Il leopardo
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Il leopardo

  1. 776 pagine
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Informazioni sul libro

Oslo. Due donne vengono trovate morte: i polmoni pieni di sangue e ventiquattro ferite in bocca. Nessun indizio. Un caso perfetto per Harry Hole, commissario specializzato in omicidi seriali, alcolista, uomo rude e solitario. Peccato si sia rifugiato a Hong Kong per sfuggire al proprio passato. Soltanto quando lo informano che il padre sta morendo in un ospedale, Hole decide di tornare in città. E subito scopre un dettaglio che sconvolge le indagini: le vittime hanno dormito nello stesso rifugio di montagna. Un killer, scaltro e selvaggio come un leopardo, sta braccando tutti gli ospiti di quella notte, uno a uno: Hole è l'unico che può fermarlo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
ISBN
9788858405383

Parte seconda

10. Sollecito

Erano le tre di notte quando Harry rinunciò a dormire e si alzò.
Aprí il rubinetto della cucina e mise un bicchiere sotto il getto, tenendovelo finché l’acqua traboccò e cominciò a scorrergli fredda intorno al polso. La mandibola gli faceva male. Il suo sguardo fissava due fotografie appuntate sopra il piano di lavoro.
Una aveva due brutte pieghe e ritraeva Rakel in un vestitino estivo celeste. Però non era estate, il fogliame sullo sfondo aveva colori autunnali. I capelli neri le ricadevano sulle spalle nude. I suoi occhi sembravano cercare qualcosa dietro l’obiettivo, forse il fotografo. L’aveva fatta lui quella foto? Strano che non se ne ricordasse.
L’altra foto era di Oleg. Scattata l’inverno prima con il cellulare di Harry a Valle Hovin durante gli allenamenti di pattinaggio. Era ancora un ragazzino magro, ma se avesse continuato ad allenarsi, presto avrebbe riempito la calzamaglia rossa. Cosa faceva adesso? Dov’era? Rakel era riuscita a creare una casa per loro due ovunque fossero ora, una casa che le sembrasse piú sicura di quella a Oslo? Nella loro vita erano entrate altre persone? Quando Oleg si stancava o perdeva la concentrazione, gli capitava ancora di chiamarlo papà?
Chiuse l’acqua. Sentí lo sportello dell’armadietto contro le ginocchia. Dall’interno Jim Beam bisbigliava il suo nome.
Harry si infilò un paio di pantaloni e una T-shirt, andò in soggiorno e mise su Kind of Blue di Miles Davis. Era la versione originale, quella in cui non avevano compensato il ritardo infinitesimale del registratore a bobine dello studio, di modo che tutto il disco era uno sfalsamento quasi impercettibile della realtà.
Ascoltò per un po’ prima di alzare il volume per non sentire il bisbiglio proveniente dalla cucina. Chiuse gli occhi.
La Kripos. Bellman.
Gli era nuovo, quel nome. Naturalmente avrebbe potuto telefonare a Hagen e chiedergli delucidazioni, ma non se l’era sentita. Perché pensava di aver capito di cosa si trattava. Meglio lasciar perdere.
Arrivato all’ultimo brano, Flamenco Sketches, Harry si arrese. Si alzò, uscí dal soggiorno diretto in cucina. Nell’ingresso girò a sinistra, si infilò i Doctor Martens e uscí.
La trovò sotto un sacchetto di plastica bucato. Qualcosa che somigliava a zuppa di piselli rappresa foderava tutta la copertina della cartella.
Si sedette nella bergère verde e cominciò a leggere rabbrividendo.
La prima donna si chiamava Borgny Stem-Myhre, trentatre anni, originaria di Levanger. Single, senza figli, residente nel quartiere di Sagene a Oslo. Lavorava come stilista, frequentava molta gente, soprattutto parrucchieri, fotografi e quelli che lavoravano nelle riviste di moda. Bazzicava parecchi locali della città, e non solo i piú alla moda. Inoltre, era un’amante della natura e le piaceva fare escursioni da un rifugio all’altro, sia a piedi sia con gli sci.
«Non è mai riuscita a sbarazzarsi completamente della ragazzotta di Levanger», c’era scritto nel rapporto che riassumeva gli interrogatori ai colleghi. Harry dedusse che quel giudizio doveva venire dalle colleghe convinte di essere riuscite a cancellare il proprio paesello.
«Era simpatica a tutti noi, era una delle poche persone genuine di questo ambiente».
«È incredibile, non riusciamo a concepire che qualcuno abbia voluto ucciderla».
«Era troppo buona. E prima o poi gli uomini di cui si innamorava ne approfittavano. Diventava un giocattolo nelle loro mani. Mirava troppo in alto, tutto qui».
Harry guardò una sua foto. L’unica del fascicolo in cui era ancora viva. Bionda, forse non naturale. Carina, non una gran bellezza, ma cool in giacca militare e berretto rasta. In tiro e troppo buona, le due cose si conciliavano?
Era stata al Mono, alla festa mensile di lancio e anteprima della rivista di moda «Sheness». L’evento aveva avuto luogo tra le sette e le otto, e Borgny aveva detto a una collega-amica che andava a casa a preparare un servizio per il quale il fotografo aveva chiesto abiti «da giungla che incontra il punk in stile anni Ottanta».
Avevano dato per scontato che sarebbe andata al posteggio dei taxi piú vicino, ma nessuno dei tassisti che si trovavano nelle vicinanze all’ora in questione (tabulati di Norgestaxi e di Oslo Taxi allegati) aveva riconosciuto Borgny Stem-Myhre dalla foto né aveva portato qualcuno a Sagene. In breve, nessuno l’aveva vista dopo che aveva lasciato il Mono. Fino a quando due muratori polacchi si erano recati al lavoro, avevano notato che il lucchetto della porta in ferro del rifugio antiaereo era stato manomesso ed erano entrati. Avevano trovato Borgny riversa al centro della stanza in una posizione innaturale. Era completamente vestita.
Harry guardò la foto. La stessa giacca militare. Sembrava essersi data della cipria bianca. Il flash gettava ombre nette sul muro dello scantinato. Servizio fotografico. Cool.
Il medico legale aveva stabilito che Borgny Stem-Myhre era morta tra le ventidue e le ventitre. Nel sangue erano state trovate tracce di ketamina, un potente anestetico dall’effetto rapido anche per via intramuscolare. Ma la causa diretta della morte era l’annegamento provocato dal sangue delle ferite in bocca. E qui cominciava la parte piú inquietante. Il medico legale aveva trovato ventiquattro ferite da punta nel cavo orale, distribuite simmetricamente e – quelle che non avevano comportato un perforamento del viso – tutte della stessa identica profondità: sette centimetri. Ma gli investigatori non avevano la piú pallida idea di quale tipo di arma o di strumento le avesse provocate. Non avevano mai visto nulla di simile. Di tracce tecniche nemmeno l’ombra: nessuna impronta digitale, niente Dna, nemmeno l’orma di una scarpa o di uno stivale: il giorno prima avevano lavato il cemento per la posa in opera della pavimentazione e dei tubi del riscaldamento. Nel rapporto di Kim Erik Lokker, un tecnico della Scientifica che doveva essere stato assunto dopo che Harry se ne era andato, erano descritti due sassolini grigio scuro rinvenuti per terra e che non provenivano dalla ghiaia presente nei pressi della scena del crimine. Lokker faceva notare che spesso qualche sassolino si conficcava nelle suole a carrarmato di scarponi e stivali per poi cadere quando si camminava su un terreno piú solido, come sul cemento. E che quelle pietre erano talmente insolite che se fossero ricomparse in un secondo momento nel corso delle indagini, per esempio in un vialetto inghiaiato, forse si sarebbero potute confrontare. Al rapporto datato e firmato era stata fatta un’aggiunta: erano state trovate tracce infinitesimali di ferro e di coltan sulla parte interna di due molari.
Harry già immaginava gli sviluppi. Continuò a sfogliare.
L’altra ragazza si chiamava Charlotte Lolles. Padre francese, madre norvegese. Residente a Lambertseter, una città satellite di Oslo. Ventinove anni. Laureata in giurisprudenza. Viveva da sola, ma aveva un ragazzo: un certo Erik Fokkerstad che era stato scagionato fin dall’inizio, dal momento che si trovava a un convegno di geologia nel parco nazionale di Yellowstone nel Wyoming, Usa. Charlotte lo avrebbe dovuto accompagnare, ma aveva dato la priorità a un’importante causa patrimoniale a cui stava lavorando.
I colleghi l’avevano vista per l’ultima volta in ufficio martedí sera intorno alle nove. Probabilmente non era mai arrivata a casa, la ventiquattrore con i fascicoli del processo era stata trovata accanto al cadavere dietro l’auto buttata ai margini del bosco di Maridalen. Anche le controparti della causa erano state entrambe scagionate. Dal referto autoptico emergeva che sotto le unghie di Charlotte Lolles erano stati rinvenuti frammenti di vernice per automobili e di ruggine, e questo particolare confermava il rapporto stilato sul luogo del delitto che riferiva la presenza di graffi intorno alla serratura del portellone, come se avesse cercato di aprirlo. Inoltre, un esame piú approfondito della serratura aveva rivelato che era stata forzata almeno una volta. Ma probabilmente non da Charlotte Lolles. Harry suppose che l’avessero legata a qualcosa che stava all’interno del bagagliaio, da cui il tentativo di aprirlo. Qualcosa che l’assassino si era portato via dopo. Ma cosa? E come? E perché?
Il verbale di un interrogatorio citava una collega dello studio legale: «Charlotte era una ragazza ambiziosa, lavorava sempre fino a tardi. Anche se non so quanto fosse produttiva. Sempre tranquilla, ma meno estroversa di quanto i suoi sorrisi e il suo aspetto meridionale facessero pensare. Un po’ chiusa, in realtà. Per esempio, parlava raramente del suo compagno. Però ai capi piaceva».
Harry si immaginò la collega rivelare a Charlotte un particolare intimo dopo l’altro sul proprio ragazzo, senza ricevere in cambio che un sorriso. E il suo cervello di investigatore andava quasi con il pilota automatico: magari Charlotte si era chiamata fuori da un’amicizia femminile ambigua, magari aveva qualcosa da nascondere. Magari…
Harry guardò le foto. Lineamenti un po’ duri ma belli. Occhi scuri, sembravano quelli di… accidenti! Abbassò le palpebre. Le rialzò. Sfogliò fino al referto del medico legale. Fece scorrere lo sguardo sul foglio mentre leggeva.
Dovette riguardare il nome di Charlotte in cima alla pagina per assicurarsi di non essersi rimesso a leggere quello di Borgny. L’anestetico. Le ventiquattro ferite in bocca. Annegamento. Nessun’altra forma di violenza esterna, nessun segno di violenza sessuale. L’unica differenza era l’ora del decesso, stabilita fra le ventitre e la mezzanotte. Ma anche qui avevano aggiunto che erano state trovate tracce di ferro e di coltan su uno dei denti della vittima. Verosimilmente la Scientifica aveva pensato che potesse essere importante, dal momento che erano state trovate su entrambe le vittime. Non era il minerale di cui era fatto il robot Terminator di Schwarzenegger?
Harry si rese conto di essere decisamente sveglio, oltre che seduto sul bordo della poltrona. Sentí il formicolio, la tensione. E la nausea. Come quando mandava giú il primo drink, quello che gli torceva lo stomaco, quello che il suo corpo respingeva disperatamente. Anche se ben presto ne avrebbe implorato ancora. Sempre di piú. Finché l’alcol non avrebb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il leopardo
  4. Nota del traduttore
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Parte quarta
  9. Parte quinta
  10. Parte sesta
  11. Parte settima
  12. Parte ottava
  13. Parte nona
  14. Parte decima
  15. Epilogo
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright