Mancarsi
eBook - ePub

Mancarsi

  1. 104 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni sul libro

Irene vuole essere felice, e quando il suo matrimonio inizia a zoppicare se ne va. Nicola è solo, confusamente addolorato dalla morte di una donna che aveva smesso di amare da tempo. Anche lui, come Irene, è mosso da un'assoluta urgenza di felicità. Anche lui vuole un amore e sa esattamente come vuole che sia fatto.
Sarebbero destinati a una grande storia, se solo s'incontrassero una volta nel bistrot che frequentano entrambi. Ma il caso vuole che ogni volta che Nicola arriva, Irene sia appena andata via.
Se le vite di Nicola e Irene non s'incontrano fino alla fine, le loro teste invece s'incontrano furiosamente nelle pagine di questo libro: i pensieri, le derive, il sentire - quell'impasto inconfondibile di toni alti e bassi, riflessivi e comici - si richiamano di continuo, sono ponti gettati verso il nulla o verso l'altro. Forse, verso l'attimo imprevisto in cui la felicità finalmente abbocca: perché se lo lasci passare, quell'attimo, te ne vai con la curiosa ma lucida impressione d'esserti appena giocato la vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858407080

Mancarsi

L’unico vero possesso dell’uomo è nelle cose che ha perduto.
FRANZ WERFEL
C’è una foto che Irene ha scattato con gli occhi, un frammento, una di quelle istantanee dov’è condensata tutta la tenerezza per qualcuno che abbiamo amato o amiamo ancora, e che si acquattano nella memoria per la vita.
A volte è una sequenza, altre un’immagine, un fotogramma qualsiasi, un movimento spezzato, una smorfia (debolezza, forse vergogna), un gesto piccolissimo che non possiamo raccontare a nessuno (e non perché non vogliamo ma perché non sapremmo neanche come cominciare, e se pure ne fossimo capaci preferiremmo non farlo).
Magari in quei lampi della memoria la persona con cui abbiamo scelto di passare parte della nostra vita non era nemmeno cosí bella come sappiamo può essere; eppure è lí che ne conserviamo l’essenza, perché è stato allora che l’abbiamo vista cosí inaspettatamente smascherata e se stessa; è in quell’istante che tutto è avvenuto.
Forse lei non lo sa neanche, intanto recita la parte che crede sia quella che ci ha attratto, e noi teniamo il segreto per tutto il tempo in cui restiamo insieme, l’amiamo di nascosto in un certo senso, perché poi nessuno è in grado di spiegare di cosa è fatto l’amore che prova; le qualità etiche e anche quelle estetiche non c’entrano poi molto con i legami che si stringono per anni, le case, i figli, tutti gli investimenti collaterali (non c’entrano neanche con le separazioni, in fondo), e quando ce lo domandiamo («Ma tu perché mi ami?») e stiamo a sentire la risposta, rimaniamo per forza un po’ delusi, quasi vorremmo replicare: «Dài che puoi fare di meglio, dimmi chi sono», perché non è di semplici complimenti, per quanto sinceri, che in quel momento andiamo alla ricerca, ma di qualcosa di piú intimamente effimero che ci descriva nell’immaginazione dell’altro.
Vogliamo che la persona che amiamo ci dica d’essersi innamorata di noi perché un giorno, senza neanche pensarci, l’abbiamo toccata in un punto in cui non sapeva di essere sensibile, come certe carezze che arrivano molto in fondo per conto loro.
«Ti amo perché ti gratti il polso in quel modo tutto tuo», questo per esempio vorremmo sentire, piuttosto che: «Ti amo perché sei generoso e affidabile».
C’innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l’altra persona come pensiamo che nessuno l’abbia mai vista e mai la potrà vedere, e custodiamo questi attimi di unicità in forma d’immagine, anche se negli anni sbiadisce; ma è a quell’immagine che chiediamo aiuto quando il nostro sentimento vacilla e dubitiamo di amare, allora la richiamiamo, e ci basta (quando ancora l’immagine è viva) ritrovare quel modo di bere a canna, tenendo la bottiglia distante dalle labbra, perché l’amore torni a insinuarsi e si riaccenda, rimettendo a posto le cose, disponendole intorno a noi nell’ordine rassicurante in cui ci siamo abituati a vivere, e ci lasci dove siamo, reprimendo di schianto i progetti di fuga a cui avevamo già cominciato a lavorare.
L’istantanea di Irene è una scena di lotta. Per strada lui aveva avvertito un improvviso dolore al petto e s’era aggrappato a lei con tutt’e due le mani, come stesse precipitando.
A sconvolgerla e insieme legarla nel profondo (dandole la consapevolezza definitiva e totale di come sarebbe andata la sua vita da quel momento in avanti) era stato sentire quanto lui si fidasse della forza delle sue braccia, quasi avesse dimenticato di tenersi a un corpo di donna e lo trattasse senza piú riguardo e delicatezza, come quello di un amico, un fratello o anche un estraneo, un uomo robusto che in quel momento fosse fisicamente capace di pareggiare la sua forza e restituirgliela in forma di rassicurazione e di coraggio. E fu allora, innamorandosi, che Irene scoprí di avere braccia forti, piú forti di quanto avesse mai pensato.
Adesso Irene chiude gli occhi e rivede la sua istantanea, perfettamente uguale a se stessa («Si porta ancora bene i suoi anni», pensa, e sorride), che non trasmette piú nulla.
Non sa come sia successo, ma ricorda bene quando, perché nel preciso momento in cui aveva capito che il suo matrimonio era finito, aveva guardato l’orologio sulla parete della cucina.
– Che hai? – le aveva chiesto lui fermando addirittura il cucchiaio a due dita dalla bocca.
– Niente, – aveva risposto Irene. E gli aveva carezzato il dorso della mano, il gesto che fanno le donne quando vanno via per non tornare piú.
Nicola è un lettore forte, ma non ha mai letto un libro dall’inizio alla fine. È perché non crede alla compattezza delle storie. Che un racconto resti coerente per duecentocinquanta, trecento pagine, gli sembra una forzatura. In un romanzo cerca gli sconfinamenti, le irregolarità. Il colpo di testa che prende lo scrittore quando vede passare una cosa e la segue, lasciando la rotta giusto il tempo di affacciarsi e rinunciare, tornando alla struttura con la coda fra le gambe.
Sono quelle infrazioni che gli parlano. È per loro che si riempie la casa di libri. Ne avesse il coraggio, strapperebbe tre quarti delle pagine di quasi tutti quelli che possiede, per ritrovarsi una biblioteca di testi martoriati.
Non che l’idea esteticamente gli dispiaccia. Se non lo fa è perché sa benissimo che senza quelle che non legge, le parti che considera preziose perderebbero valore. Le cose importanti non si possono isolare, né unire. Prese una per volta, s’immiseriscono. Selezionate e raccolte, non compongono un’opera. Per dire la loro devono confondersi.
Di tutte le storie che conosce, quella che gli ha fatto l’effetto di un’insinuazione rivolta a lui (come una malattia che ti senti addosso quando ne impari il nome, e i sintomi che accusavi da tempo diventano subito la sua forma) non sta nemmeno scritta sui suoi libri. Gliel’ha riferita qualcuno, manco ricorda chi. Forse non è un racconto, piuttosto un resoconto, un pettegolezzo letterario tratto da una storia vera. Quelle voci che hanno gioco facile a passare di bocca in bocca perché contengono delle verità rovesciate e un po’ ciniche che si è portati subito a riconoscere (anche perché non costa niente, visto che è sempre di qualcun altro che si tratta), e nel cambiare narratore si gonfiano sempre un po’.
C’era una donna – questa la storia – che amava il suo uomo in modo assoluto. Gli dedicava la vita e ne era felice. Si occupava di lui senza riserve, e non le importava di non avere altro da fare. Anzi, sentiva quasi come un disturbo qualsiasi occupazione o impegno la distogliesse anche pochissimo dal compito che s’era scelta.
Quando erano in compagnia di amici, bastava che lui aprisse bocca su un argomento qualunque perché lei lo guardasse con l’incanto di una ragazzina che, dopo tanto tramare, finalmente si ritrova nella stessa stanza col piú bello della scuola. Ammirava il suo punto di vista sul mondo, e la grazia con cui lo proponeva.
Senza di lui, non usciva neanche per fare la spesa. Lo seguiva dappertutto, ma era molto attenta a non invadere i suoi spazi. E quando un impegno di lavoro lo tratteneva fino a tardi, si faceva trovare sveglia ad aspettarlo. Per sé non chiedeva niente, le bastava stargli accanto.
Poi un giorno lui s’era ammalato ed era morto. Tutti avevano pensato che lei non avrebbe sopportato la mancanza e si sarebbe lasciata andare, astenendosi dal vivere per seguirlo al piú presto. Lo avevano pensato perché era comprensibile pensarlo e perché, per quanto disgraziato, è un bel pensiero.
Invece lei era rinata. Aveva ripreso a uscire, viaggiare, riallacciare contatti, fare jogging (questa dello jogging era una probabile aggiunta dei remake successivi). Gli amici la incontravano dappertutto, al cinema, ai concerti, nei bei negozi del centro, e provavano un certo imbarazzo nel vederla cosí luminosa, cosí disinvolta nell’andare avanti.
Non che lui non le mancasse. Forse però le era mancata di piú la sua vita. E adesso che l’aveva ritrovata, se la stava riprendendo.
Era singolare, pensava Nicola, come questa storia trovasse sempre lo stesso silenzio rispettoso (oppure omertoso, non si capiva) ad accoglierla. Come se nessuno avesse le carte in regola per biasimare quella donna.
«Era proprio necessario, – questa la domanda che tutti avrebbero voluto farle, – aspettare la morte per liberarti di un rapporto che ti stava stretto? Se sapevi (perché via, non potevi non saperlo) che non era quella la vita che volevi, non sarebbe stato piú onesto prendere prima la tua strada?»
Piú che una domanda, una critica; che però veniva taciuta con la stessa spontaneità con cui montava dentro.
Era in quel silenzio intimidito e colpevole, in quella coda di paglia che censurava sul nascere ogni intento moralistico, che Nicola si riconosceva di piú. Come tanti, anche lui si guardava bene dal giudicare, perché anche lui, come tanti, nel profondo sapeva che quello che soprattutto fa la persona che ami è occupare dello spazio, stare al mondo: diventare il tuo spazio e il tuo mondo. E il peggio che ti può capitare, quando ti abitui a vivere in un mondo ridotto a una persona soltanto, è di pensare di avere abbastanza mondo per essere felice, addirittura diventarlo, e cosí raccontarti che nel resto del mondo, tutto quell’altro mondo che non è lei, non vuoi neanche piú andarci; infatti non ci vai, e dopo un po’ ti senti persino fiero di aver smesso di frequentarlo, quel mondo cosí vasto, anche se poi quando viene a girare dalle tue parti o lo vedi dalla finestra ti sale un po’ di magone, e te ne torni dentro mordendoti le labbra.
Molto prima che l’incidente lo riconsegnasse a una vita che non si era mai permesso e di cui poteva fare quello che voleva, finalmente, Nicola aveva conosciuto il rimpianto della solitudine, la privazione di una libertà con cui avrebbe voluto riempire i suoi giorni (non per farci qualcosa, solo averla) e invece assaporava nei pochi, insufficienti spazi che riusciva a ritagliarsi.
Per questo gli sembrava perfettamente comprensibile – come tutti quelli che come lui tenevano la bocca chiusa su quella storia – che la donna del racconto avesse ritrovato la sua vita nella morte dell’uomo che amava.
Ed è per questo che oggi, per quanto gli costi ammetterlo, non riesce a soffrire completamente, né si sente sbagliato nell’uscire ogni giorno di casa con la speranza d’innamorarsi ancora, però stando bene attento a tenersi stretto il resto del mondo, questa volta.
Un giorno, nella sala d’attesa del dentista, avevano fatto per gioco un questionario sulla coppia.
La terza domanda era:
«Quante volte al giorno ridete insieme?»
Le risposte possibili:
a) da 0 a 2.
b) una ventina.
c) piú di cento.
Bella domanda, si era detta Irene.
Lui aveva preso un fogliettino, aveva scritto la sua risposta e l’aveva piegat...

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