Poco dopo l’una, porto il caffè appena fatto allo studio del primo piano. La porta è aperta come sempre. La signora Saeki è in piedi, accanto alla finestra, e guarda fuori. Ha una mano posata sulla cornice della finestra. Sembra immersa nei suoi pensieri. L’altra mano gioca, probabilmente senza che lei ne sia cosciente, con i bottoni della camicetta. Sulla scrivania non ci sono né penna stilografica né fogli di carta. Poso lí sopra la tazza di caffè. Il cielo è ricoperto da un leggero strato di nuvole, e non si sentono voci di uccelli.
Quando mi vede, come tornando improvvisamente in sé, si stacca dalla finestra, torna a sedersi alla scrivania e prende un sorso di caffè. Poi, allo stesso modo di ieri, con un gesto mi invita ad accomodarmi. Mi siedo. Dall’altro lato della scrivania, la guardo bere il caffè. Mi chiedo se ricorda qualcosa di quanto è accaduto durante la notte. Impossibile dirlo. A giudicare dal suo atteggiamento, potrebbe essere perfettamente consapevole come all’oscuro di tutto. La rivedo nuda. Ripercorro con la mente la sensazione del contatto con ogni parte del suo corpo. Ma era davvero il corpo di questa signora Saeki? Non ne sono piú tanto sicuro, anche se al momento la mia sensazione non lasciava spazio a dubbi.
Oggi indossa una camicetta verde acqua dal tessuto lucente e una gonna beige piuttosto attillata. Dallo scollo della camicetta si intravede una sottile collana d’argento. È molto elegante. Noto le sue dita sottili, squisitamente modellate, che poggiano incrociate sulla scrivania.
– Allora? La zona comincia a piacerti? – mi chiede.
– Intende Takamatsu? – chiedo a mia volta.
– Sí.
– Non saprei dirlo. Finora non ho visto quasi niente, a parte i pochi posti dove sono stato: questa biblioteca, la palestra, la stazione, l’albergo… Non abbastanza per farsi un’idea.
– Non ti sembra una città noiosa?
Scuoto la testa.
– Mah, non saprei. Per la verità non ho avuto il tempo di annoiarmi, e poi le grandi città mi sembra si somiglino un po’ tutte. Perché? Lei pensa che sia noiosa?
Si stringe leggermente nelle spalle.
– Sicuramente lo pensavo quando ero giovane. Volevo andarmene. Andare via di qui, e trovare un posto dove le cose fossero diverse, e le persone piú interessanti.
– Piú interessanti?
Scuote appena la testa.
– Ero giovane, – dice. – Di solito i giovani pensano questo tipo di cose. Tu no?
– No, non mi è mai venuto in mente. Non ho mai pensato che andando in un altro posto ci avrei trovato qualcosa di piú interessante. Volevo andare da qualche altra parte solo perché non sopportavo di stare lí.
– Lí dove?
– A Nogata, nel quartiere di Nakano. La zona di Tōkyō dove sono nato e cresciuto.
Ho la sensazione che, nel sentire quel nome, un impercettibile lampo le attraversi gli occhi. Ma non ne sono sicuro.
– Quindi non ti preoccupavi troppo di quale sarebbe stata la tua meta, una volta andato via di lí, – dice la signora Saeki.
– È cosí, – dico. – Non me ne preoccupavo piú di tanto. Pensavo solo che se fossi rimasto, per me sarebbe stata la fine. Per questo me ne sono andato.
Lei si guarda le mani poggiate sulla scrivania, come se osservasse un oggetto. Poi dice con tono pacato:
– Anch’io la pensavo come te. A vent’anni, quando sono andata via di qui. Pensavo che se non fossi partita non sarei sopravvissuta. Ero convinta che non avrei mai piú rivisto questo posto. Non avevo nessuna intenzione di venire di nuovo qui. Ma poi sono successe tante cose, e alla fine non ho potuto fare a meno di tornarci. Ed è come se mi ritrovassi al punto di partenza.
La signora Saeki si gira verso la finestra alle sue spalle e guarda fuori. Le nuvole che ricoprono il cielo hanno lo stesso identico colore. Non c’è un soffio di vento. Tutto ciò che si vede è completamente immobile, come lo sfondo dipinto di un set cinematografico.
– Nella vita succedono molte cose imprevedibili, – dice la signora Saeki.
– Vuol dire che anche a me potrebbe accadere di ritornare nel posto da cui sono venuto?
– Naturalmente questo non posso saperlo. È una cosa che riguarda te, e se avverrà è probabile che sarà molto piú tardi. Ma io penso che il luogo in cui si nasce e quello in cui si muore siano molto importanti per ognuno di noi. Quello in cui si nasce, è ovvio, nessuno può sceglierlo. Però, entro certi limiti, abbiamo il potere di scegliere dove morire.
Parla con voce calma, continuando a guardare dalla finestra. Quasi stesse parlando con un interlocutore immaginario che si trova lí fuori. Poi, tutt’a un tratto, si volta nella mia direzione, come se si fosse improvvisamente ricordata di me.
– Perché ti sto confidando tutte queste cose?
– Perché non sono di queste parti, e c’è tanta differenza di età fra noi due, – dico.
– Sí, forse hai ragione, – ammette.
Poi per qualche istante scende il silenzio. Non dura a lungo, solo venti o trenta secondi, durante i quali probabilmente ognuno segue il corso dei propri pensieri. Lei prende la tazza fra le mani e beve un sorso di caffè.
Sono io a parlare per primo. Con tono deciso, le dico:
– Signora Saeki, credo di avere anch’io qualcosa da confidare a lei.
Mi guarda. Poi sorride.
– Si direbbe che ci stiamo rivelando a vicenda i nostri segreti.
– Quello che vorrei dirle io non è un segreto, ma una semplice ipotesi.
– Un’ipotesi? – chiede. – Vuoi confidarmi un’ipotesi?
– Sí.
– Sono incuriosita.
– Riprendendo il discorso di prima… Voleva dire che è tornata in questa città per morire? – chiedo.
Sulle sue labbra appare un sorriso tranquillo, simile a una luna bianca all’alba.
– Può darsi che sia cosí. Ma se anche fosse, dal punto di vista della vita che conduco, non farebbe molta differenza. Che uno sia tornato per vivere o per morire, le cose da fare ogni giorno sono piú o meno le stesse.
– Lei cerca la morte, signora Saeki?
– Non lo so, – risponde. – Non so dirlo nemmeno io.
– Mio padre ad esempio cercava la morte.
– Tuo padre è morto?
– Da poco, – rispondo. – Davvero da pochissimo.
– E perché tuo padre avrebbe cercato la morte?
Tiro un respiro profondo.
– Non avevo mai capito perché. L’ho capito solo di recente. Dopo essere venuto qui.
– E perché?
– Io penso che mio padre fosse innamorato di lei. Però non aveva trovato il modo per riportarla da lui. O forse sin dal principio non era mai riuscito ad averla veramente. Mio padre l’aveva capito. E per questo cercava la morte. E voleva che a ucciderlo fossi io, suo figlio, ma anche il suo, signora Saeki, vostro figlio. E mio padre voleva pure che io facessi l’amore con lei, mia madre, e con mia sorella. Era la sua profezia, e la sua maledizione. Mi aveva programmato per realizzarla.
La signora Saeki posa la tazza che ha in mano sul piattino, producendo un suono stranamente neutro. Mi guarda in viso. Ma capisco che non mi vede: sta solo fissando un punto nello spazio.
– Dovrei conoscerlo, tuo padre?
Scuoto la testa.
– Come ho detto prima, è solo un’ipotesi.
Posa le mani sulla scrivania, una sull’altra.
Quel sorriso aleggia ancora, impercettibile, sulle sue labbra.
– Secondo la tua ipotesi, quindi, io sarei tua madre.
– Sí, – rispondo. – Lei ha vissuto con mio padre, mi ha partorito, e poi se n’è andata, abbandonandomi, l’estate in cui ho compiuto quattro anni.
– Sempre secondo la tua ipotesi.
Annuisco.
– Per questo l’altro giorno mi hai chiesto se avevo figli.
Annuisco.
– E io ti ho detto che non potevo rispondere alla tua domanda. Né con un sí né con un no.
– Esatto.
– Quindi la tua rimane solo un’ipotesi.
Annuisco di nuovo.
– Sí, rimane un’ipotesi.
– E dimmi… come è morto tuo padre?
– È stato ucciso da qualcuno.
– Ma non sei stato tu a ucciderlo, vero?
– No, non sono stato io a ucciderlo. Non con le mie mani. Stando semplicemente ai fatti, ho un alibi.
– Ma non sembri esserne convinto.
– Infatti non ne sono convinto.
La signora Saeki prende di nuovo la tazza fra le mani, e beve un sorso di caffè. Tuttavia è solo un gesto meccanico.
– Ma cosa ha spinto tuo padre a lanciarti una maledizione simile?
– Penso che fosse un modo di trasmettermi la sua volontà, – rispondo.
– La volontà che tu mi desiderassi?
– Sí, – rispondo.
La signora Saeki abbassa lo sguardo, fissando il fondo della tazza che ha in mano, quindi solleva di nuovo il viso.
– E tu, mi desideri?
Faccio un solo, chiaro cenno di assenso con la testa. Lei chiude gli occhi. Io la osservo. Riesco a vedere attraverso le sue palpebre chiuse l’oscurità che sta guardando. Le forme piú strane vi appaiono, e si dissolvono. Poi infine, lentamente, riapre gli occhi.
– Anche questo fa parte della tua ipotesi?
– No, non c’entra niente. Io la desidero, e questo ha già superato lo stadio dell’ipotesi.
– Vorresti fare l’amore con me?
Annuisco.
Socchiude gli occhi, come chi è abbagliato da una luce troppo forte.
– Hai mai fatto l’amore con una donna?
Annuisco ancora una volta. Sí, ieri notte, con te, penso. Ma non riesco a dirlo. Lei non ricorda nulla.
La signora Saeki fa una specie di sospiro.
– Tamura, credo non ci sia bisogno di ricordartelo, ma tu hai quindici anni, e io piú di cinquanta.
– Il problema è piú complicato di cosí. Qui non stiamo parlando del tempo in questi termini. Io conosco lei com’era a quindici anni. Mi sono ...