Prometeo liberato
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Prometeo liberato

Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri

  1. 768 pagine
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Prometeo liberato

Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri

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Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, è assunto da David landes come simbolo della maggiore trasformazione che l'umanità abbia conosciuto: la rivoluzione industriale. Dall'artigianato alla manifattura, fino alla fabbrica come sistema di produzione, la storia della competizione internazionale per la ricchezza ha preso un andamento vorticoso, caratterizzato da aspetti diversi eppure omogenei, tra accelerazioni e frenate. Le innovazioni tecnologiche hanno dato origine e continuità al processo di industrializzazione e al tempo stesso a una serie di mutamenti nella struttura del potere, nei modi di governo, negli ordinamenti sociali e negli atteggiamenti culturali. In questo quadro, muovendosi con attenzione tra i vari modelli interpretativi, Landes indaga sulle cause, il corso e la localizzazione dello sviluppo. La struttura del credito e il sistema scolastico, il potenziale militare e l'incremento demografico ci vengono resi nei loro rapporti di interdipendenza e di subalternità alle leggi e ai ritmi dell'industrializzazione. Una gara a inseguimento in cui la guida spesso cambia di mano, responsabile di enormi costi sociali. Ogni innovazione è infatti affidata all'intelligenza dell'uomo, ai suoi timori e alla sua speranza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858425855
Argomento
Storia

Capitolo quinto

Fiato corto e nuovo slancio

Gli anni dal 1873 al 1896 parvero a molti contemporanei una sconcertante deviazione dall’esperienza storica. I prezzi caddero in modo ineguale e sporadico ma inesorabilmente, in un alternarsi di crisi e di impennate di prosperità, a una media di circa un terzo in tutte le merci. Fu la piú drastica deflazione a memoria d’uomo. Anche il saggio di interesse diminuí, al punto che i teorici dell’economia cominciarono a evocare la possibilità di un capitale cosí abbondante da essere quasi un bene gratuito. E i profitti si contrassero, mentre quelle che ormai erano riconosciute come depressioni periodiche sembravano trascinarsi interminabilmente. Il sistema economico appariva in declino.
Poi la ruotà girò. Negli ultimi anni del secolo i prezzi cominciarono a salire, e con essi i profitti. Col miglioramento degli affari la fiducia tornò: non la sporadica e evanescente fiducia dei brevi sprazzi di rigoglio che avevano punteggiato le tenebre dei decenni precedenti, ma una euforia generale come non si era avuta dai Gründerjahre della fase immediatamente successiva il ’70. Sembrava che tutto andasse bene di nuovo – nonostante il tintinnare d’armi e i moniti marxisti sull’«ultima fase» del capitalismo. In tutta l’Europa occidentale, questi anni sono rimasti nella memoria come il bel tempo andato – l’era edoardiana, la belle époque.
Il loro ricordo è reso piú luminoso dal contrasto con gli anni di morte e di disinganno che seguirono. In ogni campo la guerra sembra essere stata il grande spartiacque: fra ottimismo e pessimismo, fra democrazia parlamentare e fascismo, fra progresso e decadenza. Con la massiccia mobilitazione di uomini e di risorse per il conflitto, e la loro distruzione nel corso di esso, sembrò che tutto andasse fuori sesto, per non piú riassestarsi. Nella vita economica, la guerra portò all’introduzione di controlli e restrizioni «temporanei» – sul commercio, i prezzi, gli investimenti, i movimenti di fondi e di persone – che in una forma o nell’altra sono poi sempre rimasti. Alla quieta autoregolazione dell’economia internazionale subentrò un meccanismo asmatico e inefficiente, tenuto in funzione soltanto a furia di adattamenti e riparazioni.
Pure, un esame piú attento rivela che la guerra non fu altro che un catalizzatore, un precipitante di mutamenti già in corso. Segni di un ripiegamento dall’ottimismo e dalla libertà sono palesi già da ben prima del 1900, nella letteratura e nella filosofia non meno che nella politica e nell’economia. Con ciò non si vogliono negare gli effetti giganteschi della guerra, ma semplicemente situarli nel loro contesto. Il sistema stava già subendo una trasformazione faticosa, che era piú fonte che conseguenza di rivalità e di conflitti internazionali. Qui però tocchiamo un argomento complesso e controverso, di cui è opportuno per ora rinviare la discussione.
In superficie, le tendenze intercicliche dell’economia europea in questo periodo sono apparse alla maggior parte degli osservatori una ripetizione di precedenti alternanze di contrazioni ed espansioni di lungo periodo. I teorici monetari hanno rilevato una diminuzione dell’offerta di denaro in rapporto alla domanda fra il 1873 e il 1896, seguita da un forte incremento delle riserve auree dovuto ai ritrovamenti auriferi nel Sud Africa e nel Klondike. L’argomento ha avuto forse lo svolgimento analitico piú esauriente nell’opera del Simiand, che generalizzò l’esperienza ottocentesca e costruí un modello di cicli alterni inflazionistici e deflazionistici, i primi caratterizzati da una rapida crescita quantitativa su una base tecnologica relativamente stabile (analoga a ciò che oggi chiamiamo allargamento del capitale), i secondi da un miglioramento qualitativo (approfondimento del capitale) e dalla eliminazione forzata delle imprese inefficienti1.
Generalmente contrari a questa interpretazione sono gli economisti e gli storici che vedono l’investimento come il determinante primario e i prezzi come sintomo. Fra questi il piú noto è forse Schumpeter, con il suo modello di un meccanismo economico attivato da successive esplosioni di innovazione. Allo stesso campo appartiene Rostow, con una analisi piú sfumata basata sullo spostamento degli investimenti fra impieghi a diverso periodo di gestazione: piú lungo è l’intervallo fra spesa e remunerazione (infinito nel caso delle spese militari), maggiore è l’effetto inflazionistico immediato.
Fra queste due posizioni si situa uno studioso come Kondrat′ev, il quale sostiene che la fase ascendente del ciclo di lunga durata è connessa con aumenti degli investimenti (in seguito a nuove invenzioni, risorse, e mercati) e dell’offerta di moneta. Kondrat′ev non considera queste concomitanti della fluttuazione come cause, ma piuttosto come prodotti della congiuntura, e parla enigmaticamente di «cause insite nell’assenza dell’economia capitalistica». È chiaro, nondimeno – questioni ideologiche a parte –, che esse hanno nel suo schema la stessa funzione esplicativa loro assegnata, mutatis mutandis, in quelli degli altri autori in materia2.
Su un punto, comunque – la periodizzazione a onde lunghe – sono tutti d’accordo. A cominciare dal tardo Settecento, la storia economica dell’era industriale suol essere suddivisa press’a poco cosí: 1790-1817, inflazione; 1817-50, deflazione; 1850-73, inflazione; 1873-96, deflazione; 1896-1914, inflazione (le date esatte variano da un’analisi all’altra, ma lo schema e i punti di demarcazione rimangono all’incirca gli stessi). Inoltre quasi tutti concordano sul carattere ciclico di queste fluttuazioni. Inoltre un marxista come Kondrat′ev correggerebbe probabilmente questo giudizio (sebbene non lo faccia esplicitamente) limitando il modello alle economie capitalistiche, e condizionandone la ripetizione all’influenza di mutamenti di fondo, di anche piú lungo periodo, dell’intero sistema. Analogamente, l’opera recente di Rostow sulle fasi dell’industrializzazione sembra implicare la possibilità che il ritmo e il carattere di queste onde si modifichino col maturarsi dell’economia. Tuttavia queste riserve non alterano la periodizzazione canonica del XIX secolo.
Questo quadro mi sembra inesatto, e porta a mio giudizio a un fraintendimento del rapporto tra il processo fondamentale di industrializzazione e gli altri aspetti della trasformazione economica. La principale fonte di difficoltà è l’illusione ottica prodotta dal contrasto fra il boom degli anni 1850 e la depressione degli anni 1870: che si presentano entrambi con uno spicco particolare, e sembrano introdurre una nuova era, delimitando un periodo di ascesa inflazionistica tra il 1850 e il 1873. In realtà, le serie dei prezzi non mostrano affatto una tendenza di cosí lunga durata. La lunga deflazione cominciata dopo le guerre napoleoniche è temporaneamente investita dall’afflusso d’oro in lingotti e dal boom creditizio degli anni ’50; ma l’inflazione non dura piú della fase ascendente del ciclo breve. L’ascesa dei prezzi si interrompe nel 1857, e nonostante i loro alti e bassi nel quindicennio successivo la tendenza è lievemente discendente (tutt’al piú, in qualche caso, pianeggiante), con l’instaurarsi di un netto declino a partire dal 18733.
Insomma, l’Ottocento fu contrassegnato da una protratta e marcata deflazione, durata dal 1817 al 1896 con un’unica breve interruzione di circa sei o sette anni. Nella lunga storia della moneta e dei prezzi dal Medioevo ad oggi non vi è nulla di simile: ad eccezione forse dei piú grandi declini dei decenni successivi alla Peste Nera e del XVII secolo. In altri casi del genere, a differenza di questi periodi anteriori, in cui la caduta dei prezzi fu associata a catastrofi, spopolamenti e vaste depressioni, l’Ottocento fu un periodo di pace, di incremento demografico senza precedenti e di rapida espansione economica. Per di piú, con o senza la connivenza di re e di governi, il lungo periodo non è che svilimento e inflazione.
La spiegazione di questa anomalia del XIX secolo sembra trovarsi proprio negli incrementi di produttività che stimolarono e resero possibile questa crescita economica. In tutto il corso del secolo, i costi reali vennero costantemente diminuendo, dapprima prevalentemente nella manifattura, e quindi – dopo una rivoluzione nei trasporti che aprí alla coltivazione commerciale nuovi vasti territori – anche nella produzione alimentare (ai frutti dei progressi in entrambi i settori è dovuta la diminuzione particolarmente forte degli anni 1873-96). Ma progressi tecnologici ed economie di costo si erano avuti anche in precedenza: perché allora questa deflazione di durata cosí eccezionale? La risposta naturalmente sta nella eccezionalità delle innovazioni che costituirono la Rivoluzione industriale: mai in passato si era avuto un cumulo di novità di applicazione cosí generale e di implicazioni cosí radicali.
Il declino dei prezzi del XIX secolo è dunque la conseguenza e il barometro dell’industrializzazione europea. Inutile dire che ciò non significa che, essendo il corso dei mutamenti dei prezzi piú o meno lo stesso in tutti i paesi d’Europa, anche il corso dell’industrializzazione fu identico. Date le comunicazioni commerciali e monetarie esistenti, una sincronizzazione delle tendenze dei prezzi era inevitabile; ciò rientra nella natura del mercato. Ma i modelli e i ritmi di crescita sono un’altra faccenda. Sebbene quelle stesse comunicazioni internazionali che erano all’origine della generale deflazione fossero altresí propizie al solidale diffondersi degli indirizzi tecnologici, qui le diversità di risorse materiali e di istituzioni e i ritardi nei tempi di sviluppo furono determinanti, col risultato di sostanziali variazioni da un paese all’altro.
L’economia alle cui vicende meglio risponde il corso dei prezzi è quella inglese. Ciò non fa meraviglia: l’Inghilterra, industrializzatasi per prima, rimase fino entro il XX secolo la capofila del mercato internazionale. Anche dopo che negli anni 1890 essa ebbe perduto la supremazia in settori cruciali come il ferro e il carbone a favore degli Stati Uniti e della Germania, la sua posizione di mediatrice del commercio e della finanza internazionali riuscí a reggere la predominante influenza inglese riguardo ai prezzi delle merci.
Non è mia intenzione intraprendere a questo punto un esame particolareggiato dell’esperienza inglese. Osserveremo soltanto che i calcoli di cui disponiamo circa i suoi ritmi di crescita industriale e di aumento della produttività – calcoli confermati dalle principali serie statistiche industriali – mostrano un calo netto dopo l’elevata prosperità dei decenni di mezzo del secolo. La curva riprende a salire soltanto dopo il 1900. Dal 1870 in poi, ad eccezione del settore dell’acciaio, trasformato da una serie di fondamentali avanzamenti tecnici, l’industria inglese aveva esaurito gli acquisti impliciti nel fascio originario di innovazioni che avevano costituito la rivoluzione industriale. Aveva esaurito, piú precisamente, gli acquisti maggiori: le industrie stabilite non rimasero ferme; il mutamento era insito nel sistema, e le innovazioni se mai furono piú frequenti di prima. Ma il prodotto marginale dei perfezionamenti diminuiva man mano che saliva il costo dell’attrezzatura e si riduceva il vantaggio materiale sulle tecniche esistenti.
Questa decelerazione fu invertita soltanto quando, intorno alla svolta del secolo, una serie di grandi passi avanti aprirono nuove aree di investimento. Questi anni videro la vigorosa fanciullezza, se non la nascita, dell’energia e dei motori elettrici, della chimica organica e dei prodotti sintetici, del motore a combustione interna e dell’automobile, della manifattura di precisione e della produzione a catena di montaggio: un grappolo di innovazioni che si sono guadagnate il nome di Seconda rivoluzione industriale. Si può ritenere che lo sfruttamento energico delle possibilità di risparmio sui costi insite in queste innovazioni avrebbe potuto determinare un’ulteriore diminuzione dei prezzi, anche se, dato lo stato della tecnologia, la loro relativa potenza d’urto doveva necessariamente essere minore di quella dei progressi pionieristici del XVIII secolo. Di fatto, però, l’Inghilterra non sfruttò a fondo le possibilità offerte, e l’iniziale rilancio dei prezzi provocato dagli afflussi d’oro dal Sud Africa (Witwatersrand, 1887), dall’Australia occidentale (1887) e dal Klondike (1896) ebbe nuova lena e rinforzo da un modello di investimenti a lenta remunerazione in beni di consumo e servizi. Poi, naturalmente, venne la prima guerra mondiale, portando con sé pressioni inflazionistiche che rendono impossibile un confronto con il periodo precedente.
Nondimeno, questo grappolo di innovazioni segnò l’inizio di una nuova fase ascendente, un secondo ciclo di sviluppo industriale che è tuttora in corso e le cui possibilità tecnologiche sono lungi dall’essere esaurite. È in questo contesto che si può comprendere la discussione sulla data del «climaterio» dell’Inghilterra. Età critica vi fu; la questione è se essa ebbe luogo negli anni 1870 o 18904. La risposta dipende evidentemente dal punto di vista. La fine dopo il 1873 dell’alta prosperità e il persistente malessere dei decenni seguenti segnalano in effetti il crepuscolo della Rivoluzione industriale; mentre la cerniera degli anni ’90 segna l’inizio di una nuova corsa.
La Germania presenta un netto contrasto. L’economia tedesca, nonostante tutte le sue capacità potenziali, era molto indietro a quella inglese nel 1870 quanto a assimilazione e a diffusione della tecnologia della Rivoluzione industriale. Larghi settori dell’industria erano ancora da meccanizzare; la manifattura casalinga continuava a predominare in molti campi; la rete fe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prometeo liberato
  3. Prefazione
  4. Prometeo liberato
  5. I. Introduzione
  6. II. La Rivoluzione industriale in Inghilterra
  7. III. L’emulazione continentale
  8. IV. Il divario scompare
  9. V. Fiato corto e nuovo slancio
  10. VI. Gli anni tra le due guerre
  11. VII. Ricostruzione e sviluppo dopo il 1945
  12. VIII. Conclusione
  13. Indice analitico
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright