La strada del davai
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La strada del davai

  1. 640 pagine
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La strada del davai

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« La strada del davai (davai in russo significa: avanti, cammina!) non mi ha fatto dormire per parecchie notti: ma non perché i fatti raccontati mi siano nuovi giacché anch'io, allora, vi fui dentro sino al collo, ma per la verità atroce che continua anche oggi nella vita dei sopravvissuti, e per la luce in cui sono messe queste testimonianze. Parla, questo terribile documento umano, di quello che accadde sul fronte orientale a molti italiani, alpini nella Cuneense. La guerra sul fronte russo: i popoli, gli eserciti, l'individuo e la moltitudine ci vengono incontro come fosse ancora ieri e riproviamo le atrocità, gli eroismi, le spavalderie, la generosità, gli egoismi, la pazzia e l'ironia in un paradosso gigantesco. Ci viene spontaneo dire: ma in questo tempo abbiamo vissuto? Ma queste cose sono accadute?» Mario Rigoni Stern

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858409541
Argomento
Storia

Parte prima

Se avrò una terza figlia la chiamerò Vera

X,
classe 1921.
Nel luglio 1941, in una quarantina, dalla Sicilia in Russia alla divisione Torino del Csir.
Subito avviene l’inserimento nella fase operativa. Il morale è alto. Grandi marce in avanti, prima sosta a Stalino, scaramucce. L’inverno trascorre attorno a Stalino, nei villaggi.
Con la primavera 1942, verso maggio, incomincia l’avanzata. Alla fine di luglio si raggiunge il Don.
Sono in forza alla 12a compagnia mitraglieri. Siamo schierati proprio sul fiume, i russi sono vicini, sull’altra riva del Don.
Il morale è ancora alto perché si parla di rimpatrio. Abbiamo già il «nastrino del ghiaccio», un nastrino blu con righe gialle nel mezzo. Molti dei nostri, i piú anziani, sono già rientrati in Italia. Il mangiare è buono, l’equipaggiamento anche.
I russi, con la notte, svolgono la propaganda con gli altoparlanti. Parlano in italiano schietto, gridano: «Italiani arrendetevi. Non è vero che vi portiamo in Siberia come dice la vostra propaganda». Noi si risponde con insulti. Le sparatorie sono rade e poche.
Alla fine di agosto la Sforzesca ripiega. In linea arriva la notizia degli ufficiali catturati in pigiama, e la cosa non ci stupisce.
Nel novembre mi trovo a Kantemirovka, nell’attesa del rimpatrio per avvicendamento. Siamo sicurissimi di tornare in Italia. Sistemati in baracche piene di cimici e pidocchi.
Un brutto giorno, verso la fine di novembre, ci distribuiscono i cappotti con pelliccia. Marca male, capito al volo. Noi si dice: «Ma scusi, signor tenente, noi dobbiamo rimpatriare, e il cappotto non ci serve piú». «Ordine cosí», è la risposta.
Il 6 dicembre, sempre a Kantemirovka, Radio Scarpa segnala piccoli attacchi russi contro le divisioni di fanteria italiane.
I nostri ufficiali ci dicono: «Il rimpatrio è sospeso, mancano soldati al fronte. Chi chiede di raggiungere il I battaglione della Torino sarà di rincalzo. Chi vuole andare al II o al III battaglione sarà fisso in linea».
Chiedo di raggiungere il III battaglione dell’81° reggimento della Torino, quello del colonnello Santini.
In camion fino a Millerovo, poi fino a Sukuidonez. A piedi dieci chilometri, e sono sul Don.
In linea sono molti gli ufficiali nuovi, di complemento.
Anche metà dei soldati sono nuovi, appena giunti dall’Italia. Il morale è a terra. Il mangiare è scarso, il vino è un pezzo di ghiaccio. Siamo sistemati in bunker sotto terra. Noi della 12a compagnia mitraglieri abbiamo la Breda, la migliore mitraglia che c’è sul fronte russo.
Il morale è a terra perché siamo stanchi della Russia. Ma si vive tranquilli, senza alcuna sparatoria. Su questo fronte non esistono gli altoparlanti, c’è un gran silenzio. Il mio tratto di linea è il piú avanzato sull’ansa del Don. Il fiume è strettissimo, otto, dieci metri, ed è gelato.
Le nostre pattuglie vanno sovente oltre il Don, ma trovano le postazioni russe deserte. Allora noi in linea, e le nostre pattuglie oltre il Don, si canta Giovinezza a squarciagola. Di là sempre silenzio come se il fronte russo non esistesse. Nemmeno le armi provano.
Cosí fino al 19 dicembre. Verso l’alba, alle 4, arriva l’ordine di ripiegare un poco. Si smonta la linea, postazione per postazione, a piedi si muove all’indietro. Quando la nostra compagnia si trova riunita in colonna è ormai giorno. Incontriamo anche le altre compagnie, sempre in colonna si cammina all’indietro.
All’improvviso piovono sulla nostra colonna i primi colpi di artiglieria. I colpi arrivano da tre direzioni; non dal Don, ma dalle nostre retrovie. Noi si dice: «È la nostra artiglieria che sbaglia, che fa tiro corto». Anche i nostri ufficiali la pensano cosí. Ma i colpi centrano, sono molti i nostri feriti. Adesso tutto il reggimento si riunisce, fa massa. È un errore grave fare mucchio, ormai è chiaro che sono le artiglierie russe che sparano, che siamo accerchiati.
Si riprende il cammino in colonna, ma già non si capisce piú nulla, si va indietro e basta.
Verso le 10, mentre la colonna procede su una pista, arrivano dieci carri armati, carri armati cosí grossi che sembrano montagne. Sui carri, appesi a grappoli, soldati russi che sparano raffiche.
Tutti si grida: «Vengono i russi, vengono i russi», ed è un flagello. I carri manovrano in due gruppi. Un gruppo prende la colonna d’infilata, l’altro la investe sul fianco. I carri passano e schiacciano.
Butto via tutto. Forse qualcuno dei nostri spara. C’è una confusione impressionante. Incomincia qui lo sbandamento.
Corro, scappo, mi trovo in mezzo all’artiglieria della Cosseria che da tre giorni sta correndo da una parte e dall’altra, da sinistra a destra, sempre sbattendo contro i russi. Poi vado avanti per conto mio, cercando di evitare le colonne, la confusione.
Nel pomeriggio, camminando, correndo, raggiungo un villaggio con pochi sbandati. C’è la sussistenza di un reggimento di fanteria. A volontà ci riforniamo di marmellata e burro, tutto è libero, abbandonato. Passo la notte in un’isba. Nel villaggio c’è la popolazione. Nella mia isba ci sono due donne, e la notte trascorre tranquilla.
All’alba usciamo dall’isba, si finisce di nuovo nel mezzo della colonna, tra gli avanzi della fanteria, tra migliaia e migliaia di uomini.
I generali, i colonnelli tentano di riordinare un po’ la colonna, di ricostruire qualche reparto. Gridano: «Bisogna sfondare per non finire in Siberia. Fuori la Torino, la divisione piú organica». Ma chi vogliono che salti fuori! Allora gridano «avanti, avanti», e la colonna riprende il movimento.
È il 20 dicembre. Nel pomeriggio si sta camminando su una pista che scende in una conca. All’improvviso, proprio quando il grosso della colonna è sul fondo, ci rendiamo conto di essere accerchiati dai russi.
Dai bordi alti della conca carri armati russi e fanteria incominciano a sparare con tiro teso sulle nostre teste. I russi sparano senza colpirci, le raffiche passano alte: vogliono la nostra resa. Tra noi si grida: «Alziamo bandiera bianca, alziamo bandiera bianca». Sul centro della massa nera vedo alzarsi una bandiera bianca.
Allora la fanteria russa incomincia a scendere verso noi, senza sparare.
Ma purtroppo gli italiani sparano, sparano contro i russi, cosí la nostra diventa la «valle della morte». Per quindici minuti i russi sparano senza requie. Finimondo, molti morti, chi grida di qua, chi grida di là, non si capisce piú nulla.
Scappiamo un gruppo su una via che sembra libera: siamo nove o dieci. Sono sfinito, ma corro fino a un villaggio che dista dalla «valle della morte» un paio di chilometri. Nel villaggio c’è la popolazione, ci sistemiamo nelle isbe.
A sera ci accorgiamo che il nostro villaggio è in parte occupato da truppe russe, ma non abbiamo scelta. Restiamo lí tutta la notte e tutto il giorno successivo, il 21 dicembre.
All’alba del 22 tentiamo di uscire dall’isba, ma le donne ci dicono che i russi sono fuori che aspettano. Infatti i russi sono lí, pronti a catturarci.
Buttiamo via il portafoglio. La nostra propaganda in linea era questa: «Se i russi vi trovano addosso immagini di Madonne o il fascio vi ammazzano o vi mandano in Siberia». Nel portafoglio avevo la carta d’identità con su il fascio.
I russi sono ragazzi, partigiani, armati di parabellum: sono sette o otto e gridano: «Ruki karman, mani in alto». Almeno da tre giorni eravamo disarmati.
«Davai». C’inseriamo in una colonna di prigionieri che subito si fa grande con migliaia di italiani.
Si cammina tutto il giorno 22. A sera, in un villaggio, pernottiamo in una chiesa.
All’alba del 23 si riprende il cammino. Camminiamo per giorni e giorni, ritroviamo sempre gli stessi villaggi. Infatti è un girotondo continuo, è come se girassimo su un’enorme pista circolare. Certamente è tutta propaganda: vogliono dimostrare alle popolazioni che hanno catturato molti prigionieri, siamo sempre gli stessi che sfiliamo da un villaggio all’altro. La scorta russa né ci insulta, né ci picchia. Ha soltanto tirato fuori dalla colonna gli italiani biondi, credendoli tedeschi.
Le donne ci aiutano molto buttandoci del pane per sfamarci. E non temono la scorta che le colpisce con il calcio del fucile.
Il 2 gennaio 1943 il camminare in girotondo finisce. Saremo ventimila. In una stazione la tradotta ci inghiottisce. Tanti sono congelati e feriti, ufficiali e soldati.
Nei vagoni bestiame si sta ritti in piedi, uno contro l’altro. I vagoni sono chiusi dall’esterno.
Il viaggio va a rilento. Dai finestrini, a volte, la scorta russa butta una pagnotta. Nella notte, sempre dai finestrini, noi buttiamo giú i nostri morti.
Un giorno i russi aprono i vagoni, ci contano. Alla partenza, nel mio vagone eravamo sessanta: adesso siamo rimasti una metà, trenta morti li abbiamo buttati. I russi ci dicono: «Piú niente pane, perché mancano trenta prigionieri».
Dieci giorni, e si arriva vicino a Tambov. Il mio peso normale era sessanta-sessantotto chili. Adesso sono solo piú ossa, peso trenta-trentacinque chili. È sera, ci incolonniamo. Ci sorreggiamo sottobraccio l’un l’altro. Camminiamo non piú di cento metri. Il campo è il 58 centrale6. Incontriamo prigionieri della Sforzesca, tedeschi, ungheresi, rumeni, molte migliaia.
Donne russe procedono alla visita medica. Distribuzione di acqua calda da bere.
Scoppia quasi subito un’epidemia di diarree. I medici dicono che la colpa è dell’acqua calda che abbiamo bevuto appena arrivati al campo.
Andare al gabinetto è un problema serio. Molti muoiono là, non riescono piú ad alzarsi per la debolezza.
Il mangiare è questo: due gavettini al giorno di cavoli sott’aceto.
La vita del prigioniero, dopo un mese dall’arrivo al campo 58 centrale, è questa: si dorme sul legno, vestiti, con le scarpe legate al collo perché di notte non le rubino. Sfiliamo le stringhe ogni sera: le scarpe servono da cuscino, le stringhe uniscono le scarpe al nostro collo come un lucchetto. Dormiamo su due metri quadrati, in dieci. Se uno si gira tutti si svegliano. All’alba la sveglia. Il comandante di compagnia, uno dei nostri, fa l’adunata fuori nel freddo. Ginnastica, con uno dei nostri che comanda. Una tortura, anche se i russi dicono che serve per la salute! Prima colazione: un gavettino di cavoli sott’aceto e 200 grammi di pane nero. Sono fortunati quelli che pescano cavoli: sovente non si raccoglie che acqua. In baracca fino al pomeriggio. A sera ancora cavoli, poi a dormire.
Questa vita continua fino all’aprile. Poi si parla del «lavoro» e si incomincia con la visita medica. Chi è grosso di sedere finisce nella 1a categoria. Sono donne che ci passano la visita. Giú i pantaloni, e la visita è fatta. Io sono piccolo di sedere, non andrò mai a tagliare legna con quelli di 1a categoria.
Sono di 2a categoria, vado in segheria a tagliare legname.
La «norma» è cinquanta tavole al giorno. In squadra si va d’accordo, sempre si raggiunge la «norma». Cosí ci spettano 400 grammi di pane in piú della razione. Chi fa mezza «norma» ha diritto a 200 grammi di pane. A chi sta sotto la metà «norma», nulla.
In questo campo – quando la temperatura supera i 20-25 grad...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La strada del davai
  3. Prefazione
  4. La ritirata di Russia
  5. La strada del davai
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright