Il giorno dell’incidente aereo in Nigeria, lo stesso giorno in cui morí la first lady nigeriana, qualcuno bussò forte alla porta di Ukamaka a Princeton. Ne fu sorpresa, perché non si presentava mai nessuno alla sua porta senza annunciarsi – era negli Stati Uniti, dopotutto, dove la gente chiamava sempre prima di far visita – a eccezione del fattorino della FedEx, che però non bussava mai cosí forte; e ne fu turbata perché sin dal mattino era stata su internet a leggere le notizie nigeriane, aggiornando le pagine troppo spesso, chiamando genitori e amici in Nigeria, facendosi una tazza dopo l’altra di tè al bergamotto che poi lasciava raffreddare. Aveva ridotto a icona tutte le prime foto del luogo del disastro aereo. Ogni volta che le guardava, aumentava la luminosità dello schermo del portatile, scrutando ciò che i giornali chiamavano «il relitto», una massa annerita con pezzi biancastri sparsi tutto intorno come cartacce, una mole indistinta e carbonizzata che un tempo era stata un aereo pieno di gente; gente che si allacciava pregando la cintura di sicurezza, gente che spiegava il giornale, gente che aspettava che gli assistenti di volo spingessero un carrello chiedendo: «Snack dolce o salato?» Tra quella gente avrebbe potuto esserci anche Udenna, il suo ex ragazzo.
Bussarono di nuovo, piú forte. Guardò dallo spioncino: c’era un tracagnotto dalla pelle molto scura e dall’aria vagamente familiare, sebbene non ricordasse dove lo aveva già visto. Forse in biblioteca o sulla navetta per il campus di Princeton. Aprí la porta. Con un mezzo sorriso il ragazzo le parlò senza guardarla negli occhi. – Sono nigeriano. Abito al secondo piano. Sono venuto a pregare per quello che succede nel nostro paese.
Fu stupita che sapesse che era nigeriana anche lei, che sapesse in quale appartamento abitava, che fosse venuto a bussarle; ancora non capiva dove l’avesse già incontrato.
– Posso entrare?
Lo lasciò passare. Fece passare nel suo appartamento uno sconosciuto con una felpa di Princeton troppo larga venuto a pregare per ciò che succedeva in Nigeria, e quando lui si allungò per prenderle le mani, esitò prima di dargliele. Pregarono. Lui aveva quel modo particolare di pregare, da nigeriano pentecostale, che la metteva a disagio: ricopriva tutto col sangue di Gesú Cristo, legava i demoni e li buttava nel mare, combatteva gli spiriti malvagi. Avrebbe voluto interromperlo e dirgli quanto fosse inutile tutto quell’insanguinare e legare e trasformare la fede in un incontro di boxe; dirgli che la vita era una lotta con noi stessi piú che con un Satana armato di lancia; che credere era una scelta di coscienza da affinare continuamente. Ma non disse nulla perché, dette da lei, quelle parole sarebbero sembrate bigotte; non sarebbe riuscita a dar loro quella concreta e liberatoria asciuttezza che a padre Patrick veniva naturale.
– Signore Dio, falliscano tutte le macchinazioni del maligno, falliscano tutte le armi costruite contro di noi, nel nome del Signore! Padre santo, ricopriamo tutti gli aerei nigeriani del prezioso sangue di Gesú; Padre santo, ricopriamo l’aria del prezioso sangue di Gesú e distruggiamo tutti gli agenti delle tenebre… – Parlava sempre piú forte, scuoteva il capo. Lei doveva andare in bagno. Era imbarazzata dal contatto con quelle dita calde e ferme, e fu il disagio a farle dire, alla prima pausa dopo un lungo brano detto in apnea, «Amen!», pensando che fosse tutto finito, invece non lo era, cosí richiuse in fretta gli occhi mentre lui continuava. Pregò senza posa, stringendole le mani ogni volta che diceva «Padre santo!» o «Nel nome del Signore!»
Poi fu colta dai brividi, un tremito involontario in tutto il corpo. Era Dio? Una volta, anni prima, quando era adolescente e recitava scrupolosamente il rosario ogni mattina, mentre stava in ginocchio accanto al telaio di legno grezzo del suo letto, le erano uscite di bocca parole di cui non aveva capito il senso. Era durato pochi secondi, quel torrente di parole incomprensibili a metà di un’Ave Maria, ma alla fine del rosario era rimasta terrorizzata, convinta che quella sensazione bianca e fresca che l’avvolgeva fosse Dio. Aveva raccontato quell’esperienza solo a Udenna, e lui aveva commentato che si trattava del frutto della sua immaginazione. – Ma com’è possibile? – aveva chiesto lei. – Come posso aver immaginato qualcosa che non volevo? – Però alla fine gli aveva dato ragione, come succedeva quasi sempre, ammettendo che sí, si era immaginata tutto.
Il tremito finí, di colpo com’era iniziato, e il nigeriano concluse la preghiera: – Nel nome del Signore onnipotente ed eterno!
– Amen! – disse lei.
Si liberò mormorando: – Scusami, – e corse in bagno. Quando uscí, lui era ancora in piedi accanto alla porta della cucina. C’era qualcosa nel suo atteggiamento, nel modo in cui stava a braccia conserte, che le faceva venire in mente la parola «umile».
– Mi chiamo Chinedu.
– Piacere, Ukamaka.
Si strinsero la mano, e le parve buffo perché avevano appena finito di tenersi per mano pregando.
– Questo incidente aereo è terribile, – commentò lui. – Davvero terribile.
– Sí, – rispose lei, senza dire che forse a bordo c’era anche Udenna. Avrebbe voluto che se ne andasse, ora che avevano finito di pregare, ma lui attraversò il soggiorno, si sedette sul divano e si mise a parlare di come aveva saputo dell’incidente, come se lei gli avesse chiesto di rimanere, come se avesse bisogno di sapere i dettagli dei suoi riti mattutini: che ascoltava le notizie della Bbc online perché nei notiziari americani non c’era nulla di concreto. Le disse di non aver capito subito che si trattava di due incidenti separati: la first lady morta in Spagna dopo un intervento di chirurgia plastica all’addome in vista della festa del suo sessantesimo compleanno, e l’aereo caduto a Lagos pochi minuti dopo il decollo per Abuja.
– Sí, – rispose lei, sedendosi di fronte al portatile. – All’inizio avevo pensato anch’io che fosse morta nell’incidente aereo.
Lui si dondolava leggermente sul divano, le braccia ancora conserte. – La coincidenza è fortissima. Dio vuole dirci qualcosa. Solo Dio può salvare il nostro paese.
Dirci. Il nostro paese. Parole che li univano in un lutto comune, e per un istante lo sentí vicino. Aggiornò una pagina internet. Ancora nessuna notizia di sopravvissuti.
– Dio deve prendere il controllo della Nigeria, – continuò. – Dicevano che un governo civile sarebbe stato meglio di uno militare, ma guarda cosa fa Obasanjo. Ha gravemente danneggiato il paese.
Lei annuí, chiedendosi quale fosse la maniera piú cortese per dirgli di andarsene, sebbene fosse restia a farlo perché la sua presenza, per ragioni incomprensibili, la aiutava a sperare che Udenna fosse vivo.
– Hai visto le foto dei famigliari delle vittime? Una donna si è strappata i vestiti e correva in giro in biancheria. Ha detto che su quel volo c’era sua figlia e che stava andando ad Abuja a comprare delle stoffe per lei. Chai! – Chinedu emise quel lungo risucchio che mostrava tristezza. – L’unico dei miei amici che avrebbe potuto essere su quell’aereo mi ha appena mandato una mail per dirmi che sta bene, grazie a Dio. Nessuno della mia famiglia avrebbe potuto esserci cosí, almeno, non devo preoccuparmi per loro. Non hanno diecimila naira da buttar via per un biglietto aereo! – Scoppiò a ridere, cosa del tutto inopportuna. Lei tornò ad aggiornare la pagina internet. Ancora nessuna notizia.
– Io invece lo conosco uno che era su quel volo, – disse. – O che avrebbe potuto esserci.
– Signore Dio!
– Il mio ragazzo Udenna. Anzi, il mio ex ragazzo. Faceva un master in business a Wharton ed era tornato in Nigeria la settimana scorsa per le nozze di un cugino –. Fu dopo aver parlato che si rese conto di avere usato il passato.
– Non hai ancora notizie certe? – chiese Chinedu.
– No. Non ha il cellulare in Nigeria e non riesco a mettermi in contatto con sua sorella. Può darsi che fosse con lui. Il matrimonio dovrebbe essere domani ad Abuja.
Rimasero seduti in silenzio; notò che Chinedu aveva stretto i pugni e che non dondolava piú.
– Quando gli hai parlato per l’ultima volta?
– La settimana scorsa. Ha chiamato prima di partire per la Nigeria.
– Dio è giusto. Dio è giusto! – Chinedu alzò la voce. – Dio è giusto. Mi senti?
– Sí, – rispose Ukamaka, un po’ allarmata.
Squillò il telefono. Ukamaka rimase a guardare il cordless nero che aveva piazzato accanto al portatile: aveva paura di rispondere. Chinedu s’alzò e fece per prenderlo, ma lei disse: – No! – Lo afferrò e andò alla finestra. – Pronto? Pronto? – Avrebbe voluto che chiunque fosse parlasse subito, senza preamboli. Era sua madre.
– Nne, Udenna sta bene. Mi ha appena chiamato Chikaodili per dirmi che hanno perso l’aereo. Lui sta bene. Dovevano essere su quel volo ma grazie a Dio l’hanno perso.
Ukamaka appoggiò il telefono sul davanzale della finestra e scoppiò a piangere. Chinedu la prese per le spalle, poi la abbracciò. Lei si calmò un momento per dirgli che Udenna stava bene e poi si riabbandonò all’abbraccio, stupita dal suo familiare conforto, sicura che lui capisse d’istinto che piangeva di sollievo perché non era successo nulla; di malinconia al pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere e di rabbia per quello che era rimasto irrisolto da quando Udenna le aveva comunicato, in una gelateria di Nassau Street, che la loro relazione era finita.
– Sapevo che il mio Dio mi avrebbe ascoltato! Ho pregato con tutto il mio cuore perché lo tenesse in vita, – esclamò Chinedu, passandole la mano sulla schiena.
Piú tardi, dopo aver chiesto a Chinedu di rimanere a pranzo e mentre scaldava dello stufato nel microonde, gli domandò: – Se dici che è stato Dio a mantenere Udenna in vita, allora la responsabilità della morte delle altre persone è sua, perché avrebbe potuto mantenere in vita anche loro. Dovremmo concludere che Dio ha le sue preferenze?
– Dio opera in modo diverso da noi –. Chinedu si tolse le scarpe da ginnastica e le sistemò accanto alla libreria.
– Ma non ha senso.
– Dio ha sempre un suo senso, anche se non è sempre quello di noi uomini, – replicò Chinedu guardando le foto sugli scaffali. Era il tipo di obiezioni che faceva a padre Patrick, che però ammetteva che a volte Dio era insensato, stringendosi nelle spalle, come la prima volta che lo aveva incontrato, quel giorno di tarda estate in cui Udenna le aveva detto che era finita. Erano da Thomas Sweet e stavano bevendo un frullato di fragola e banana, il loro rituale domenicale dopo aver fatto la spesa, e Udenna aveva tirato su rumorosamente dalla cannuccia prima di dirle che la loro storia era finita da tempo, che ormai stavano insieme solo per abitudine, al che lei lo aveva guardato aspettandosi una risata, benché non fosse il tipo da scherzare su certe cose. Aveva usato la parola «stallo». Non c’era nessun’altra donna, eppure la relazione era in stallo. Sarà stata pure in stallo, ma erano tre anni che lei organizzava la propria vita intorno a quella di lui. In stallo, certo, ma intanto si era messa a pregare suo zio, un senatore, di trovarle un impiego ad Abuja dopo la laurea perché Udenna, concluso il master in business, voleva tornare in Nigeria ad accumulare quel «capitale politico», come lo chiamava lui, utile per poi candidarsi a governatore dello stato di Anambra. In stallo, ma intanto cucinava usando tanto peperoncino, come piaceva a lui. In stallo, eppure avevano parlato spesso dei bambini che avrebbero avuto, un maschio e una femmina il cui concepimento veniva dato per scontato: lei si sarebbe chiamata Ulari e lui Udoka, cosí tutti i loro nomi sarebbero iniziati per «U». Era uscita da Thomas Sweet e aveva preso a vagare senza meta lungo Nassau Street, poi era tornata indietro passando davanti alla chiesa di pietra grigia. Varcato il cancello, aveva detto a un uomo col colletto bianco in procinto di salire sulla sua Subaru che la vita non aveva senso. Quello si era presentato come padre Patrick e aveva risposto che la vita poteva anche non avere senso, ma che comunque tutti dovevano avere fede. «Abbi fede!» era come dire: «Sii alta e ben fatta». Le sarebbe piaciuto essere alta e ben fatta, ma ovviamente non lo era: era bassa, aveva il culo piatto e sulla pancia le sporgeva un rotolino di ciccia ostinato, perfino quando indossava la biancheria in tessuto ...