A che servono i Greci e i Romani?
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A che servono i Greci e i Romani?

L'Italia e la cultura umanistica

  1. 160 pagine
  2. Italian
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A che servono i Greci e i Romani?

L'Italia e la cultura umanistica

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Sempre piú spesso a chi si occupa di discipline umanistiche - e soprattutto classiche - viene chiesto: «A che cosa serve?» Dietro questa domanda agisce una rete di metafore economiche usate per rappresentare la sfera della cultura («giacimenti culturali», «offerta formativa», «spendibilità dei saperi», «crediti», «debiti» e cosí via). A fronte di tanta pervasività di immagini tratte dal mercato, però, sta il fatto che la storia testimonia una visione ben diversa della creazione intellettuale. La civiltà infatti è prima di tutto una questione di pazienza: e anche la nostra si è sviluppata proprio in relazione al fatto che alla creazione culturale non si è chiesto immediatamente «a che cosa servisse». In particolare, è proprio lo studio dei Greci e dei Romani a meritare questa pazienza: soprattutto in Italia, un paese la cui enciclopedia culturale è stata profondamente segnata dall'ininterrotta conoscenza dei classici. Se si vuole mantenere viva questa presenza, però, è indispensabile un vero e proprio cambiamento di paradigma nell'insegnamento delle materie classiche nelle nostre scuole.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858424797

Alterità degli antichi

Come forse si sarà notato, man mano che elencavamo esempi di possibili nuovi modi per far avvicinare i ragazzi alle materie classiche, ci siamo sempre piú allontanati dall’idea secondo cui conoscere una cultura corrisponderebbe – come dicevamo sopra – al semplice apprendimento di una lingua e di una (storia della) letteratura. Sotto i nostri occhi si sono infatti succedute molte altre forme culturali: teatro, riscrittura, opera lirica, cinema, retorica, arte e monumenti, e avremmo potuto ancora continuare. Non crediamo che questo scivolamento di categorie abbia carattere casuale o, peggio ancora, sia dettato da una banale smania di originalità.
Il fatto è che oggi intendiamo e usiamo il concetto di «cultura» in modo molto piú ampio rispetto al passato – e in queste nuove accezioni lo usiamo anzi con sempre maggiore frequenza e intensità. Quando si discute di «incontro fra culture», di «differenze fra culture», di «conflitto fra culture», ovvero dei «mutamenti culturali» a cui la nostra società, come quelle che la circondano, va quotidianamente incontro, non intendiamo certo incontri, differenze, conflitti o mutamenti fra paradigmi grammaticali o generi letterari: ma qualcosa di ben piú vasto e sostanziale, che ha a che fare con i modi di vita, la religione, i costumi, le tradizioni di comunità differenti. E quindi anche con la lingua, o la tradizione letteraria, che le caratterizzano, ma certo non solo con queste manifestazioni. A tale proposito vale la pena di ricordare la definizione di cultura data a suo tempo da Edward Burnett Tylor, uno dei fondatori delle discipline antropologiche: «la cultura […] intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società»1. Da quella profetica definizione di cultura sono passati circa centocinquanta anni, e Tylor ha avuto ragione. Basta guardarsi intorno per rendersene conto. Man mano che il tempo passava, all’orizzonte della «cultura» abbiamo visto affacciarsi la musica etnica, gli attrezzi agricoli raccolti nei musei di «cultura contadina», il cibo e le sue diverse tradizioni, le tante feste popolari divenute «patrimonio culturale immateriale» dell’UNESCO, l’abbigliamento, dal folclore alla moda, l’artigianato; mentre l’«assessore alla Cultura» dei Comuni grandi e piccoli organizza sempre meno presentazioni di libri (questo peraltro non ci fa piacere) e sempre piú concerti pop, gare gastronomiche, esposizioni di graffiti, festival dei madonnari; mentre fa sorgere installazioni – piú o meno bizzarre – nelle stazioni degli autobus (e anche questo non sempre ci fa piacere). L’assessore alla Cultura: che oggi lo è sempre piú spesso anche al Turismo come se fossero la stessa cosa (e questo semplicemente ci dispiace). Tutto ciò significa ormai «cultura» nella società contemporanea: certamente non piú solo una lingua e una storia letteraria, neppure quelle dei Greci e dei Romani.
Uno dei principî da cui partire per proporre – oggi – un nuovo paradigma nell’insegnamento della cultura classica è dunque il seguente: facciamo conoscere ai giovani la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate dai passati programmi scolastici, ossia lingua e letteratura. Questo non solo perché ciò appare molto piú in sintonia con le categorie contemporanee in materia di culture e della loro conoscenza, come abbiamo detto, ma soprattutto perché la scelta di allargare il campo di osservazione puntando l’obiettivo sulla cultura greca e romana in generale – e non piú solo su lingua e letteratura – ci offre una grande opportunità: essa permette di (tornare a) renderci estranei i Greci e i Romani. Tutto al contrario, il modo tradizionale di presentare la cultura classica nelle scuole, tende pericolosamente a renderceli consueti, assimilandoli a noi.
Non che i manuali di letteratura latina o greca correnti nelle scuole cadano nelle trappole della «attualizzazione» dei classici come l’abbiamo descritta sopra. O almeno, questo non accade spesso. Il fatto è che, per produrre l’effetto assimilazione, è già sufficiente l’intelaiatura stessa dei manuali di storia letteraria: i quali ripartiscono le «opere» dei singoli «autori» (dopo averne descritto la scarna «biografia») nelle scatole cinesi dei «generi letterari» – poesia epica, lirica, satirica, teatro, storia, oratoria e cosí via. Il che rende automaticamente ciascuna di queste opere, e ciascuno di questi autori, simili alle nostre opere e ai nostri autori. Catullo, poeta lirico di un amore sfortunato: ma quanti ne abbiamo avuti, e ne abbiamo anche noi, di poeti d’amore! Chiunque sa che la poesia lirica, per definizione, nasce da un cuore che sanguina. Lucrezio, poeta filosofo, apostolo di una missione intellettuale: perfetto per essere inserito nella lignée degli ideologi appassionati e contro corrente, da Tommaso Campanella a Karl Marx. Quanto a Euripide, non siamo forse di fronte a un illuminista avant la lettre? Eccoli qua gli antichi inevitabilmente come noi, prigionieri delle stesse nostre polarità – ragione/sentimento, pace/guerra, verità/menzogna –, produttori di poesia proprio come noi, produttori di prosa proprio come noi, produttori di tragedie e commedie proprio come noi. A volte provo ad immaginare la meraviglia che Cicerone proverebbe nel vedersi collocato, nello stesso libro, pochi capitoli dopo Plauto o qualche capitolo prima di Virgilio: e questo in quanto membro, alla stessa stregua degli altri, di un’associazione chiamata «Letteratura latina», anzi, «Storia» della medesima. I Romani non avevano neppure una parola per indicare la nostra nozione di «letteratura»: per loro litteratura indicava semplicemente la conoscenza e l’uso delle lettere (litterae) dell’alfabeto.
Certamente, i Greci e Romani sono simili a noi, lo abbiamo detto nella prima parte di queste riflessioni. E lo sono per il semplice motivo che, sempre come si è detto sopra, abbiamo continuato per secoli a leggere i loro libri e a ispirarci a loro. Questo però non può autorizzarci a mettere in ombra quanto di diverso essi contemporaneamente presentano rispetto alla nostra cultura. Ed è proprio mettendo l’accento su questi tratti di alterità della cultura antica rispetto alla nostra – in aggiunta o in opposizione a quelli di continuità – che si può accrescere l’interesse degli studenti verso il mondo dei Greci e dei Romani. La ragione di ciò è semplice. Osservata attraverso la lente dei suoi aspetti meno noti, talora perfino imprevedibili, la cultura classica si presenta come uno spazio privilegiato, all’interno del quale sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi: modi che non sono necessariamente identici ai nostri. E questo risulta per forza interessante, come tutte le cose che mostrano il mondo, la società e gli uomini sotto una luce diversa da quella a cui siamo abituati, e che riteniamo l’unica possibile: anzi naturale. «Amico mio», diceva Socrate a Teeteto, «è proprio del filosofo quel che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro inizio ha la filosofia se non questo». I Greci avevano già indicato l’importanza del tháuma, della meraviglia, come impulso alla riflessione2. Di seguito, dunque, ecco qualche altra aphormé – insieme spunto e risorsa – per suscitare l’interesse degli studenti mostrando loro gli aspetti altri della classicità. Anche queste fondate sulla nostra esperienza.
Come ben si sa, presso i Romani e gli antichi in genere la religione era di tipo politeista, come si dice, in quanto ad essere venerati erano una pluralità di dèi (ciascuno di essi peraltro scomponibile in ulteriori numina o forze divine). Ora, il fatto che si venerassero molte divinità, e non una sola, come avviene nel cristianesimo o nell’islam, comportava questa non trascurabile conseguenza: impediva di affermare che i propri dèi erano gli unici veri, e di considerare correlativamente falsi quelli degli altri, come invece è avvenuto, e purtroppo ancora avviene, all’interno delle religioni monoteiste. Se gli dèi non sono uno solo – il «vero» dio – ma tanti, è ovvio che a quel punto si accetterà facilmente l’idea che anche gli dèi degli altri siano veri. Per questo motivo le società politeiste erano disposte ad accogliere nel proprio pantheon anche divinità onorate da altre popolazioni, come i Romani hanno fatto di frequente, per esempio con Asclepio, una divinità dei Greci, o la Mater Magna, una dea proveniente dall’Asia Minore. Di piú, gli antichi ammettevano anche la possibilità che divinità appartenenti a culture diverse fossero «traducibili» l’una nell’altra, come se si fosse trattato di veri e propri enunciati linguistici. Sempre i Romani, per esempio, pensavano che il dio Hermes dei Greci altri non fosse se non il loro Mercurius, per cui queste due divinità erano fra loro «traducibili». Si trattava di un fenomeno assolutamente diffuso e generalizzato, tanto che come si sa – anche dai manualetti di «mitologia» – Zeus fu identificato con Iuppiter, Hera con Iuno, Artemis con Diana e cosí via; ma che non riguardava solo il rapporto fra divinità greche e romane, bensí anche quello fra divinità romane ed egizie, germaniche, celtiche. Il mondo antico, insomma, era un luogo di traducibilità e libera circolazione religiosa – ben diverso, in questa prospettiva, da quello successivo, dominato piuttosto dal principio «esclusivo» del dio unico e vero (il mio, il nostro) contrapposto agli dèi «falsi» onorati dagli altri: un modello di divinità che, com’è noto, ha prodotto secoli e secoli di sanguinosi conflitti religiosi. Nel passare dal politeismo al monoteismo, dunque, le culture hanno dovuto pagare un «prezzo», come ha scritto Jan Assmann, che è consistito in una perdita drammatica della capacità di tradurre reciprocamente le proprie divinità. Ecco una riflessione sulla nostra civiltà e sulla nostra storia – una riflessione di grande rilievo formativo – che si può fare esemplarmente partendo proprio dalla alterità dei Greci e dei Romani. E si tratta di temi che non sono affatto peregrini, dal punto di vista della loro rilevanza contemporanea, visto che purtroppo nel mondo di oggi non c’è nulla di piú attuale del conflitto religioso.
Accanto all’esperienza religiosa antica, potremmo poi collocare quella familiare. Anche i Romani, infatti, disponevano di figure corrispondenti ai nostri «padre» ( pater) e «madre» (mater), ovviamente, e avevano «figli» ( filii): basta pensare a Enea, il pius, che fuggendo da Troia porta sulle spalle il proprio pater, Anchise, e tiene per mano il proprio filius, Ascanio; mentre la povera mater di Ascanio, Creusa, è caduta sotto il ferro acheo e vaga adesso, infelice ombra, fuori dalle rovine di Troia. Proviamo però ad allontanare lo sguardo dalla famiglia nucleare (alla Enea, per dir cosí), e rivolgiamolo verso le figure parentali costituite dai fratelli del padre e della madre. Quelli che noi chiamiamo indifferentemente «zii», sia che ci vengano dalla parte materna che da quella paterna, a Roma portavano ciascuno un nome specifico e differente: patruus il fratello del padre, avunculus il fratello della madre; amita la sorella del padre, matertera quella della madre. E non si trattava solo di nomi, perché ciascuna di queste figure familiari era caratterizzata anche da un diverso comportamento nei confronti del nipote o della nipote: severo e distaccato il patruus (lo documenta una celebre ode di Orazio, oltre che un proverbio già puntualmente registrato da Erasmo), mentre l’avunculus era piuttosto comprensivo e in confidenza con i nipoti; quasi una seconda madre la matertera, assai meno presente l’amita. Quanto al nipote (ce n’è anche per lui) i Romani definivano nepos (da cui la parola italiana) solo il nipote del nonno, non quello dello zio, come invece facciamo noi; e anzi, con questo termine indicavano anche una persona viziata, uno scialacquatore, che faceva la bella vita: verosimilmente perché il nonno (avus) lo viziava, contrastando cosí l’atteggiamento severo del patruus e dello stesso pater. In altre parole una semplice ricognizione del vocabolario familiare romano, assieme a un rapido censimento degli atteggiamenti e dei comportamenti interni alla famiglia, può rivelarci che le forme della parentela proprie dei Romani erano diverse da quelle che noi oggi condividiamo. Ora, indirizzare l’attenzione dei ragazzi su questi temi permette non solo di farli riflettere su una interessante costellazione di parole latine, mostrando loro come esse si tengano in un vero e proprio sistema, linguistico e sociale nello stesso tempo; ma anche di metterli di fronte al fatto che la famiglia, cosí come «noi» la concepiamo, non è affatto comune a tutti gli uomini, indiscriminatamente, e non è affatto l’unica possibile: tant’è vero che i Romani ne avevano una diversa dalla nostra. In una parola, si può mostrare che la famiglia è un prodotto della cultura, non della «natura».
Se poi volessimo passare dalle forme della parentela a quelle della politica e della società, e da Roma alla Grecia, potremmo puntare l’obiettivo sulla democrazia. La vulgata, relativamente a questo tipo di governo, è nota, e non è solo scolastica. La recente crisi greca ha infatti riportato, quasi drammaticamente, alla luce il «debito» che la nostra cultura ha o avrebbe nei confronti della Grecia, madre della democrazia; e insieme le «radici» che i nostri regimi democratici affondano o affonderebbero nell’Ellade. Atene in particolare avrebbe fornito il modello ideale di questo tipo di governo, e furono i Greci a battezzare con questo nome – demokratía – quel tipo di regime in cui il «potere» o meglio la «forza» (krátos) è nelle mani del «popolo» (démos). Ma questo significa anche che i Greci, e gli Ateniesi in particolare, hanno realmente «inventato» la nostra democrazia? Oltre che sulle analogie che legano i nostri governi democratici con quelli antichi, infatti, varrebbe la pena di far riflettere i ragazzi sulle differenze, non piccole, che ci separano dai Greci su questo terreno.
Per esempio chiedendosi, e chiedendo agli studenti, se possano essere definite veramente “democratiche” – in senso attuale – forme di governo che escludevano dalle decisioni la partecipazione di schiavi, stranieri e donne, come avveniva in Grecia. E quanto ci fosse di democratico, nel senso nostro, in un regime come quello ateniese, in cui, appunto, da una parte era contemplata la schiavitú e dall’altra non si poteva diventare cittadini, ma si poteva solo esserlo, in quanto figli di genitori entrambi ateniesi. Un principio che necessariamente escludeva dall’assemblea, in cui votavano i cittadini, tutti coloro che, appunto, fossero semplicemente venuti “da fuori” in un qualche momento, anche lontano. Che anzi, questa clausola di esclusione era accompagnata addirittura da un mito, che in qualche modo la naturalizzava e la rendeva necessaria, quello della autochthonía: gli Ateniesi, i veri Ateniesi, sarebbero stati infatti generati dalla «stessa terra» dell’Attica, come i loro primi re, Eretteo ed Erittonio, creature umane dal corpo di serpente, che come tale manifestava la loro natura ctonia, terrestre. Quella ateniese era insomma una democrazia di figli della terra che escludeva schiavi, stranieri e donne – e in cui le donne, anzi, non solo non avevano diritto di voto, ma non avevano neppure quello di trasmettere ai figli il proprio nome e neppure di essere chiamate esse stesse «Ateniesi»: solo «donne». Attraverso il gioco delle analogie e delle differenze, il confronto fra le due democrazie – la nostra, come oggi la intendiamo, e quella dei Greci – permette di suscitare immediatamente una vasta, e assai formativa, discussione su temi come la cittadinanza, l’uguaglianza, i diritti, la parità di genere, la libertà individuale – perfino il rapporto con la «terra», purtroppo vessillo di tanti movimenti politici, etnici e identitari, tutt’altro che democratici nella loro sostanza.
Portare esempi di altri possibili spunti antropologici offerti dalle culture antiche non è difficile, al contrario, è difficile non trovarli. Del resto questo genere di studi sulla cultura greca e romana si sono moltiplicati nel corso degli ultimi cinquant’anni; e i bravi insegnanti non sono certo in imbarazzo, o non lo sarebbero (spiegheremo il condizionale fra un momento), nel trovarli. In questa prospettiva forme come la divinazione, il sogno, la profezia, il valore culturale delle immagini, il mito, tutte cosí importanti per gli antichi – anche se rigorosamente estranee all’immagine che dei Greci e dei Romani viene tradizionalmente fornita nella scuola – sono lí a disposizione per essere portate in classe e analizzate sotto la lente binoculare delle analogie e delle differenze: altrettante valide aphormái da cui partire per introdurre gli studenti al mondo antico. Prendiamo per esempio la divinazione. I Romani non attaccavano battaglia o non aprivano un’assemblea prima che degli appositi specialisti avessero consultato i «segni» inviati dagli dèi, gli auspici. Questo significa forse che la loro era una società dominata dall’irrazionale, dalla superstizione, da un cieco e «prelogico» abbandono alla volontà celeste? Non proprio, se si pensa che tutte queste procedure divinatorie erano in realtà rigidamente controllate dallo Stato attraverso i propri magistrati. E che anzi, quando si interpellavano gli Oracoli sibillini (una sorta di “libro sacro” dei Romani), a poterlo fare erano solo funzionari addetti a questo scopo, che sceglievano l’oracolo “giusto”, lo interpretavano, dopo di che riportavano questa interpretazione al Senato: il quale votava sulla correttezza della...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. A che servono i Greci e i Romani?
  4. Prologo
  5. Le ambiguità del servire
  6. L’invasione delle metafore economiche
  7. La civiltà, una questione di pazienza
  8. Italy, the Land of Culture?
  9. La memoria culturale
  10. Il senso dei luoghi
  11. La contingenza greco-romana dell’Italia
  12. Greci e Romani. Un patrimonio “interno”
  13. Due mitologie
  14. Fragilità e responsabilità
  15. I calzoni di Orazio e l’Odissea vichinga
  16. Un cambiamento di paradigma
  17. Verso il mondo classico. Altre vie
  18. Alterità degli antichi
  19. Le parole degli antichi
  20. Lingue «morte»
  21. Lo studio delle lingue classiche
  22. L’antropologia dei classici
  23. Il Rinascimento, i classici e gli altri
  24. Una questione di humanitas
  25. Le antichità degli altri
  26. Valutazione finale
  27. «Radici» greco-romane e «identità» classica
  28. Ringraziamenti
  29. Il libro
  30. L’autore
  31. Dello stesso autore
  32. Copyright