tradizione non meno importante e quasi incontrastata ancora fino alla prima metà del XX secolo. Accade tuttora per la proprietà, il mercato, il matrimonio, la famiglia, l’eterosessualità: considerati dai loro apologeti come forme assolutamente corrispondenti a quello stesso disegno “naturale” che si è dovuto ritirare dallo schiavismo, dal genere femminile e dagli indiani del nuovo mondo, abbandonandoli finalmente – e per loro fortuna – alla sola storia.
Sia chiaro, però: la naturalizzazione della morale non è stata unicamente uno strumento della conservazione e della sopraffazione sociale, imperiale o di genere. È servita a grandi battaglie di civiltà: contro poteri dispotici, in nome di una superiore giustizia “naturale”; o per l’inviolabilità di alcuni diritti fondamentali, immaginati come iscritti nella stessa “natura” dell’uomo. Anche se ogni volta sarebbe apparso poi evidente che, nelle diverse circostanze, non era la naturalità a ribellarsi alla storia, e che si trattava invece solo di due diverse storie in lotta fra loro.
Ma il punto non è di operare distinzioni fra usi corretti o deviati del paradigma naturalistico: bensí di lasciar affiorare l’origine e il meccanismo culturale alla base della sua formazione. E di avere ben presente che in ogni caso qualunque “ordine naturale” è sempre, rispetto ai suoi contenuti, un ordine provvisorio. Che esso riguardi ammassi galattici, forme di vita o particelle subatomiche, la differenza è solo di misure nella durata: miliardi di anni, o qualche milione, o microfrazioni di secondi. Per non dire di quella che noi chiamiamo “natura umana”, la parte piú profonda della nostra base istintuale e razionale, su cui lavorano gli antropologi alla ricerca di costanti piú o meno universali del nostro cammino culturale, che come abbiamo visto si è stabilizzata nella sua forma attuale da non piú di qualche diecina di migliaia di anni: un tempo brevissimo in termini evolutivi.
3. Al perpetuarsi dell’immagine della natura come vincolo e come barriera – e di lí come norma e come morale – ha corrisposto il simmetrico processo della sua sacralizzazione: che ne ha accresciuto il ruolo di misura intangibile, su cui è stata distesa una rete di inviolabili tabú, posti a guardia di regole da non discutere, a pena di gravissime conseguenze.
Le grandi religioni monoteiste – e il cristianesimo in primo luogo – hanno contribuito in modo assai efficace, e sia pure in maniere diverse, all’affermarsi di questa spinta che ha finito con il coinvolgere anche una parte della modernità laica. Per quanto riguarda in particolare l’Occidente, sarebbe una ricerca bellissima raccontare come il pensiero della Chiesa abbia partecipato per un verso a quella rimaterializzazione della natura che, dopo la fine del mondo antico, avrebbe portato alla nascita della scienza moderna e del suo nuovo rapporto con la tecnica; e allo stesso tempo abbia lavorato in modo potente alla diffusione di un’interpretazione teologica e metafisica dell’immediato retroscena fenomenico, fino a vedere operante, in ogni manifestazione sensibile, la presenza attiva di Dio. Ma qui – purtroppo – non possiamo nemmeno iniziare.
Sta di fatto che negli ultimi tre secoli la Chiesa cattolica si è ritrovata a contendere palmo a palmo all’indagine scientifica la descrizione e la spiegazione dell’universo e della vita, combattendo e perdendo grandi scontri, da Galilei a Darwin, ma sapendo tutte le volte, dopo ogni sconfitta, ricostruire piú indietro una linea di difesa accettabile, e sempre meno legata alla letteralità dei testi biblici. In questo progressivo ritrarsi, oggi la teologia pare aver completamente abbandonato la fisica e la cosmologia: un ricollocamento strategico silenzioso, ma non per questo meno significativo.
Il confine da difendere a tutti i costi sembra attraversare adesso la biologia. Perché lí è in gioco qualcosa di essenziale: non piú soltanto comprendere o trasformare la materia fuori di noi, ma incidere sui modi e la qualità del nostro essere al mondo, e sullo statuto primario del rapporto fra coscienza e materia. L’idea della generica sacralità della natura si è concentrata, cosí, in quella specifica della vita – che mai la Chiesa aveva protetto con tanta determinazione: visto che non aveva esitato in passato a far comminare la morte (dal proprio braccio secolare) in caso di gravi devianze religiose; aveva teorizzato in molte occasioni la guerra giusta; aveva ammesso la condanna capitale nell’ordinamento giuridico che reggeva la sua sovranità temporale.
In realtà, l’intransigenza dell’atteggiamento dottrinario e morale intercetta in questo caso, come abbiamo già accennato, un decisivo nodo di potere. Ed è innanzitutto una motivazione di potere e non di principio o di evangelizzazione a spingere la Chiesa al suo ennesimo arroccamento, e a combattere la sua battaglia.
Lo scontro si consuma intorno al controllo di due punti chiave nella geografia del nostro percorso di vita: l’ingresso e l’uscita. Come nasciamo e come moriamo. Fino a quando le pratiche sociali e culturali collegate alla gestione di questi due eventi rimarranno vincolate alla naturalità che la storia evolutiva ha selezionato fino a oggi per noi, il discorso religioso – che ha installato Dio e il sacro a ridosso della forma attuale della specie – può mantenerne il pieno dominio. La medicalizzazione è accettata, purché sotto tutela. L’esclusione dell’intervento umano oltre limiti dottrinariamente definiti si rovescia subito nel pieno riconoscimento del monopolio della Chiesa in questo campo. È lei e solo lei l’unica abilitata a parlare di vita e di morte: una protagonista assoluta sul terreno della giustificazione ideologica di ogni biopolitica; diciamo anche delle bioideologie. Lei e solo lei è autorizzata a gestire strategie di speranza e di addolcimento che consegnano ogni nascita all’attuarsi di un disegno divino, e sottraggono ogni morte alla notte di un totale e cieco spezzarsi.
Ma se il divieto venisse meno, e l’uomo entrasse attraverso la tecnica a determinare, scegliere, intervenire, decidere, noi vedremmo una massa enorme di potere – ideologico, istituzionale, sociale – spostarsi e cambiare di segno: passare dalla religione e da chi la rappresenta a nuovi soggetti, non ancora ben definiti, ma certo in rapporto con le acquisizioni della scienza e con il loro uso sociale.
È probabile che la Chiesa cattolica veda questa eventualità come il peggiore dei mali, perché la costringerebbe a una complicata operazione di riconversione culturale e ideologica (a un grande disinvestimento di sacro e a un suo proporzionale reinvestimento su altri temi), che non si sente ancora pronta a gestire.
So bene che non possiamo scartare del tutto altre ipotesi. Che possa temere anche per un motivo, diciamo cosí, teologico e di principio: perché pensa davvero che il divino sia appena piú in alto del nostro Dna. Ma non ritengo sia questa la spiegazione migliore: un Dio d’amore può benissimo restare accanto a un uomo finalmente padrone della propria forma biologica. La Chiesa non può ignorarlo.
Oppure possiamo immaginarla preoccupata perché, nella sua pessimistica saggezza, considera la nostra civiltà non ancora in grado di reggere una responsabilità cosí schiacciante come quella che si va profilando. Potrebbe sapere cose che noi non sappiamo. E allora rallentare, frenare, contenere sarebbe la sua missione, in attesa di tempi migliori. Ma di nuovo, dubito che questa sia l’interpretazione piú vicina alla verità. È per se stessa che si batte, innanzitutto, la Chiesa.
In ogni caso, è sicuro è che essa oggi consideri necessario per l’uomo il prolungamento indefinito di una stato di inferiorità; il permanere di una cultura che accetti l’esistenza di vincoli sottratti alla sua disponibilità, che ne determinino il percorso. Insomma, di un’umanità in scacco, che si adagi nella minorità, e se ne appaghi.
Ed è invece proprio questo, una permanente minorità di vita che crea il bisogno di una continua eterodirezione, ciò che la rivoluzione in atto sta rovesciando, e già comincia a cancellare. Può non piacerci, e con le motivazioni piú diverse: ma la tendenza è inarrestabile.
Non c’è altro da ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia e destino
  3. Premessa
  4. I. Spettatori dell’inizio
  5. II. Una vita di successo
  6. III. La fine dell’infanzia
  7. IV. Oltre la specie
  8. V. La forma del mondo
  9. VI. «A sua immagine, a sua somiglianza»
  10. Nota bibliografica
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright