Tutti i banchi sono uguali
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Tutti i banchi sono uguali

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Spesso si dice che la scuola deve servire per immettere i ragazzi nella società. Non è cosí: serve invece a immaginare una società che ancora non conosciamo. Spesso si dice che i ragazzi devono imparare a essere se stessi; devono invece imparare a diventare se stessi. Non bisogna isolare ciò che avviene in classe da ciò che avviene fuori, o peggio, rendere funzionale il lavoro in classe alle ideologie del mondo non scolastico. Quattro sono i fuochi centrali del discorso sull'educazione oggi: valutazione, qualità della formazione, rapporto tra mondo della scuola e del lavoro e infine uguaglianza. Temi legati da una visione politica nel senso pieno del termine: non si può parlare di scuola senza pensare alla cittadinanza del futuro. Occorre recuperare la centralità della scuola: di fronte alla crisi delle altre agenzie educative è rimasta il luogo dove esercitare l'uguaglianza. Uguaglianza che è il baluardo capace di resistere alle ideologie individualiste e all'elogio della competizione.

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Informazioni

Capitolo diciottesimo

A chi serve l’alternanza scuola-lavoro

Come abbiamo visto qualche pagina fa, se noi traduciamo l’idea dell’istruzione in un’accumulazione di capitale umano o in un dispositivo funzionale a uno screening delle competenze, arriviamo probabilmente ad avere a che fare con questo paradosso della overeducation – ossia quel fenomeno per cui dei giovani con un’istruzione universitaria magari di qualità riescono a trovare lavoro solo in mansioni poco qualificate – e dall’altra parte se pensiamo con quegli stessi economisti che progettano la scuola in funzione della crescita del benessere economico ci scontreremo con l’altro corno del problema dell’istruzione oggi – ossia con lo skill mismatch, lo scollamento tra le esigenze del mercato e la scarsa disponibilità di alcune competenze altamente qualificate. Sono gli effetti collaterali della politica dell’istruzione pensata in modo aziendalista.
Come si curano questi effetti collaterali? Peggiorando la situazione.
Nella legge 107, la cosiddetta Buona scuola, si è data grande importanza alla misura dell’alternanza scuola-lavoro.
Secondo la guida normativa pubblicata dal ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, gli studenti dei licei dovranno fare almeno duecento ore nel corso del triennio superiore come attività aggiuntiva, gli studenti dei tecnici e dei professionali almeno quattrocento ore.
Qualunque insegnante, e qualunque studente, sa quanto consistente sia questo monte ore, soprattutto se si tiene conto che negli ultimi anni alcune materie hanno subito dei drastici tagli: per esempio, l’insegnamento di storia e educazione civica nei licei scientifici con la riforma Gelmini è stato ridotto da tre a due ore a settimana.
In cosa consiste quest’alternanza scuola-lavoro? Il ministero non lo specifica molto bene. Si tratta di svolgere delle ore di lavoro in quelle aziende – iscritte alla camera di commercio – che siano disposte ad accogliere questa massa di centinaia di migliaia di studenti. Con quale scopo? Quello di «attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l’esperienza pratica», e di «arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l’acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro».
Già questo linguaggio vaghissimo e aziendalista dovrebbe mettere in allerta. E difatti le proposte che arrivano alle scuole sono le piú disparate. Meravigliosi progetti lasciati al volontarismo di chi se ne fa carico, ma anche negozi di abbigliamento che cercano commessi per l’estate, agenzie pubblicitarie che vanno a caccia di volantinatori e uomini sandwich, società di marketing che mettono in piedi opinabili concorsi per insegnare agli studenti a fare storytelling, fino anche alle parrocchie dove imparare a fare l’aiutante della perpetua, come è accaduto in Lombardia.
La caratteristica comune di tutti questi progetti, quale ne sia il loro valore formativo – che nessuno (né il ministero né le singole scuole) ovviamente è tenuto a verificare in anticipo –, è che gli studenti impegnati in quest’alternanza andranno a lavorare gratis. E lo faranno per un tempo che magari sarà vagamente divertente, o anche interessante, ma alla maggior parte di loro – soprattutto ai liceali – raramente potrà assicurare quell’«acquisizione di competenze da spendere nel mercato del lavoro». Mentre per le aziende si tratterà di disporre a getto continuo, durante tutto l’anno scolastico, di una manodopera giovane, generalmente motivata, non pagata.
I nuovi esperti di riferimento del ministero dell’Istruzione immaginano un mondo in cui la scuola debba formare, di fatto, al precariato e allo sfruttamento.
Il 22 febbraio 2016 si tenne a Milano un convegno organizzato dalla Regione Lombardia in cui intervenne anche l’allora ministra Stefania Giannini, e dove si decantarono le magnifiche sorti e progressive di questo nuovo istituto dell’alternanza scuola-lavoro. Tra i relatori c’era quella Valentina Aprea che aveva già tracciato sotto l’ultimo governo Berlusconi un disegno di legge con un impianto che poi sarebbe stato recepito in larga misura dalla Buona scuola. E c’era anche Giuseppe Bertagna, professore di pedagogia all’Università di Bergamo, ispiratore di molte delle iniziative governative in materia di scuola. In un’intervista del 2012 delineava la sua idea di alternanza scuola-lavoro:
Dall’ultimo censimento Unioncamere risultano 117 000 posizioni di lavoro disponibili. Ed economisti e sociologi parlano di mezzo milione di posti scoperti per mancanza di qualificazione. Ma è davvero possibile di questi tempi?
Possibilissimo. Le faccio un esempio. Poco tempo fa un ragazzo camerunense mi ha aiutato a cambiare 50 euro perché mi servivano le monete per il parchimetro. Mi diceva che stava al parcheggio perché non aveva un lavoro. Gli ho detto: te lo trovo io. Avevo sentito di un’azienda che aveva bisogno di un porcaio e ora, infatti, quel ragazzo lavora.
Il punto è quanti ragazzi o quanti dei loro genitori accetterebbero un simile lavoro.
Nessuno lo accetterebbe se si trattasse di attendere ai maiali per tutta la vita. Ma non è un lavoro da disprezzare: si possono apprendere nozioni di biologia, fisiologia. Perché non può far parte di un percorso di studi per diventare veterinario? Si deve accettare l’idea di cambiare lavoro. Eppure è piú semplice se il lavoro resta lo stesso per tutta la vita: sindacati, burocrazia e aziende, troppi hanno interesse a mantenere un lavoro “per sempre”1.
Dietro questa visione si nascondono due bugie. La prima è che i progetti di alternanza scuola-lavoro siano formativi. L’equivoco nasce dalle impressioni che restituiscono docenti e studenti, che magari sono contenti, e soddisfatti di alcuni di questi progetti, anche perché alcuni di questi progetti sono veramente bellissimi; ma cosa ci dice che lavorare gratis anche divertendosi per duecento ore è formativo? In fondo tutto è formativo e nulla lo è.
La seconda bugia è che il progetto pedagogico consista nel fare il porcaio sottopagato per diventare, magicamente, veterinario, invece di prevedere investimenti in ricerca (come accade appunto per esempio nella decantata Germania, dove esiste da anni l’alternanza scuola-lavoro, che coinvolge molto piú approfonditamente le università) e in istruzione di alto livello.
I nuovi esperti di questo tipo di politiche dell’istruzione immaginano un mondo in cui, dal momento che serve sempre meno lavoro, la scuola – non solo quella superiore – debba formare non al lavoro qualificato, ma alla flessibilità, all’adattamento. Di fatto: al precariato e allo sfruttamento.
Cos’altro sono duecento o quattrocento ore non pagate? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere – se vuole rendersi economicamente piú autonomo – di svolgere lo stesso lavoro d’estate ma pagato? Perché lo stesso studente non potrebbe decidere di dedicare lo stesso tempo a formarsi sul molto altro su cui spesso la scuola italiana è carente? Perché lo stesso studente non può immaginare di evitare di usare questo tempo per quella che di fatto è un’ulteriore materia curricolare, e invece studiare meglio le materie che fanno parte del corso di studi che ha scelto?
Se pensiamo alla storia dell’educazione e delle politiche del lavoro in Italia, per esempio a esperienze storiche fondamentali come le 150 ore che furono inaugurate nel 1973 con l’istituzione del contratto nazionale collettivo, non è difficile ammettere che la ratio dell’alternanza scuola-lavoro è davvero l’opposta: non investire nella formazione permanente destinata al mondo del lavoro, ma cercare di trasformare il prima possibile gli studenti in operai disponibili ai cosiddetti mcjob, lavori sottopagati e precari, con nessuna possibilità di avanzamento. Considerate da questa prospettiva, sembrano molto meno casuali le dichiarazioni (o gaffe) che il ministro del lavoro Poletti ha inanellato negli ultimi due anni – da «Un mese di vacanza va bene. Ma non c’è obbligo di farne tre. Magari uno potrebbe essere passato a fare formazione… I miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali» a «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21» a «Nel lavoro si creano piú opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula».
Il 18 ottobre dello scorso anno il ministero dell’Istruzione aveva presentato il progetto chiamato Campioni per l’alternanza. Si trattava di un protocollo d’intesa con sedici aziende per l’alternanza scuola-lavoro nel triennio delle superiori, ed è il modello con cui il ministero ha deciso di lavorare da qui in avanti.
Nel 2015, primo anno di sperimentazione, per molti dirigenti scolastici era stato complicato trovare le aziende disposte ad accogliere – e formare – centinaia di migliaia di studenti. Eppure, il numero fornito dal ministero sugli studenti partecipanti del 2015-16 è 652 641, e la previsione è di portarlo a 1,1 milioni e 1,5 milioni rispettivamente nel 2016-17 e 2017-18.
Per questo l’accordo Campioni per l’alternanza è stato accolto dal ministero con entusiasmo: le prime sedici aziende coinvolte – Accenture, Bosch, Consiglio nazionale forense, Coop, Dallara, Eni, Fondo ambiente italiano, Fca, General electric, Hpe, Ibm, Intesa Sanpaolo, Loccioni, McDonald’s, Poste italiane e Zara – si sono impegnate a prendersi in carico 27 000 studenti all’anno: moltissimi. Accanto a piccole realtà come Loccioni o Dallara, ci sono multinazionali come Fca, Hewlett Packard o McDonald’s. Quest’ultima, per esempio, ha dichiarato di poter seguire e formare diecimila studenti all’anno.
Il progetto è un misto di retorica del made in Italy e di un concetto astratto di innovazione didattica. Alla presentazione (in rete si può ancora vedere l’intero video)2 l’ex ministra Stefania Giannini ha ribadito quale sia l’ispirazione del progetto – il modello tedesco – e quale sia l’obiettivo: «Una sfida economica, sociale e culturale».
Secondo Giannini il progetto avrebbe permesso di «aggredire quello che è il nemico piú temibile dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile», ovvero quei «due milioni di giovani che in Italia non studiano e non lavorano e non hanno speranza». Ma il punto centrale è quello che Giannini definisce la sfida culturale:
Si tratta di superare il Novecento, senza perderne la forza, ritornare a una tradizione tutta italiana, tutta europea, che significa collegamento – a partire dalle botteghe rinascimentali – tra la parte teorica, il pensiero critico e la sua possibile applicazione. Quello che i greci chiamavano techne e i latini chiamavano ars, che è diventato un po’ il punto qualificante del prodotto italiano, quando si parla soprattutto di manifattura.
Nelle parole della ministra sembra esserci un po’ di confusione riguardo a quale sia il cuore del progetto – un misto di retorica del made in Italy e un concetto un po’ astratto come quello di un’innovazione didattica che però non cita mai chiari riferimenti pedagogici. E anche la citazione delle botteghe rinascimentali rispetto ai tirocini degli studenti presso McDonald’s o la Coop sembrano comunque stridenti. Quando ho fatto un’inchiesta per «Internazionale»3, ponendo al ministero le stesse questioni, le risposte non sono state molto piú esaurienti.
Quando all’epoca chiesi al ministero delucidazioni sul progetto, mi hanno spiegato cosí:
I Campioni per l’alternanza sono stati selezionati principalmente in base a tre criteri. Esperienze di alternanza di qualità: hanno offerto percorsi di alternanza variegati (coinvolgono 14 settori di attività) che prevedono sia una parte informativa e di formazione che di svolgimento pratico. Ciascuno studente potrà sviluppare competenze trasversali: lavoro in gruppo, risoluzione di problemi complessi, comunicazione, per fare alcuni esempi. Al contempo ogni studente avrà la possibilità di mettersi alla prova e valutare attitudini e preferenze che potranno tornare utili nell’indirizzare i prossimi passi del proprio percorso di crescita personale e professionale.
Il secondo criterio è il forte impegno verso l’alternanza e gli studenti:
Tutte queste organizzazioni – grandi e medie aziende nazionali e internazionali ma anche organizzazioni non profit e ordini professionali – si sono impegnate a ospitare un numero di studenti significativo.
Infine, il terzo criterio è la novità:
Tutte queste organizzazioni si sono impegnate a definire percorsi di alternanza innovativi nel rispetto dei princípi previsti dalla legge Buona scuola.
I percorsi di alternanza delle organizzazioni entrate a far parte del programma sono stati definiti attraverso il confronto tra il ministero e i responsabili dei programmi di formazione e delle risorse umane delle organizzazioni coinvolte, spiega ancora il Miur, e sono «finalizzati a sviluppare competenze trasversali e conoscenze del settore di riferimento». L’impressione, anche da queste vaghe risposte, è che il ministero abbia dato carta bianca alle singole aziende per gestire come vogliono il progetto dell’alternanza, e senza un evidente criterio educativo nel caso di alcuni accordi.
Il punto che Zara ha a cuore è la trasmissione della cultura aziendale della multinazionale. Quando per l’articolo ho chiesto a Zara di specificare quali sono i criteri del loro progetto, mi hanno risposto:
Il programma si articola in attività di formazione e acquisizione di competenze nelle aree della gestione commerciale e della logistica, nell’utilizzo di tecnologie di supporto come per esempio la Radio-frequency identification (Rfid), nell’ecommerce, nel servizio al cliente, visual merchandising e layout di negozio.
Ma accanto alla formazione tecnica, come già ricordato, la trasmissione della cultura aziendale. Alla mia intervista hanno risposto:
Zara intende condividere con gli s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tutti i banchi sono uguali
  4. I. Il bisogno di un discorso serio sulla scuola
  5. II. A cosa serve un insegnante?
  6. III. La retorica del tempo che fu, ovvero tutti contro don Milani
  7. IV. In che modo è classista la scuola italiana? Un po’ di dati per farsi un’idea
  8. V. Quali sono le ragioni per cui in Italia esistono queste disuguaglianze nella scuola?
  9. VI. Come si manifestano le disuguaglianze?
  10. VII. Creare competizione tra gli insegnanti insinua la competizione anche tra gli studenti
  11. VIII. La riproduzione delle disuguaglianze
  12. IX. La cruciale scelta della scuola superiore
  13. X. Tantissimi compiti a casa
  14. XI. Il potere del voto
  15. XII. La benedetta valutazione
  16. XIII. All’origine delle attuali teorie della valutazione
  17. XIV. Come è cambiata la scuola dopo l’invenzione del concetto di “capitale umano”
  18. XV. Tutto quell’insieme di cose chiamato competenze
  19. XVI. La scuola riguarda i tempi lunghi e non il presente
  20. XVII. La fuffa della meritocrazia
  21. XVIII. A chi serve l’alternanza scuola-lavoro
  22. XIX. La gioventú assurda
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Dello stesso autore
  26. Copyright