Metafisica della peste
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Metafisica della peste

Colpa e destino

  1. 224 pagine
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Metafisica della peste

Colpa e destino

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Questo libro parla di quasi niente.
Di un quasi-niente che riguarda ogni essere umano e che, aduso com'è al (diabolico?) camuffamento, ci giunge qui celato sotto la doppia maschera del morbo piú celebre della storia e della finzione letteraria, che di quel morbo fa metafora, canto, fabula. Le voci antiche e recentissime (da McCarthy a Lucrezio, a Camus, a Poe, a Leopardi...) che si susseguono e si richiamano «in eco» da queste pagine sono altrettante declinazioni di un'unica domanda, che è poi il quesito fondamentale di ogni filosofia: perché? Perché siamo al mondo, se dobbiamo morire? Specie se la morte può arrivare nella forma di una catastrofica, immotivata e noncurante malattia che appare e scompare senza senso alcuno. Una malattia che uccide, ma che può far di peggio, lasciando le sue vittime «solo» vive, nude e private di qualunque parvenza di civile umanità. Perché anche l'umanità può rivelarsi una maschera. Siamo qui per scontare una colpa? Magari solo quella di essere? È un'ipotesi amara, che però lascia spazio alla speranza, alla scintilla divina che scopre un senso possibile nel cuore stesso del non-senso. Oppure non c'è alcun destino e nessuna colpa? La natura è una macchina demente, il cielo è vuoto, e il niente la vince sul quasi-niente.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
ISBN
9788858406243

Capitolo dodicesimo

Il seme del male

Sunt multarum semina rerum, dice Lucrezio, ci sono semi diversi di cose diverse, e siccome, per quel che riguarda morbi e mali vari, cielo e terra ne producono piú che abbastanza (et satis haec tellus morbi coelunque mali fert), non deve stupire se accade che da quest’ampia seminagione erompa in tutta la sua violenza un’epidemia immensa (unde queat vis immensi procrescere morbi)1 . Se poi ci si chiede quale sia la causa scatenante, ecco l’alternativa: o qualcosa con cui veniamo casualmente in contatto e che per noi è mortifero o qualcos’altro che è nell’aria corrotta e che noi inevitabilmente inspiriamo. Che si tratti di contagio fra animali o di infezione miasmatica, comunque omnia quae naturali ratione geruntur | et quibus e fiant causis apparet origo2 , tutte queste cose si svolgono per legge naturale, non c’è nulla che non soggiaccia alla legge di causa ed effetto, inutile cercare altrove.
Questo per Lucrezio è il punto. Attribuire alla volontà, se non addirittura al capriccio degli dèi ciò che accade secondo necessità, è peggio che un errore, perché è superstizione. È quella religio fondamentalmente insensata per cui a scagliare i fulmini sul capo dei mortali è Giove, il quale agirebbe per ammonirli; ma allora non si capisce perché colpevoli e innocenti vengano colpiti senza far differenza, né tantomeno perché la rovina si abbatta sugli stessi templi eretti in onore di colui che li starebbe distruggendo, oppure sul mare, che non merita alcun rimprovero, o simultaneamente qui e là in modo del tutto casuale3 .
La natura può e deve essere compresa alla luce della verità che restituisce ogni cosa al suo ordine. E che perciò libera. Anche gli dèi, e non solo dagli dèi. I quali abitano le regioni dell’eterno. Dove tutto è sempre identico a sé. Gli dèi partecipano di questa condizione. La rappresentano e la esprimono, se pure il puramente pensabile potrà mai diventare oggetto di espressione: quando ciò è accaduto, attraverso le favole mitologiche, è accaduto il peggio che potesse accadere quanto a pervertimento dell’intelligenza e del cuore. Semplici paradigmi negativi della realtà, che è generazione e corruzione, nascita e morte, tumulto, conflitto, movimento, gli dèi sono ciò che la natura non è. Cosí come la natura esclude da sé qualsiasi presenza divina.
Infatti la natura è la potenza del divenire, mentre l’essere non è cosa di questo mondo. L’essere è: pura identità di sé con sé che non può riguardare il mondo, ma semmai l’orizzonte che lo abbraccia e sempre gli sfugge. In quanto rappresentano l’essere, ne sono l’immagine intramontabile, vivono eternamente, gli dèi appartengono a un’altra dimensione; spazio degli dèi è uno spazio che non è spazio, tempo degli dèi è un tempo che non è tempo, insomma gli dèi dimorano al di là dei fiammeggianti confini del mondo – ed è da lí che il «divino» Epicuro ha strappato la verità ultima e assoluta sul mondo per rivelarla agli uomini4 .
Sorgendo dal fondo abissale della natura come dal nulla, le forme si compongono e si scompongono secondo aggregazioni e disaggregazioni regolate da leggi. Ci sono dunque principî a partire dai quali si compie la trasformazione dell’essere nel divenire. E poiché è impossibile che la trasformazione avvenga in forza di un disegno o un progetto o un intervento degli dèi, che non hanno a che fare con la realtà cangiante e diveniente, né lo potrebbero, bisogna riconoscere che questi principî, e non il nulla, sono alla radice di tutte le cose.
Lucrezio contesta la concezione presocratica, che favoleggia d’un fondamento unitario del cosmo. Perché ci sia un fondamento, dovrebbe esserci un centro. E perché ci sia un centro, dovrebbe esserci una circonferenza che delimita il tutto e ne fa un tutto finito. Ma questo è assurdo. Fra il mondo spazio-temporale e l’eterno c’è un salto che niente e nessuno possono colmare. Sia il tempo sia lo spazio sono illimitati. E dunque il limite ipotizzato come orizzonte tutto abbracciante è una pura figura della mente. È il puramente pensabile, che di fatto resta impensato – o pensato solo per negazione, come gli dèi, di cui Tenvis enim natura deum longeque remota | sensibus ab nostri animi vix mente videtur 5 , a malapena con la mente è possibile supporre la natura, tanto è distante dai nostri sensi.
Agli occhi di Lucrezio l’universo appare come un vortice infinito, senza centro proprio perché infinito, e vortice in quanto vorticoso è il movimento di ciò che vi si agita non trovando ostacoli in nessuna direzione, né lasciandosi calamitare da un punto centrale d’attrazione. Vale per il movimento quello che vale per lo spazio e per il tempo: non c’è limite alcuno. Il movimento è incessante, senza requie, quia nil est funditus imum, perché non c’è un fondo che non sia ulteriormente sfondabile, dove gli atomi o principî primi (primordia, li chiama Lucrezio) possano finalmente trovare la loro sede6 .
Diremo allora che il cosmo non è cosmo ma caos? E che l’incessante trasformazione che ha luogo nel grande vortice ha piú dell’agitazione informe e scomposta che della danza di sempre nuove forme?
Sí, se non ci fossero principî e se questi principî materiali non fossero quel che invece sono: solidissimi, indistruttibili, qualitativamente diversi gli uni dagli altri. La materia è eterna: altrimenti il mondo sarebbe già riprecipitato nel nulla e dal nulla sarebbe rinato. Ma poiché dal nulla non può venir fuori nulla, è inevitabile ammettere che i principî sono bensí quelli nei quali tutte le cose si risolvono, ma anche quelli da cui tutte le cose sono formate per l’eterno divenire del tutto7 .
Che le cose stiano cosí è la realtà stessa a dimostrarlo. Basta saperla indagare con uno sguardo scevro da pregiudizi. Le forme sorgono in seno alla natura e nella natura si dissolvono, ma sempre in base a leggi inflessibili, che esprimono il concorso degli elementi alla formazione e alla trasformazione del mondo secondo necessità. Non c’è legge che non possa essere ricondotta al movimento dei principî (infiniti) nello spazio (infinito) e nel tempo (infinito). Viceversa i principî devono essere «invitti», cioè indistruttibili e immutabili, perché in caso contrario tutto verserebbe nella piú grande confusione e non ci sarebbe nessuna legge. Invece cosí non è.
La scoperta della verità tutta dispiegata ha valore di purificazione. A liberare il cuore e la mente dalle passioni piú vili, oltre che dalla superstizione, sarà la stessa maestà delle cose8 . E maestà delle cose – cui il canto deve far da tramite, lasciando risuonare nell’animo la voce stessa della natura ed empiendolo d’una commozione tanto profonda quanto serena e imperturbata – significa letteralmente che le cose non si lasciano signoreggiare da questa o quella potenza allotria, ma sono quello che sono, in tutto il loro splendore e in tutto il loro orrore. Infatti la grandiosa macchina del mondo può schiantare e inabissarsi di colpo in forza della stessa legge di ragione che l’ha fatta funzionare multosque per annos «per molti anni»9 . Lo spavento e la meraviglia coesistono, mutano d’oggetto, ricadono l’uno nell’altra.
Verità è quella che dice la nuda oggettività del divenire. Verità è quella che svela come, dato un tempo infinito e uno spazio infinito, i principî materiali siano soggetti all’infinito movimento e quindi non possano se non omnimodisque coire atque omnia pertemptare10 , congiungersi in tutti i modi possibili e tutto provare, secondo la natura delle cose. Che l’universo sia giunto al punto in cui è ora e mostri una disposizione degli elementi tale per cui esso vive e si rinnova per una sua energia intrinseca, non implica alcun prodigio, né atto volontario di creazione, ma semplicemente realizza una delle possibilità che da sempre sono presenti nello spazio infinito, e che nel tempo infinito prima o poi necessariamente si compiono11 . Verità è liberazione dal timore. È rasserenamento dell’animo, non piú turbato dai fantasmi generati dalla superstizione. È riconciliazione con la realtà, con la natura, anche nell’infuriare dei mali piú rovinosi, anche nell’implodere del cosmo, anche nella morte.
Di due tipi sono i motus che agiscono sia nell’infinitamente piccolo sia nell’infinitamente grande, cosí come in ogni essere umano: aggregazione e disaggregazione, attrazione e repulsione, creazione e distruzione (motus genitales auctificique, gli uni e motus exitiales, gli altri12 ). Possiamo tranquillamente chiamare queste potenze con il nome di Venere e con il nome di Marte, essendo potenze che agiscono eternamente. E altrettanto tranquillamente e serenamente potremo a quel punto accogliere gli dèi nella nostra mente, poiché avremo colto nel cuore stesso del mutamento la verità che non muta, e infatti un conto sono i simulacri dell’immutabile che ci illuminano e un conto le immaginazioni ossessive che ci tormentano – e ci dominano e ci costringono a una vita pessima.
Tutto sta a comprendere la legge antinomica e tuttavia unitaria che governa il mondo. Est ratio coeli tenenda13 : afferrata la quale, il canto ne sgorgherà spontaneo e liberante, dissipando gli incubi e sciogliendo le catene della superstizione. Poesia e filosofia14 vengono a coincidere e hanno entrambe una funzione illuminante, poiché solo naturae species ratioque15 , solo la chiara visione dell’intima essenza delle cose – e non i raggi del sole, non la luce del giorno – può dissipare le tenebre e vincere il terrore in cui l’uomo precipita non appena cede a supposizioni errate. Ignorantia causarum conferre deorum | cogit ad imperium res et concedere regnum16 : l’ignoranza delle cause ci induce a credere che gli eventi siano in potere degli dèi, svilendo ad abitatori del tempo quelli che invece sono abitatori dell’eterno. Invece siamo noi, abitatori del tempo e non dell’eterno, che dobbiamo assumere l’eterno come prospettiva sul mondo e vivere nella verità, siamo noi che dobbiamo farci come dèi, siamo noi che dobbiamo scoprire nella conoscenza della vera natura delle cose una divina serenità.
Mettere in versi l’insegnamento epicureo significa, né piú né meno, proporsi come apostolo del salvatore e del redentore17 . Ma quale salvezza? E quale redenzione? Non si tratta certo di salvare il mondo – il mondo non ha bisogno di essere salvato in quanto è già da sempre in salvo, tant’è vero che non c’è forma del mondo che non conosca trasformazione, mai però annichilimento, poiché la materia è eterna, com’è eterna la supremazia dell’essere sul nulla, insomma: «Ciò che si vede non perisce dunque fino in fondo | poiché la natura ricava una cosa dall’altra e non lascia | che se ne generi alcuna se non grazie alla morte di | un’altra»18 . E neppure si tratta di salvarsi dal mondo – il mondo è quello che è e quindi non è né bene né male, essendo il male pura allucinazione, allucinazione mortifera per giunta, che entra a far parte della realtà, tant’è vero che infetta la vita e costringe a vivere succubi di paure e angosce mortali ancorché indotte dall’errore, per cui l’umanità «ritorna indietro alle antiche superstizioni | e accetta duri tiranni, che crede onnipotenti ... ed errando ancor piú è travolto da una logica c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Metafisica della peste
  3. Introduzione
  4. Metafisica della peste
  5. I. Ricaduta nella barbarie
  6. II. Experimentum crucis
  7. III. Qui ci vuole la peste
  8. IV. Quando contagioso è il linguaggio
  9. V. «... come un atomo di peste»
  10. VI. Falsa coscienza
  11. VII. «... la peste, chiamata per la gentilezza del secolo choléra»
  12. VIII. Stato d’eccezione
  13. IX. Restare o fuggire?
  14. X. Il fantasma di una pulce, una ballata e uno strano simposio
  15. XI. «Orrido cominciamento» e «dolorosa ricordazione»
  16. XII. Il seme del male
  17. Indice dei nomi di persona
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright