1. 4 giugno 1968. Il mare di Malibu era molto agitato. Robert Kennedy, insieme al figlio David, si divertiva a sfidare le onde entrando e uscendo dall’acqua mentre si frangevano sulla riva. A un certo punto un cavallone li travolse entrambi. David si procurò pure una piccola escoriazione sulla fronte. Niente di che. Robert trascorse poi un rilassante pomeriggio in piscina. Verso sera dovette però lasciare la residenza dell’amico regista John Frankenheimer per trasferirsi all’Ambassador Hotel di Los Angeles e seguire da lí i risultati delle primarie in California e South Dakota, che lo vedevano in corsa per la nomination del Partito democratico alle elezioni presidenziali.
Partí da Malibu a malincuore. Era stata una giornata piacevole. Avrebbe preferito trascorrere insieme alla famiglia e agli amici piú cari anche la serata, che in caso di vittoria si sarebbe potuta rivelare decisiva per la sua carriera politica. Ma all’Ambassador le reti televisive avevano già inviato le proprie troupe e nella Royal Suite il suo staff aveva allestito la postazione da cui attendere insieme a lui l’esito elettorale.
Alle 19,15 Robert arrivò all’hotel. Dopo pochi minuti i primi risultati parziali del South Dakota: era in testa con il cinquanta per cento delle preferenze. Un successo che il conteggio definitivo avrebbe confermato. I voti della California giunsero piú lentamente. In prima battuta sembrò in vantaggio uno dei suoi avversari, Eugene McCarthy. Ma le proiezioni della CBS andavano in direzione opposta. E alla fine si sarebbero rivelate corrette.
In tarda serata le cifre non diedero piú adito a dubbi: Robert Kennedy aveva trionfato nelle primarie sia del South Dakota che della California. A questo punto doveva scendere nell’Embassy Ballroom per celebrare il successo, come di rito, con un victory speech. Fumato un sigaro e riletti ancora una volta i risultati alla televisione, salutò in modo scherzoso alcuni dei suoi collaboratori che sarebbero rimasti nella stanza. Nel corridoio incontrò la figlia Courtney e si intrattenne con lei per qualche minuto, chiedendole come avesse trascorso la giornata. Infine raggiunse la grande sala da ballo dell’albergo, gremita già da diverse ore. Al suo arrivo, i sostenitori piú giovani, ormai nel pieno dei festeggiamenti, lo accolsero ballando e cantando.
Kennedy cominciò a parlare lasciandosi ispirare dall’atmosfera di entusiasmo che lo circondava. Andò avanti per circa un quarto d’ora. Poi salutò, fece con la mano il segno «V» di vittoria alla Churchill e scese dal palco tra gli applausi. Di solito attraversava completamente la sala in cui aveva tenuto un discorso. Non si sottraeva mai ai bagni di folla. Li considerava anzi vitali per il suo rapporto con il pubblico. Sennonché, forse temendo un eccesso di frenesia da parte dei presenti, o forse semplicemente perché stanco dopo ottantadue giorni di campagna elettorale, questa volta preferí utilizzare un’uscita laterale meno accalcata.
Passò per le cucine dell’albergo. Mentre allungava il braccio per stringere la mano a un membro del personale, all’improvviso un giovane palestinese gli puntò una pistola alla testa e sparò diversi colpi. Era a pochi metri da Kennedy e pertanto, pur adoperando una «calibro ventidue», arma non necessariamente letale, lo lasciò in un lago di sangue. Altre cinque persone delle ottanta che erano presenti, tutte nel raggio di un paio di metri, rimasero ferite.
Grazie alla presenza di giornalisti, microfoni radiofonici e telecamere televisive, quegli istanti sarebbero rimasti drammaticamente impressi in fotografie e sequenze audiovisive. L’attentatore, Sirhan Sirhan, venne subito fermato e immobilizzato. La gente gridava e piangeva. Kennedy era a terra. Gli allentarono il nodo della cravatta e sbottonarono la camicia. Perse e riprese conoscenza piú volte nel giro di pochi minuti. «State indietro! Lasciatelo respirare!», esortarono coloro che gli davano i primi soccorsi1.
Venne trasportato al Good Samaritan Hospital, dove lottò per tutto il giorno tra la vita e la morte. Molte persone vegliarono davanti alla sua finestra, in attesa di notizie. Robert Kennedy morí all’1,44 del 6 giugno. Aveva quarantadue anni.
L’ultimo viaggio fu quello da New York City a Washington. Il treno con la salma di RFK, coperta da una bandiera americana, partí all’una del pomeriggio. Alla stazione ferroviaria regnò il silenzio e il dolore. Lo sconcerto e la disperazione. «Riposa in pace, Robert», «Chi sarà il prossimo?», «Abbiamo perso l’ultima speranza». Questi i cartelli con cui la folla espresse i propri sentimenti.
Ad attendere per ore il passaggio del treno a Baltimora un’altra folla, a maggioranza nera. Le mani si unirono e si levò il canto del Battle Hymn of the Republic. Centotre anni prima Baltimora aveva accolto allo stesso modo un altro treno funebre: quello di Abraham Lincoln2.
L’ultima corsa di Kennedy si concluse dopo le 9, con l’arrivo a Washington. Il buio pareva essere calato definitivamente sugli Stati Uniti. Solo cinque anni prima il paese era stato già colpito al cuore. A Dallas un uomo dalla personalità instabile, Lee Harvey Oswald, aveva atteso che JFK, a bordo di un’auto scoperta assieme alla moglie Jackie, transitasse davanti all’edificio del Texas School Book Depository, dove egli lavorava, per sparargli alla testa. Mezz’ora dopo l’attentato, nonostante la corsa al Dallas Parkland Memorial Hospital, il presidente era morto. Non vi era stato un trauma cosí forte per l’America fin dall’attacco di Pearl Harbor nel dicembre del ’413.
La morte di JFK aveva avuto l’effetto di rendere immediatamente evidente che la sua eredità politica sarebbe spettata a Robert. La famiglia si sentiva destinata a diventare una dinastia politica, come non era mai accaduto nella storia statunitense: nell’Ottocento gli Adams non avevano osato coltivare apertamente tale ambizione e nella prima metà del Novecento i Roosevelt erano stati un clan troppo diviso al proprio interno per realizzare un simile progetto.
Robert aveva seguito passo dopo passo l’ascesa politica di John. Era stato il suo manager nella difficile campagna senatoriale del 1952, quando JFK si era trovato un avversario fortissimo come Henry Cabot Lodge. E nuovamente lo aveva affiancato nella corsa alla Casa Bianca del 1960. Negli anni della presidenza, poi, era stato il braccio destro e il piú intimo consigliere del fratello. Oltre a ricoprire uno degli incarichi piú importanti del governo federale, quello di ministro della Giustizia, si era assunto la responsabilità della supervisione sulle operazioni di intelligence, aveva coadiuvato il presidente in politica estera e aveva mantenuto i rapporti con i boss del Partito democratico in tutto il paese.
Teddy, il piú giovane dei fratelli Kennedy, era stato già eletto senatore del Massachusetts nel ’62 e aveva dimostrato di possedere la stoffa dell’uomo politico. Aveva ottenuto subito un’ottima accoglienza da parte dei colleghi in Senato, che probabilmente lo ritenevano piú affabile rispetto a Robert, spesso caustico nei suoi atteggiamenti. Sennonché la famiglia intendeva attenersi rigidamente alla regola della primogenitura. Del resto, la questione era stata posta con chiarezza dallo stesso John, quando aveva affermato: «Nel caso in cui mi capitasse qualcosa, Bobby continuerà la mia opera, e se capiterà qualcosa a lui, sarà la volta di Teddy»4.
Accanto alle ragioni «dinastiche» che lo favorirono, comunque, Robert Kennedy seppe imprimere nel proprio impegno politico caratteri di originalità e novità, non solo rispetto alla presidenza di JFK, ma piú in generale alla cultura politica dominante nel Partito democratico americano. Facendosi interprete, infatti, delle istanze di democratizzazione provenienti nei primi anni Sessanta dal movimento dei neri, dall’opposizione alla guerra in Vietnam e dalla protesta studentesca, Robert, soprattutto dopo la morte del fratello, espresse con grande semplicità, ma proprio per questo efficacemente, l’esigenza di una profonda revisione ideologica della sinistra liberal, che aveva privilegiato un riformismo «dall’alto» della società americana, puntando sull’espansione dei poteri governativi e sulle politiche di spesa. «Il denaro di per sé non è una soluzione – egli sostenne, ad esempio, in un discorso nel ’66 […]. Ci sono cose piú importanti dello spendere. Si chiamano immaginazione, coraggio e determinazione»5.
Nei suoi ultimi cinque anni di vita, dal ’64 al ’68, RFK diede pertanto voce all’esigenza diffusamente sentita di una profonda rivoluzione politica. Anche di fronte alla mitizzazione del fratello, egli avvertí che i veri cambiamenti non sarebbero potuti provenire semplicemente dalla «leadership»; era necessario riattivare la partecipazione, restaurare il senso della comunità e non lasciare che il futuro del paese dipendesse unicamente dalle decisioni del governo centrale. L’America non aveva bisogno di programmi governativi sempre piú ampi «ma di piú grande partecipazione», mettendo le risorse a disposizione delle comunità e dando ai cittadini la possibilità di determinare come meglio adoperarle6.
Gli anni Sessanta misero fine all’immagine della società americana che è stata ben rappresentata dalla serie televisiva Happy Days, un’immagine costruita intorno alla famiglia bianca di classe media: villetta di proprietà, auto, televisore e giradischi7. Un libro di successo del ’62, The Other America di Michael Harrington, contrappose a quel compiacimento per l’opulenza generale la riscoperta di una deprivazione diffusa. L’autore denunciò la totale falsità del discorso pubblico secondo cui negli Stati Uniti vi erano solo «sacche inconsistenti di povertà». La verità era che l’indigenza aveva riguardato, nel decennio appena conclusosi, 50 milioni di americani. La loro miseria era stata però tenuta nascosta negli slums, rimanendo pertanto invisibile agli occhi del ceto medio8.
Orbene, proprio dalla «convergenza dei membri piú esclusi della società che chiedevano pieno accesso a tutti i suoi benefici con i figli della classe media benestante che rifiutavano le trad...